mercoledì 16 novembre 2016

Produrre "populismo" e poi pensare che le stesse ricette che l'hanno prodotto possano esorcizzarlo


Club Soros, i milionari per la resistenza a Donald IL CASO. IL FILANTROPO RADUNA I FINANZIERI LIBERAL. IL MILIARDARIO “VERDE” STEYER: “CONTRO TRUMP SPENDERÒ TUTTO IL NECESSARIO”ALBERTO FLORES D’ARCAIS Rep
NEW YORK. Una riunione a porte chiuse, un “club dei milionari” progressisti che si interroga sulla sconfitta più cocente e su come affrontare la guerra (politica) a Donald Trump. Dietro le quinte a muovere le pedine è George Soros, finanziere, miliardario, filantropo e irriducibile liberal. È lui, con la sua Democracy Alliance (fondata nel 2004 nel tentativo, fallito, di strappare con John Kerry la Casa Bianca a George W. Bush) che in fretta e furia ha organizzato la “tre giorni” di Washington, chiamando a raccolta — nel lussuoso hotel Mandarin Oriental — i grandi finanzieri di area democratica per decidere strategia, tattica (e soprattutto finanziamenti) della resistenza al nuovo presidente Usa. Tra questi, il miliardario e attivista per l’ambiente Tom Steyer (che ha profuso 140 milioni di dollari contro il cambiamento climatico), che ha detto di essere pronto a spendere tutto ciò che ci vorrà per combattere l’agenda di Trump. Il programma del presidente eletto è «un attacco terrificante alla nostra visione di un paese più giusto», dicono a Democracy Alliance e il presidente Gara LaMarche è netto: «Non si perde un’elezione che si doveva vincere senza commettere errori pesanti nella strategia e nella tattica».
Loro mettono i soldi, la testa pensante deve essere politica. In questo momento, con un vertice del partito annichilito dal fallimento elettorale della poderosa “Clinton Machine” e le manifestazioni di piazza, nessuno meglio di Elizabeth Warren, donna, senatrice e beniamina dei giovani della sinistra radicale appare come la persona più adatta a guidare la riscossa. Mentre Sanders è in giro a presentare il suo ultimo libro, è lei che illustra alla platea i perché di una «sconfitta impossibile », è lei che spiega come e perché un paio di compromessi del passato — quello sulla riforma sanitaria di Obama e quello sullo stimolo all’economia — hanno contribuito alla vittoria di The Donald. Se ci fosse stata una maggiore e più massiccia espansione della copertura sanitaria e interventi statali più robusti, questa la tesi della Warren, molti elettori democratici non avrebbero scelto Trump al posto di Hillary.
Sarà lei, insieme al “club dei milionari”, a valutare su chi l’ala liberal del partito deve puntare per riconquistare la Casa Bianca già nel 2020. Compito che potrebbe essere affidato a Keith Ellison (in corsa per la presidenza del partito), oppure a Kamala Harris, eletta trionfalmente al Senato per la California. Tutti e due cinquantenni, tutti e due amati (lei più di lui) dai militanti radicali e da chi ha votato (in odio a Hillary) per altri candidati.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

LA LEZIONE DI TRUMP ALLA SINISTRA EUROPEA MARC LAZAR Rep 16 11 2016
DOPO la Brexit, Donald Trump. E in prospettiva, il referendum del 4 dicembre in Italia. L’esito di questo voto, quale che sia, rischia di provocare una rottura irrimediabile in seno al Pd.
SEGUE A PAGINA 33 SERVIZI DA PAGINA 2 A PAGINA 6 E 28
LO STESSO giorno, in Austria, il candidato del partito di estrema destra Fpö potrebbe essere eletto presidente della Repubblica. In Olanda, nel marzo 2017 i populisti del Partito per la Libertà di Geert Wilders peseranno sulle elezioni legislative. E a primavera in Francia la sinistra rischia di non arrivare al secondo turno delle presidenziali, che si giocherebbe allora tra il candidato della destra e Marine Le Pen. Infine, in Germania l’Spd guarda con apprensione al voto dell’autunno 2017.
