domenica 27 novembre 2016

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Ermete e Platone così gli italiani inventarono l’Umanesimo 
Un saggio di Massimo Cacciari ci fa riscoprire il pensiero dei nostri filologi, da Valla a Ficino

ALBERTO ASOR ROSA
Ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, arricchendone la memoria. E ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, rovesciandone la memoria, gettando lo sguardo più in profondità, dove le vecchie categorie servono ormai a poco o niente, prospettando la possibilità di una luce che, ripartendo dalle nostre radici, arriva a illuminare il nostro presente. Non v’è ombra di dubbio che a questa seconda categoria appartenga l’ultimo dei Millenni Einaudi, recentemente apparso: “Umanisti italiani. Pensiero e destino” a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari. Gli “umanisti”, com’è, o dovrebbe essere, noto, sono quel gruppo, numeroso e variamente
inclassificabile di intellettuali — filosofi, filologi, letterati, poeti e artisti — che, ricollegandosi più direttamente al passato classico, e assumendone variamente le lingue, il latino e il greco, improntano di sé tutta la cultura italiana del secolo XV: prima, com’è accaduto spesso nella nostra storia, facendo perno su di una indiscutibile capitale come Firenze; poi ramificati e diffusi sull’intero territorio nazionale, da Palermo a Napoli agli stati padani fino, in un fulgore finale trionfale, a Venezia. Rispondono ai nomi, solo per citare i più eminenti, di Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Giovanni Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro, Angelo Poliziano, Marsilio Ficino… Su questa complessa materia Massimo Cacciari interviene con ammirevole profondità e chiarezza. Spiace limitarsi a pochi accenni nell’ambito di una recensione giornalistica. Ma vediamo.
Il saggio di Cacciari, che porta il titolo significativo di Ripensare l’Umanesimo, si dirama in molteplici direzioni, ma centrale, e decisivo, secondo me, è il punto contenuto e sviluppato nel terzo paragrafo: Philophica Phlologia. E cioè: la fama acquisita dagli umanisti in campo filologico — come rinnovamento e approfondimento dell’analisi dei misteri della lingua, dello stile e delle varie forme dell’espressione culturale ed artistica — è stata universalmente e in ogni tempo riconosciuta e valorizzata. Ma è un limite, se non addirittura un errore, fermarsi qui. Perché la filologia umanistica italiana non sarebbe così acuta e penetrante nelle analisi stesse che costituiscono, secondo la tradizione, il campo privilegiato, anzi esclusivo, del suo operare, se essa non provenisse da una fonte più profonda dell’essere, quella, appunto, che solo Sophia può investigare e definire. Più esattamente in Cacciari: «Ciò significa che il valore di ciò che Filologia possiede si esprime pienamente… soltanto allorché Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel momento in cui desidera ardentemente l’immortalità… ». Ossia: «Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i “misteri di Platone”».
Questo rapporto-scambio ininterrotto è la porta aperta attraverso la quale una diversa, più profonda e inalterabile comunione tra le discipline letterarie, le arti (vedi il ruolo qui attribuito a Leonardo da Vinci) e il pensiero, può essere stabilita e mantenuta. A una dialettica dei diversi può subentrare il dominio (pressoché divino) di uno scambio reciproco senza fine, al quale non si vede perché mai si dovrebbe rinunciare. Ancora Cacciari: «Filosofia, Filologia, Ermete rimangono figure distinte, eppure soltanto il loro rapporto consente di conoscere davvero la cosa. Non si ritorna alla cosa se non attraverso la loro relatio, quel logos che raccoglie in unità i loro distinti metodi ».
Dovrei ora entrare nel merito delle molteplici direzioni d’indagine, cui la prospettiva cacciariana apre le porte (eloquentemente accennate, peraltro, nei titoli dei due paragrafi successivi a quello qui in precedenza sommariamente riassunto: Umanesimo tragico e La pace impossibile). Poiché qui tuttavia non posso farlo distesamente, preferisco continuare a mantenermi sulle generali. Per esempio. Impostate così le cose, il processo di elaborazione e formazione dell’Umanesimo allarga a dismisura i suoi confini. Da una parte (e anch’io precisamente su questo punto sono intervenuto più volte nel tentativo di far chiarezza), arriva fino a Dante, il Dante del De vulgari eloquentia, s’intende, ma anche quello della celestiale Commedia; dall’altra si spinge fino a Machiavelli (e non solo, ritengo, per i Ghiribizzi al Soderini, qui antologizzati) e a Guicciardini (che però costituisce secondo me un caso a parte), e, più avanti, fino a Vico a Leopardi («Un’amicizia stellare lega Alberti e Leopardi»).
Ancora. Colpisce, come spesso capita in Cacciari, l’oltranza di certe sue affermazioni. Per esempio, il “ridimensionamento” (non saprei definirlo altrimenti) del celebratissimo Erasmo da Rotterdam a confronto di alcuni dei più spregiudicati e profondi tra gli umanisti italiani, per esempio Lorenzo Valla: «Erasmo, ammiratore incondizionato del Valla filologo, riprenderà anche molti temi del suo epicureismo e della sua polemica contro l’ascetismo religioso, “imborghesendone” tuttavia alquanto la vis polemica… ». Cito questo esempio erasmiano, particolarmente significativo, per segnalare quali conseguenze potrebbe portare anche sul piano della storia della cultura europea, e non solo italiana, la prospettiva cacciariana ove fosse adottata e approfondita.
Questo ragionamento, e il discorso che se ne ricava, sarebbero stati forse destinati a rimanere un po’ sospesi per aria, se non fossero accompagnati da una ricchissima antologia degli autori più direttamente chiamati in causa, impeccabilmente curata da Raphael Ebgi. Ricordo almeno questo. A ognuna delle otto sezioni in cui l’antologia è divisa, Ebgi ha premesso un’introduzione, la quale, più che riprendere, almeno nella maggioranza dei casi, il discorso cacciariano, sviluppa in maniera autonoma analisi e valutazioni, attentissime soprattutto alla lettera dei testi.
Naturalmente — lo dico senza ironia — un’impostazione del genere, rigorosamente perseguita, non poteva questa volta non lasciare in secondo piano, l’altro lato del problema. E cioè la decisiva, profonda, ineliminabile influenza, che, passando attraverso la ricostruzione del classico e delle sue forme, doveva portare di lì a qualche anno al trionfo della civiltà rinascimentale italiana, vale a dire al completamento di quel colossale “ciclo delle origini”, che da Dante, passando (appunto) attraverso l’Umanesimo, arriva fino ad Ariosto, e lì si ferma (con la ripresa difficile e dolorosa di Torquato Tasso, e che avrebbe voluto rimettere insieme tutto, e non ci riuscì, né poteva riuscirci).
Un solo punto, forse, di questa materia, avrebbero potuto i due autori di questo così ricco volume mettere fin d’ora in piena luce, del resto del tutto coerentemente con le loro premesse e il loro ragionamento, e cioè la forma dei testi, di cui trattano. Non è difficile accorgersi che sono tutti, o quasi tutti, dialoghi o lettere o responsive, polemiche o no: cioè ubbidiscono in primo luogo alla sovrana legge della comunicazione e dello scambio. Appunto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Una filologia-filosofia, come quella che Cacciari ed Ebgi descrivono, è destinata peculiarmente ad assumere una forma comunicativa o dialogica. Gli umanisti hanno dato ragione ai due autori anche da questo punto di vista.
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