La sinistra è sotto shock. Dopo la crisi del periodo tra le due guerre, quando rischiò di essere annientata non solo dal fascismo e dal nazismo ma anche dalle lacerazioni fratricide tra comunisti e socialisti, oggi affronta una nuova sfida: l’ascesa dei vari populismi, di destra, di sinistra, o anche né di destra né di sinistra, regionalisti, nazionalisti o generati da imprenditori straricchi, come nel caso di Silvio Berlusconi in Italia, e ora in quello di Donald Trump negli Stati Uniti. Populismi che peraltro non scuotono solo la sinistra, ma anche la destra, sia pure in misura minore. Prima di vincere le presidenziali, Trump aveva battuto i suoi rivali alle primarie e stravolto il partito repubblicano. In Francia Marine Le Pen sottrae voti alla sinistra, e al tempo stesso attira sulle sue tematiche, ma anche sulla sua persona, gran parte della destra. In Italia il Movimento 5 Stelle ha sparigliato il gioco politico captando voti a sinistra e a destra, e riportando una parte degli astensionisti alle urne.
Di fatto, tutte le grandi famiglie politiche di destra, di sinistra e di centro che hanno dominato la competizione politica in Europa e guidato i governi sono destabilizzate. Non solo: i populisti riescono a imporre la loro percezione della realtà. Pretendono di incarnare il popolo unito e portatore di verità contro un’élite che descrivono come omogenea, corrotta, sclerotizzata e malefica. E non pochi osservatori danno credito a tali argomenti, spiegando ad esempio che Trump ha vinto perché il popolo ha voluto punire le élite; ma dimenticano che una maggioranza di americani, ancorché risicata, ha votato per Hillary Clinton. Nel contesto attuale non possiamo accontentarci di spiegazioni semplicistiche, che riportano tutto a un’unica causa. Se i populismi avanzano ovunque in Europa, è per l’azione congiunta di vari fattori, diversamente articolati a seconda dei Paesi: la globalizzazione senza regole, le disuguaglianze crescenti, una democrazia senza popolo e un’Europa senz’anima né progetto.
Queste le sfide che la sinistra è chiamata ad affrontare. Di concerto con altre forze, dovrà inventare procedure per imporre regole alla globalizzazione, rifiutando al tempo stesso il protezionismo che sta riemergendo ovunque. E operare per il ritorno della crescita, nel rispetto dell’ambiente, creando posti di lavoro e riducendo la disoccupazione che distrugge i rapporti sociali, condanna alla precarietà intere fasce di popolazione, inasprisce le disuguaglianze sociali, di genere, territoriali, generazionali, culturali (tra laureati e chi non ha un titolo di studio), nonché tra cittadini di un Paese e immigrati. La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione — dagli operai ai ceti medi, ai giovani a basso livello di istruzione o in via di declassamento, che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie. D’altra parte la sinistra è vittima di una profonda diffidenza nei riguardi delle istituzioni, a livello sia nazionale che europeo, in particolare da parte delle fasce di popolazione meno abbienti a basso livello di istruzione, che guardano alla politica e alle élite dirigenti con disaffezione o addirittura disgusto; e dunque non può più accontentarsi di rivendicare la propria esperienza e responsabilità, né di puntare tutto sulla politica pubblica. Dovrà rilegittimare la politica. Perché esiste nella società una profonda aspirazione a una politica diversa, più trasparente, più aperta, più partecipativa. Ciò presuppone una profonda riconversione dei suoi dirigenti, del suo modo di fare politica, del suo rapporto coi cittadini e delle sue forme organizzative.
Infine, l’Europa è scossa dalla spinta degli egoismi, dalla tentazione del ripiegamento, dall’ascesa del razzismo e della xenofobia, da timori e angosce d’ogni genere, a cominciare dalla paura dello straniero. Questo impone alla sinistra di rilanciare il progetto europeo, e di condurre una coraggiosa battaglia culturale, evitando gli atteggiamenti moralistici e sprezzanti verso chi si sente abbandonato e non sapendo a che santo votarsi presta orecchio agli argomenti più demagogici.
La sinistra del XIX e del XX secolo è acqua passata. Costretta, ancora una volta, ad adattarsi alla realtà per non essere spazzata via, dovrà certamente affrontare terribili lacerazioni interne, e portare avanti una grande opera di ricomposizione politica. In quest’impresa gravida di incognite, dovrà però essere guidata da due valori cardinali: l’uguaglianza, ripensata nelle condizioni attuali, e — per riprendere la parole di Carlo Rosselli — la libertà per i più umili.
Traduzione di Elisabetta Horvat
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Obama avverte l’Europa “L’austerità crea populismi ” Il Presidente Usa in Grecia da Tsipras: “Rabbia e paura alimentano le divisioni” Paolo Mastrolilli  Busiarda 16 11 2016
- «L’austerità da sola non basta a portare la prosperità». E’ il messaggio con cui il presidente Obama si è congedato dall’Europa, parlando ieri durante la sua visita in Grecia. Nello stesso tempo ha messo il continente in guardia dal pericolo si rialimentare le divisioni basate sul «crudo nazionalismo, il tribalismo» e il populismo, che nel secolo scorso avevano provocato «un bagno di sangue». Quindi ha detto di non sentirsi responsabile per la vittoria di Trump nelle elezioni, generata da una vaga urgenza di cambiamento nell’elettorato, ma pur favorendo la transizione per dovere costituzionale, ha ribadito di essere «turbato dalla sua retorica non necessariamente collegata ai fatti».
Obama aveva immaginato questo ultimo viaggio in Europa come una missione per preparare la strada alla nuova amministrazione Clinton. La sosta in Grecia doveva servire a elogiare le riforme fatte nel Paese, che hanno evitato lo sfaldamento dell’Unione Europea considerata ancora strategica per la stabilità, e spingere il continente verso politiche economiche più espansive. Il passaggio successivo in Germania era un saluto alla cancelliera Merkel, considerata forse l’alleato chiave nella regione, ma anche ai leader di Gran Bretagna, Francia e Italia, che incontrerà venerdì. La vittoria a sorpresa di Trump ha cambiato l’agenda, perché ora il capo della Casa Bianca dovrà introdurre il suo successore, placando le preoccupazioni per la sue posizioni favorevoli alla Brexit, e critiche verso la Ue e la Nato.
Obama ieri ha incontrato il premier greco Tsipras, e oltre a elogiare le riforme, ha approfittato dell’occasione anche per inviare segnali all’Europa. Ha detto che «l’austerità non basta a portare la prosperità», nella speranza di spingere proprio la Merkel a cambiare linea e favorire la crescita, rimandando la responsabilità fiscale a quando la ripresa consentirà di ricavare le risorse necessarie a ridurre il debito. Il presidente uscente però ha lanciato anche un altro avvertimento: «Noi sappiamo cosa succede quando gli europei cominciano a dividersi tra loro ed enfatizzare la differenze. Il Ventesimo secolo fu un bagno di sangue. E nonostante le frustrazioni e i fallimenti del progetto di unificazione del continente, gli ultimi cinque decenni sono stati un periodo di pace e prosperità senza precedenti in Europa».
Questo messaggio vale anche per Trump, che aveva appoggiato la Brexit e pronosticato lo sgretolamento della Ue. Obama ha detto di non sentirsi responsabile per il suo successo, perché «la maggioranza degli americani concorda con la mia visione del mondo. Questo però pone una domanda: perché una persona con una visione molto differente è stato eletto? A volte la gente vuole provare qualcosa giusto per vedere se possiamo scuotere le cose». Quindi ha fatto questa analisi: «La globalizzazione, unita alla tecnologia e i social media, ha scombinato le vite delle persone in maniera concreta. Anche psicologicamente, la gente è meno sicura della propria identità nazionale e del suo posto nel mondo. Diventa disorientante. Non c’è dubbio che ciò ha prodotto movimenti populisti a destra e a sinistra in Europa». Obama non si sente responsabile di «quello che dice o fa il presidente eletto», aiuterà la transizione, e crede che su Ue e Nato «proseguirà la linea del passato». Ma resta «turbato dalla sua retorica non necessariamente collegata ai fatti», e pronto ad alzare la voce se andrà contro gli interessi dell’America.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il nuovo Obama riparte dall’Europa “L’austerità da sola non crea prosperità” In Grecia il presidente Usa lancia l’alleanza anti-populisti: “Lotta alle disuguaglianze”. Scontri ad AteneETTORE LIVINI Rep
DAL NOSTRO INVIATO ATENE.
Barack Obama inizia dall’Europa il dopo-Casa Bianca. Il passaggio di consegne a Donald Trump è previsto solo tra 70 giorni «e il mio compito adesso è garantire una transizione serena », ha ammesso ieri il presidente Usa. Lui però è pronto a voltare pagina. E a cogliere l’occasione dell’ultimo viaggio di stato - ieri e oggi in Grecia, i prossimi giorni in Germania e Perù - per rilanciare la sua agenda «a livello sovranazionale » e gettare le basi di un’alleanza globale contro l’avanzata del «rozzo nazionalismo » nel mondo. Una ragnatela trasversale di leader – primo iscritto il premier ellenico Alexis Tsipras – impegnata a «combattere rabbia e disuguaglianze che creano i populismi».
La ferita della sconfitta elettorale è fresca: «Ho imparato la lezione », ha detto Obama ad Atene, dove ieri sera ci sono stati incidenti tra polizia e anarchici durante una manifestazione anti- americana. «Dobbiamo affrontare in fretta i problemi sociali che mettono gli uni contro gli altri - ha aggiunto - la globalizzazione crea incertezza ma non voglio un mondo fondato sul “noi contro loro” diviso per linee etniche, religiose o tribali». Inutile quindi piangere sul latte versato. Il voto Usa è andato come è andato - «sono convinto che la mia ricetta fosse giusta ma il parlamento repubblicano me l’ha bloccata», ha spiegato - e la quattro giorni in Europa è l’occasione non solo per tranquillizzare i partner Ue («Trump manterrà gli impegni con la Nato ») ma anche per dar loro una mano ad alzare una barriera contro «i nuovi populisti di destra e di sinistra», calderone in cui Obama infila pure Sanders.
La tappa in Grecia è servita a tradurre subito in pratica il senso della svolta sovranazionale del presidente Usa. I suoi critici oltre Atlantico lo considerano ormai un’”anatra zoppa”. Lui invece – candidato in pectore alla guida di questa Santa alleanza contro la deriva dei nazionalismi – si è mosso da leader dispensando compiti a casa per i possibili futuri compagni di viaggio: l’Europa - il vero destinatario della tirata d’orecchi a dire il vero è la Germania – deve imparare che «l’austerità da sola non porta prosperità». La Grecia quindi «ha diritto a un taglio del debito che renda l’economia sostenibile e ponga la parola fine alle gravi sofferenza del popolo ellenico ». Messaggio che recapiterà domani ad Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, restii a concessioni prima delle elezioni tedesche del prossimo anno. Tsipras in cambio deve «continuare a fare le riforme che ha iniziato con tanto coraggio e dare una mano a risolvere il problema di Cipro». La stabilità del Mediterraneo orientale è un tema delicatissimo per gli Usa. «Le due parti dell’isola hanno presidenti pronti ad arrivare a un accordo che favorisca tutti. Grecia, Turchia e Usa devono adoperarsi per cogliere in tempi strettissimi questa opportunità» ha detto Obama. Obiettivo: tenere ancorato Erdogan, con molto pragmatismo, all’Occidente evitando che il paese slitti verso Mosca. «L’accordo Ue-Ankara sui migranti sta funzionando – ha detto il presidente uscente – e la Grecia ha dimostrato grande umanità, con tutti i problemi che aveva, nella gestione del dramma dei rifugiati ». Tema su cui sia gli Usa che l’Europa «devono fare di più».
Parola d’ordine, insomma, serrare le fila, ricucire i contrasti. «Gli anni all’inizio del XX secolo in cui le nazioni europee hanno privilegiato le divisioni si sono chiusi con un bagno di sangue. Quelli dove si è pensato ai valori comuni nel dopoguerra hanno portato a mezzo secolo di pace». Il terremoto della Brexit e la questione migranti hanno lasciato oggi crepe visibili nella casa comune del Vecchio continente. Ma con Trump da una parte e la Russia dall’altra, Obama sa che questa è la trincea da difendere. E non vuole che l’incontro di domani con Merkel, destinata a diventare il testimonial politico di molti dei valori che ha difeso dalla Casa Bianca, abbia il sapore di un passaggio di consegne. «La storia non va mai in linea retta. A volte va di fianco o anche indietro – ha sostenuto -. Non si vincono tutte le battaglie. Ma sono certo che alla fine la guerra la vincerà chi privilegia i valori comuni e non quelli che dividono». Un fronte un po’ in disarmo in questi tempi che Obama, da oggi in poi, proverà ad aiutare a rimettere insieme.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Quelle idee condivise NEll’UNIONE Vladimiro Zagrebelsky
Lo sconcerto in cui è precipitata buona parte d’Europa per l’elezione di Trump spinge ora l’attenzione verso le piccole attenuazioni che paiono filtrare dalle sue interviste rispetto a quanto egli ha detto in campagna elettorale. Speranze e timori spingono a enfatizzare o addirittura a inventarsi qualche sua marcia indietro. Come se le parole dette dal candidato contassero meno di quel che si presume o spera che effettivamente farà. Ma le parole e le promesse del candidato contano, poiché è su quelle parole e promesse che egli è stato preferito e votato. Le parole contano e contano i messaggi lanciati, che orientano l’opinione pubblica e ne riflettono aspettative e convinzioni. Va dunque ricordato ciò che il candidato Trump ha detto sugli immigrati e sulle minoranze, sull’inesistente pericolo per l’ambiente e la necessità di rilanciare petrolio e carbone, sul suo favore per le armi portate dai cittadini. Ricordare serve per capire la personalità del nuovo Presidente, ma soprattutto per capire quella parte di elettorato che lo ha scelto.
Sotto molti e determinanti aspetti i messaggi culturali e politici che gli elettori di Trump hanno ricevuto e approvato sono alternativi agli ideali su cui è venuta costruendosi l’Ue e si fonda la Costituzione italiana.
Ancora una volta, è stata la cancelliera tedesca a menzionare i valori propri dell’Unione nel suo saluto al nuovo presidente. A differenza d’altri silenziosi, essa lo aveva già fatto con la Cina e con la Turchia di Erdogan. Prevale invece tra i governanti europei la fretta di promettere che continuerà la stretta e tradizionale collaborazione e alleanza, ecc., ecc. Come nulla fosse.
Eppure la piattaforma politica che ha attirato metà degli elettori americani merita qualche pensiero da parte di noi europei, su due linee almeno. La prima dovrebbe essere l’enunciazione e la ripetizione del significato ideale del progetto di unificazione europea, del suo permanente valore anche se ancora non realizzato. La seconda, inevitabile, spinge a guardare una realtà europea, che riflette posizioni largamente simili a quelle lanciate dal candidato Trump al suo elettorato, sapendo che l’indicibile ora può essere detto, l’inimmaginabile può essere fatto.
Il processo di unificazione europea ha avuto inizio sul terreno economico del mercato comune. Ma molto presto il riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali si è imposto come carattere ineludibile dell’azione dell’Unione e degli Stati membri. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione è il punto di arrivo nella definizione del suo carattere liberale e umanistico. Sulla gestione dell’afflusso di migranti, come su altri terreni, i principi europei sono diversi, incompatibili con il programma di Trump. Il diritto all’istruzione, ad esempio, e il diritto alla salute sono acquisiti in Europa. Non sarebbe possibile qui abbandonare il servizio pubblico, che deve assicurare quelli e altri diritti civili e sociali. Il sistema di welfare europeo, nelle sue varie forme, esprime una visione tipicamente europea. Certo vi sono insufficienze, ma i diritti e le libertà storicamente emersi in Europa continuano a indicare la strada da percorrere, impedendo di invertirne la direzione. Sarebbe inconcepibile in Europa semplicemente abolire il pur timido «Obamacare», come Trump ha dichiarato di voler fare.
Tuttavia molto di quanto Trump dice e i suoi elettori approvano è condiviso ora da settori ampi delle società europee e delle loro formazioni politiche, su un terreno preparato dalla crisi e dalle crescenti diseguaglianze economiche. Nazionalismo, prevalenza assoluta del successo economico, atteggiamenti impietosi, spinte verso l’esclusione degli altri sono visibili e ostentati. E a una forte militanza reazionaria non si accompagna adeguata militanza che richiami i valori fondativi dell’Unione europea e li rivendichi con orgoglio. Brexit è un segnale e un incitamento. Da destra e da sinistra, con la critica al modo d’essere attuale dell’Unione, viene lanciato un messaggio di ripudio del progetto stesso originario. L’Unione da parte sua tollera che la solidarietà sia rifiutata e che governanti europei abbattano lo Stato di diritto e si vantino di aver instaurato «democrazie autoritarie» per difendere la «identità nazionale». E altri governanti criticano l’Unione con linguaggio e modi che la indicano all’opinione pubblica come il nemico da combattere. Non pensiamo dunque che il messaggio di Trump venga da altrove. Esso è tra noi e non porta nulla di buono.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Tre mesi per un dietrofront Così Renzi va a caccia di voti La decisione finale sul veto europeo arriverà solo a dicembre Alessandro Barbera  Busiarda 16 11 2016
Dal Renzi aspirazionale e spinelliano sono passati meno di tre mesi. Correva il 22 agosto, gli inglesi erano ancora sotto la sbornia della Brexit e il premier italiano sul ponte della portaerei Garibaldi celebrava il mito europeista con Merkel e Hollande. «L’Europa non è un problema, semmai la soluzione». Doveva essere l’alba del direttorio dei tre grandi Paesi fondatori, e invece. «La Germania non rispetta le regole sul surplus commerciale. Senza politiche su economia e immigrazione, l’Europa rischia». Appena venti giorni dopo, il 16 settembre, Renzi molla Spinelli e abbraccia lo spirito della Thatcher. Il vertice di Bratislava è l’inizio di un’inversione di marcia che sfocia nell’annuncio sul veto alla revisione del bilancio comunitario.
Ai tempi dei social per un politico più della coerenza valgono consenso e risultati. Renzi non ha digerito le obiezioni di Bruxelles alle richieste di maggiore flessibilità sui conti pubblici, e soprattutto lo scarso impegno della Merkel perché all’Italia fosse riconosciuto lo sforzo di accoglienza verso le decine di migliaia di migranti che attraversano il Mediterraneo. Se il premier aveva bisogno di un alibi per alimentare la campagna elettorale in vista del referendum, l’ha avuto su un piatto d’argento. Per conquistare il voto degli italiani un po’ di antieuropeismo non guasta. «Siamo la terza via fra Salvini e Monti», dice da Ragusa. Comunque andrà, il 2018 sarà un anno elettorale, e per vincere occorre scendere sul terreno di Grillo. Dicono che il consiglio di far sparire la bandiera europea negli sfondi ufficiali sia arrivato da Jim Messina, l’artefice della rielezione di Obama alla Casa Bianca.
Quello annunciato oggi da Renzi non è ancora un veto. Lo ammette il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi che la definisce semmai «una riserva». La discussione sul bilancio comunitario si fa ogni sei anni, la prossima sarà per l’esercizio 2020-2026. Ma in vista della «revisione di metà mandato» la Commissione ha fatto una proposta per introdurre più flessibilità all’interno delle sei grandi rubriche in cui oggi si dividono le spese: «Crescita intelligente e solidale», «Amministrazione», «Europa globale», «Sicurezza e cittadinanza», «Crescita sostenibile». All’interno di queste sei voci oggi è difficile spostare le spese da un capitolo e l’altro. La presidenza di turno slovacca a sua volta ha formulato una proposta di compromesso. Il sottosegretario agli affari europei di Bratislava Ivan Korcok alza le spalle: «Pur rispettando la riserva italiana c’è consenso per portare la proposta al Parlamento europeo». Gozi chiede «garanzie sul reale aumento delle risorse a favore delle priorità italiane: immigrazione, sicurezza, risorse europee per i giovani». Korcok derubrica gli argomenti italiani a propaganda: «La nostra proposta prevede sei miliardi in più: 2,4 miliardi per il sostegno alla formazione e occupazione dei più giovani, altri 3,9 per il controllo delle frontiere». Il parere del Parlamento serva a far pressione sugli unici due Paesi ancora contrari alla proposta: l’Italia e la Gran Bretagna, che vuole astenersi. In ogni caso quel parere «non potrà superare un eventuale veto formale italiano quando a dicembre il Consiglio voterà la proposta», spiega l’ex ministro Enzo Moavero. «Se necessario andremo fino in fondo», conferma Gozi. Ma in quel caso si tratterà di un no alle stesse richieste italiane, ovvero di spendere meno per alcune voci e più per altre. Capita, in politica.
Twitter @alexbarbera
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Pronti al veto su conti Ue Renzi: “Con i nostri soldi non si alzeranno i muri” Il governo contrario alla revisione del bilancio Replica di Bruxelles: ci sono sei miliardi in piùVALENTINA CONTE
ROMA. L’Italia si oppone alla revisione del bilancio europeo 2014-2020. E conferma la «riserva» alla proposta di compromesso fatta dalla presidenza slovacca di turno. «L’anticamera del veto », la definisce il premier Matteo Renzi al termine di una giornata tesa: «Non accettiamo che con i nostri soldi si alzino muri». Non è ancora un veto, «perché non c’era una votazione formale», spiega il sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi, uscendo dal Consiglio Affari generali di Bruxelles. «Ma senza l’accordo dell’Italia il bilancio pluriennale non può essere adottato perché richiede l’unanimità».
Il suo omologo slovacco non teme però intoppi, anche perché non è la prima volta che un paese minaccia il veto, senza mai esercitarlo. «Abbiamo raggiunto un ampio consenso sulla nostra proposta », tranquillizza il sottosegretario Ivan Korcok, deciso a presentare l’accordo al Parlamento Ue «pur rispettando la riserva espressa dall’Italia, che ha bisogno di più tempo, e l’astensione del Regno Unito». E ricorda che la proposta prevede «oltre 6 miliardi in più» proprio sui capitoli che stanno a cuore all’Italia: migrazioni, sicurezza, disoccupazione giovanile e programmi per la ricerca. «Priorità» che invece Gozi ritiene garantite in modo «non accettabile». Da un bilancio, tra l’altro, «deciso dal governo Monti nel 2012», ricorda Renzi, con «numeri negativi per l’Italia». E dunque per il premier «nessuna polemica contro l’ideale europeo, ma su questi temi non ci faremo prendere in giro, l’Italia ha smesso di essere un problema per l’Europa». Gozi si spinge anche più in là prevedendo che «se l’Europa non cambia, siamo di fronte all’inizio della disintegrazione», «stanchi come siamo delle ambiguità e contraddizioni, di un’Europa che dice alcune cose e poi non le fa».
La revisione del bilancio 2014-2020 non è l’unico punto di frizione con Bruxelles. Anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ieri ha tuonato contro la revisione del regolamento di Dublino, la cui impostazione viene considerata «del tutto insoddisfacente», in quanto apre a una flessibilità nel capitolo degli impegni presi dai paesi europei sull’immigrazione «non accettabile». Con il rischio di «caricare molti oneri sui paesi di prima accoglienza». E dunque «se non verrà corretta, ci pronunceremo contro», dice chiaro al primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans e al presidente del Parlamento Martin Schulz, ai quali formalizza tutte le «obiezioni e riserve» dell’Italia.
Altolà che però irritano l’opposizione. «Il veto? Una minaccia bluff che non esiste, il solito imbroglio di Renzi», reagisce Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. «L’unanimità è richiesta solo per il bilancio pluriennale, per quello del 2017 basta la maggioranza semplice». Aggiunge Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia: «È evidente che Renzi è in campagna elettorale: tutte le questioni con l’Europa le poteva porre negli ultimi due anni e non l’ha mai fatto. Scommetto che tutti i vincoli posti da Renzi, anche sul terremoto, cadranno dopo il 4 dicembre». Ne è convinto anche Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera ed esponente di spicco del Movimento Cinquestelle: «Sembra un’iniziativa elettorale, la solita pantomima. Renzi finge di litigare con l’Ue, poi firma tutto. Fino al 4 dicembre lo vedremo contro l’Europa, poi riprenderà a far trattare l’Italia come una colonia». Per il leader della Lega Matteo Salvini, «Renzi è un bugiardo, le minacce di veto l’ennesima pagliacciata. L’Italia in Consiglio ha votato a favore 148 volte su 148. Mai un’astensione, mai un no: Renzi ha detto sempre sì all’Europa su tutto: banche, tasse, immigrazione, Turchia».
L’ultima volta che l’Italia ha battuto i pugni sui tavoli di Bruxelles era il 2012. L’allora premier Monti salvò l’Italia da tagli pesanti. E si impose, con la Spagna, per lo scudo anti-spread.
©RIPRODUZIONE RISERVATA


Un attacco studiato a tavolino il premier punta a recuperare consensi tra gli anti europeisti Il no in vantaggio quasi ovunque ha spinto a un cambio di strategia. Se Renzi dopo il referendum resterà in sella lavorerà per modificare le regole dell’UnioneALBERTO D’ARGENIO
ROMA. Sono le ultime cartelline planate in questi giorni sulle scrivanie di Palazzo Chigi a spiegare l’offensiva del governo italiano che in Europa mette due veti in un solo giorno. Due dossier sui quali l’Italia ha ottime ragioni per essere scontenta, ma il piglio così aggressivo si spiega anche con il contenuto di quelle cartelline: gli ultimi sondaggi in vista del referendum del 4 dicembre. E le notizie non sono delle migliori per il governo. Stando alle rilevazioni, infatti, il Sì è sotto in tutte le regioni ad eccezione di una, l’Emilia Romagna. Con il No attestato intorno al 53% a livello nazionale. Ma a dettare la linea aggressiva in Europa c’è anche un altro dato che spicca nei report confezionati dai sondaggisti: gli attacchi all’Ue sono la cosa più apprezzata dagli italiani, che invece non sembrano interessati agli altri argomenti della campagna elettorale.
Renzi ha così capito che solo l’Europa scuote l’elettorato, a maggior ragione ora che prova a pescare voti al di fuori del tradizionale campo del Pd, tra i moderati di centrodestra più inclini a criticare l’Unione. Su impulso del premier, dunque, ieri i ministri impegnati a Bruxelles hanno attaccato, ma cambiando obiettivo rispetto alle ultime sortite. Gentiloni e Gozi non se la sono presa con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ma con il Consiglio, ovvero con i governi dell’Unione, in particolare con quelli dell’Est che con le loro politiche contro i migranti e il rifiuto ad essere solidali con i paesi in prima linea nell’accoglienza sono un bersaglio apprezzato da tutti.
Juncker dunque esce dal mirino italiano e guarda a caso proprio oggi la Commissione che presiede è chiamata ad esprimersi sulla Legge di Bilancio del governo Renzi. Meglio non surriscaldare gli animi, tanto più che il giudizio che arriverà metterà l’Italia in bilico. La Commissione non boccerà la manovra - e questo è già un risultato per Roma visto che il deficit nel 2017 resterà fermo al 2,4% del Pil e il debito salirà al 133,1% - ma congelerà il proprio giudizio fino a dopo il referendum, dunque ai primi mesi del 2017. Bruxelles concederà molto a Renzi, per il terremoto arriverà l’ok a non contare nel deficit fino a tre miliardi, con il via libera anche al finanziamento del piano Casa Italia voluto dal premier per mettere in sicurezza il Paese. Molto di più di quanto permetterebbero le regole europee. Idem per i migranti. Ma il punto è che le regole sono state approvate da tutti i governi e che la Commissione non può vedere le sue decisioni sconfessate dai ministri delle Finanze (Eurogruppo). Per questo comunque chiederà al governo di prendere le misure necessarie per chiudere, dopo il referendum, il gap tra la massima flessibilità concessa e il 2,4% di deficit della manovra (per Roma sarebbe il 2,3%, ma i conti di Bruxelles lo hanno portato su di un decimale). La Commissione non specificherà di quanto deve essere la correzione (si dovrebbe trattare di circa tre miliardi) e comunque lo scenario attuale è scritto sulla sabbia, dopo il referendum tutto cambierà.
Ma con i due veti Renzi punta anche a far capire ai partner che se dopo il voto del 4 dicembre resterà in sella, vuole cambiare davvero l’Europa. Altro messaggio che piace agli elettori. Per questo il premier ieri parlava di «Italia alternativa a questa Europa » e spesso ricorda che a marzo 2017 quando a Roma si celebreranno i 60 dei Trattati europei non accetterà un flop: «Gli altri leader sappiano - è il messaggio che Renzi spesso condivide con i suoi - che o l’Europa ripartirà da Roma o è meglio lasciar stare».
Dunque, per citare un ministro in stretto contatto con Renzi sui temi europei, i due veti di ieri «danno coerenza alle polemiche post Bratislava e ai messaggi della campagna elettorale». Peraltro con buoni motivi.
La riserva, anticamera del veto, posta da Gozi sulla revisione di medio termine del bilancio pluriennale dell’Unione (2018-2020) si fonda su dati solidi: mentre i governi dell’Est cresciuti a suon di fondi europei che manterranno anche nel prossimo triennio affondano la solidarietà Ue sui migranti e costruiscono muri, dal bilancio comunitario spariscono i soldi dei programmi comunitari che interessano all’Italia. I capitoli per solidarietà e flessibilità (ad esempio interventi per disastri naturali o per fronteggiare ondate migratorie eccezionali) passano da 1,5 miliardi a 900 milioni. I fondi per sviluppo e innovazione di Horizon 2020 vengono dimezzati a 200 milioni, stessa sorte per i fondi Erasmus e per le piccole e medie imprese, entrambi tagliati a 100 milioni. Tutto frutto del lavoro della presidenza di turno dell’Unione detenuta dal governo slovacco, che ha martoriato le proposte scritte dalla Commissione. Sul dossier si vota all’unanimità, al contrario che sul singolo bilancio 2017 anch’esso attualmente, in discussione, e dunque il no italiano può tenere tutto fermo, anche se è difficile immaginare che resti per tutto il 2017.
Poi c’è il veto sulla revisione di Dublino, ovvero le nuove regole sull’accoglienza dei richiedenti asilo bloccate da Gentiloni. Un altro dossier che va all’unanimità e che il governo slovacco di Robert Fico vorrebbe chiudere entro Natale. Ebbene, il premier di Bratislava, in ossequio alle richieste del gruppo di Visegrad del quale la Slovacchia fa parte insieme a Polonia (Kaczynski), Ungheria (Orban) e Repubblica Ceca, ha tolto l’obbligo a carico dei paesi dell’Unione di ospitare quote di rifugiati siriani o somali. La “solidarietà flessibilie”, è stata ribattezzata dai suoi autori, che h anche fatto sparire le sanzioni per i governi che non ospitano i migranti (250mila euro a rifugiato rifiutato) ideate da Juncker.
L’Italia ha dunque messo nel mirino dossier sui quali non può che incontrare il favore di tutta l’opinione pubblica, con il vantaggio da apparire aggressivo e “populista” di fronte agli elettori, a beneficio dei sondaggi. Dei quali ieri un Renzi in cerca della rimonta si è pubblicamente occupato con una battuta che guardava ai precedenti su Brexit e Trump: «Vanno male? Magari, con la sfortuna che portano...».
©RIPRODUZIONE RISERVATA






Nessun commento: