mercoledì 30 novembre 2016

Referendum: quelli troppo intelligenti per votare, quelli che spaccano il capello in quattro, quelli che non comprendono il conflitto cruciale


Mentre questi ultimi sono chiaramente degli idioti politici, in questa fastidiosa contesa referendaria, il premio pane e volpe è vinto da chi, mettendo sullo stesso piano aggressore e aggredito, invita all'astensione con la puzza sotto il naso tipica dello snob che non si mescola con il volgo ignorante o con la coda di paglia del paraculo che non vuole inimicarsi nessuno.
L'abiezione politica di queste posizioni cresce al crescere della pretenziosità delle argomentazioni con cui si cerca di imbellettare una spericolata arrampicata sugli specchi ovvero il vuoto [SGA].

La riforma ha aperto una nuova era di impegno diretto degli intellettuali Così si sono divisi scienziati e artisti, e c’è chi chiede di restare super partes
Corriere

Tutti contro il Cnel, la croce rossa del referendum. Un po’ di storia
Riforme. L’antenato nel 1902 con Zanardelli, il fascismo lo cancellò. Per i costituenti dava voce a operai e imprenditori. Ora Renzi vuole buttare il bambino con l’acqua sporca
.11.2016, 23:59
Tra i cambiamenti previsti dalla riforma costituzionale ce n’è uno su cui sembra esserci un consenso trasversale, anche fra i sostenitori del No al referendum. Si tratta dell’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), un organo di rilievo costituzionale previsto dalla Carta del 1948 e istituito con legge ordinaria nel 1957. Sin dal suo insediamento il Cnel fu chiamato a svolgere attività di consulenza del governo e del parlamento in tema, dando voce al suo interno non soltanto ad esperti in materia economica e sociale, ma anche (e soprattutto) ai rappresentanti delle categorie produttive, nelle loro componenti imprenditoriali e operaie.
Quali sono le ragioni che hanno spinto il governo Renzi ad abolire il Cnel? Le motivazioni dichiarate sono essenzialmente due: i costi eccessivi dell’ente (20 milioni di euro annui) e la sua scarsa produttività (evidenziata dai soli 14 disegni di legge proposti dall’ente nei molti decenni della sua attività). Il primo argomento non meriterebbe neanche di essere esaminato, se non vivessimo in un tempo di retorica populista e antipolitica, in cui il tema dei «costi della politica» ha sostituito quello – un tempo centrale – della redistribuzione della ricchezza.
20 milioni annui (ovvero circa 40 centesimi per elettore) non sono certo un onere significativo per la pur fragile economia italiana. Il tema della produttività e dell’efficienza dell’ente ha invece indubbio rilievo, anche se va ricordato che tra le attività del Cnel non vi è stata solo la formulazione di disegni di legge, ma anche la funzione consultiva e quella di studio. I rimedi per migliorare l’efficienza del Cnel avrebbero potuto essere tanti, ma si è scelto invece di sopprimere l’ente, buttando via il bambino insieme all’acqua sporca.
C’è però dell’altro. A ben vedere, vi sono alcune ragioni più profonde (e mai esplicitate) che spiegano la scelta del governo di abolire il Cnel. È verosimile che così facendo i promotori della riforma si siano voluti sbarazzare di un fastidioso residuo del Novecento, il «secolo del lavoro» come lo ha definito Aris Accornero. Il Cnel, infatti, venne pensato dai padri costituenti all’interno di una repubblica fondata sul lavoro, ovvero una democrazia che conferisse effettivi poteri decisionali alla classe lavoratrice organizzata, dando massima rappresentanza agli individui non soltanto in quanto astratti cittadini, ma anche come produttori, in vista dell’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale.
Come modello di riferimento i costituenti avevano innanzi tutto il Consiglio economico del Reich (un organo previsto dalla Costituzione di Weimar del 1919), da cui il Cnel riprese l’idea della rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori all’interno della dimensione statuale, in un’ottica di corporativismo democratico. Ma il vero antenato del Cnel, nel nostro paese, era stato il Consiglio superiore del lavoro, nato nel 1902 durante il governo Zanardelli e soppresso dal fascismo nel 1923. La legge istitutiva del Consiglio superiore del lavoro (oltre che dell’Ufficio del lavoro, organo di indagine statistica) era espressione di una svolta a sinistra nel quadro politico di allora.
La nascita del nuovo organo segnò l’affermazione, all’interno della classe dirigente liberale, della consapevolezza che lo Stato dovesse farsi carico della tutela della classe lavoratrice, basandosi sugli elementi di conoscenza forniti dall’indagine statistica e tenendo conto al contempo del punto di vista delle parti sociali. Il Consiglio superiore del lavoro, come successivamente il Cnel, era infatti un organo consultivo in cui era garantita la rappresentanza delle organizzazioni operaie e del mondo imprenditoriale. Tale istituzione si configurava così come un «parlamentino del lavoro», secondo l’espressione usata dal socialista Filippo Turati. Il Consiglio superiore del lavoro era chiamato a esprimersi su tutti i problemi legati alle condizioni dei lavoratori e ai rapporti fra questi ultimi e i datori di lavoro, potendosi avvalere dell’apporto conoscitivo fornito dall’Ufficio del lavoro.
Se il Cnel, nonostante i suoi innegabili limiti, è stato figlio del riformismo del Novecento (in una fase storica in cui il concetto di riforma aveva un significato di segno progressivo, oggi del tutto smarrito se non rovesciato), non stupisce più di tanto che il governo in carica abbia deciso di sbarazzarsene, usando lo specchietto per le allodole della riduzione dei costi della politica.
È innegabile che i limiti della riforma costituzionale vadano ben al di là della questione del Cnel. Ma è bene ricordarsi che il 4 dicembre, votando No, abbiamo l’ultima possibilità di bloccare una riforma che, nell’abolire il Cnel, tradisce l’intento più generale di rinnegare il fondamento egualitario e lavoristico della nostra repubblica.

Se con il no vince l'autoritarismo
Corriere della Sera‎ Bragandini

Le ragioni del No che mi spingono al Sì 

Antonio Gibelli Manifesto 30.11.2016, 23:59 
Ci sono molte buone ragioni per guardare senza entusiasmo alla riforma costituzionale sottoposta a referendum. Disgraziatamente le buone ragioni sono sostenute da una parte soltanto dello schieramento impegnato per il voto contrario, non certo quella che uscirà politicamente vincitrice da un eventuale successo numerico del no. 
Penso agli intellettuali che già si erano distinti nella lotta contro le manomissioni della Costituzione realmente tentate da Silvio Berlusconi: figure di grande prestigio, a cui si devono stima e rispetto, come Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Salvatore Settis. Penso a tutti coloro che, come i vertici dell’Anpi, sono convinti di salvaguardare a questo modo il patrimonio inestimabile della carta costituzionale così com’è. 
I vincitori effettivi saranno altri. Innanzitutto il Movimento 5 Stelle. Il vero motivo per cui i 5Stelle puntano alla vittoria del no non è certo quello nobile della difesa della Costituzione. Essi pensano non a torto che la sconfitta di Renzi avrebbe il principale risultato di dare nuovo alimento al discredito delle istituzioni e del ceto politico in quanto tale, avvantaggiandoli nella loro scalata al potere. L’ennesimo fallimento del tentativo di compiere una modifica dell’ordinamento da tempo all’orizzonte, il perdurare di uno stato di diffficoltà dei poteri costituiti a realizzare i propositi enunciati, la confusione e l’incertezza crescente, l’eventualità di nuovi equivoci patti e di governi senza volto: tutto ciò darebbe loro ulteriori chance. 
Forse voleva dire questo Grillo, quando ha raccomandato ai suoi seguaci di votare con la pancia, per non dire con altro. La pancia dice che peggio vanno le cose, più si alza la temperatura del rifiuto indiscriminato, e più il movimento si allarga. Fin dal tempo di Tangentopoli, la richiesta di pulizia in politica ha sempre avuto esiti ambivalenti. Anziché interrompere la spirale perversa che dura in Italia da troppi decenni, è assai meglio per questo movimento, o almeno per i suoi capi palesi e occulti, che essa si protragga. 
Il secondo vincitore sarà la destra, quella messa all’angolo e alla ricerca di un possibile rilancio, nei suoi disparati volti. Berlusconi naturalmente, le cui contorsioni da attore consumato, anzi decrepito, della vecchia politica non riescono a nascondere l’obiettivo vero: quello di riemergere dalle ceneri, in un modo o nell’altro, approfittando del caos. Lo ha detto in un’intervista uno che lo conosce bene, il senatore Marcello Pera. E’ vero che egli cerca come sempre di tenere i piedi in due scarpe, ma sa bene che solo un rimescolamento di tutto il quadro politico gli restituirebbe almeno in parte la scena. 
Per non parlare di Salvini, Meloni e Toti, i campioni dei respingimenti dei profughi e dell’uscita dall’Euro, gli amici di Le Pen e di Putin. Non direi proprio che Salvini, discendente del secessionista Bossi, compagno di quel Calderoli che dette dell’orango a una senatrice della repubblica, possa passare per un indomito difensore dei valori costituzionali, delle istanze di uguaglianza, dei diritti civili e umani. Anche loro sanno benissimo che solo la babele delle lingue rinfocolata dal respingimento di una legge passata per due anni al vaglio del Parlamento, riaprirebbe i giochi permettendo a loro di rialzare la testa. 
Esperti e indovini stanno almanaccando su cosa succederà all’indomani del 4 dicembre. Io non sono né un esperto né un indovino, ma sono certo di una cosa. Se non passerà la riforma, tutti costoro usciranno rinfrancati e più agguerriti. Non sarà un’apocalisse, molto più semplicemente crescerà la demagogia. Questo non renderà la democrazia più forte ma ancor più vulnerabile. Non farà uscire l’Italia dal piano inclinato del populismo che sembra pesare come una maledizione sulla sua storia recente.

Ma i populisti del No si rafforzano anche con il Sì
Gli argomenti che usa Antonio Gibelli vanno ripresi con attenzione perché ricorrono spesso negli incontri pubblici in vista del referendum. Molti elettori di sinistra temono, in effetti, che il M5S o le destre possano rivendicare la paternità del successo del no. E per questo decidono di dare un sì, dichiaratamente poco convinto, alle riforme. Avallare un incauto plebiscito sarebbe per loro cedere al male minore, in una situazione di gran tempesta.
Questa apparente prova di buon senso nasconde però insidie molto scivolose. In politica, suggeriva Machiavelli, è preferibile affrontare un inconveniente per volta. Solo dopo aver risolto un nodo si può pensare a scioglierne un altro. E non è detto che, proprio lasciando passare il male minore (la manomissione della Carta), per scongiurare un guaio più consistente (la rivendicazione di paternità delle opposizioni), poi non si aiuti anche il trionfo del pericolo più temuto. Cioè è assai probabile, nei conflitti politici, che i due mali si assommino. Si può così determinare una vittoria del populismo avendo rinunciato anche alla difesa della Costituzione come carta inviolabile, per chi ha solo il 25 per cento dei suffragi.
Il problema è che il capolavoro politico del governo, con i suoi “aberranti” argomenti a sostegno del sì, prepara una soluzione plebiscitaria alla crisi. Se l’esitazione a dare un no è legato al rischio percepito di una futura marcia trionfale del M5S, andrebbe considerato però che il non-partito di Grillo potrebbe lucrare un grande plusvalore politico (forse persino maggiore) anche in caso di una affermazione del sì. Con la vittoria governativa nel plebiscito, che comunque annichilisce il senso di una Costituzione come casa comune, proprio il M5S diventerebbe, infatti, il solo baluardo rimasto contro l’involuzione verso un incerto regime a conduzione personale.
Non ci sarebbe più alcuna velleità di ricostruire una sinistra. Le stesse minoranze interne al Nazareno verrebbero umiliate e costrette all’abbandono. E il Pd diventerebbe un irrecuperabile partito personale indotto all’obbedienza sotto l’arbitrio di un leader che dialoga con la folla con il solo simbolo della mela e penetra nei territori con gli sceriffi, i notabili, gli affaristi, i De Luca. Solo il M5S potrebbe raccogliere il risentimento di milioni di cittadini dinanzi a una contrazione della democrazia costituzionale.
Va considerato che, in caso di successo del no, saranno almeno 6 milioni (il 25 per cento del Pd, il 30 per cento che già ha scelto il M5S, i sostenitori della sinistra radicale, gli astenuti critici) i cittadini di sinistra ad aver votato no il 4 dicembre. E lasciarli senza rappresentanza sarebbe una incauta follia. Si tratta di una porzione di popolo che il Pd, rifugio dei poteri forti e padronali, non può più in alcun modo intercettare.
Si aprirebbe, solo con il no, uno spazio di movimento rilevante e anche una fase di competizione positiva con il M5S, che interpreta ormai una frattura storica ed è sbagliato classificare come una meteora o una barbarica minaccia. Una evoluzione costruttiva del movimento rientra nell’interesse generale della democrazia. Non si può pensare ad un sistema a immunizzazione diffusa contro gli alieni ed entro cui solo il 25 per cento del Pd è legittimato a governare.
Con il sì il governo avrebbe una sanatoria generale per aver strapazzato la carta, per aver sfidato l’opinione di tutti e venti gli ex presidenti e vice presidenti della Consulta, per aver stracciato l’articolo 18 e reso eterna la precarietà. Dinanzi a questo scenario, proprio il populismo di governo, che maltratta i diritti del lavoro e restringe l’investitura democratica delle istituzioni di rappresentanza, è destinato ad essere travolto.
La demonizzazione dei “populisti” per questo non serve. La invocazione a votare con la “pancia” non si cura certo con la “pancetta” renziana che vede il capo di governo inveire contro la casta, i costi, i politici. Questi ritrovati maldestri sono un energetico per le forze della destra antipolitica. Che vedono così trionfare il loro linguaggio, i loro simboli. Un governo che accarezza la tigre dell’antipolitica non è una risorsa su cui contare in tempi di aspri rivolgimenti. Lo spiegava bene Gramsci. La biscia è la prima ad essere morsa dal serpente. Cioè il demagogo è la prima vittima della propria demagogia. Difendere la costituzione è la sola prova di saggezza.

Se al referendum vince l’antipolitica, meglio sottrarsi 
Letizia Paolozzi Manifesto 24.11.2016, 23:59 
Nella vittoria di Trump, il testosterone è stato fattore determinante. E’ il clima in cui il nuovo presidente degli Usa si è augurato «un dialogo da uomo a uomo» con Putin. E c’è il muro che “The Donald” promette per limitare l’immigrazione dal Messico. 
Tornano dunque gli uomini duri alla Jack Bauer, protagonista della serie televisiva “24”? 
Anche in Italia i toni sessisti (ne hanno scritto Chiara Saraceno e Dacia Maraini) e aggressivi contagiano la comunicazione pubblica. Non si tratta soltanto delle ultime prodezze verbali del governatore campano nei confronti di Rosy Bindi, dopo quelle che indirizzò a Virginia Raggi. E’ proprio il linguaggio violento – «Abbiamo di fronte dei serial killer» (copyright Beppe Grillo) – che accompagna la campagna referendaria (con eccezioni pur numerose) sulla riforma costituzionale. 
Al contrario, la proposta sensata di Valerio Onida (non sarebbe costituzionale sottoporre agli elettori argomenti eterogenei minando la libertà di voto) prefigurava, con lo “spacchettamento”, la possibilità di posare sulla materia uno sguardo più cauto.
Ma il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso. 
Così sempre più alto risuona il mantra: bisogna votare No contro il potere concentrato nelle mani di “un uomo solo al comando”. Uno che a molti/e sta pure antipatico: l’antipatia miracolosamente si trasforma in categoria politica. E al contrario: votate sì perché da trent’anni aspettiamo questa riforma. L’”accozzaglia” del No obbedisce a motivazioni esclusivamente conservatrici. 
Nonostante le dispute, i tumulti, le risse, a me sembra però che i due fronti siano legati da un intento comune quando lasciano balenare il “brillante” (una specie di superluna) obiettivo di rottamare la casta. Ritorna la contrapposizione del nuovo contro il vecchio. 
I giudizi sprezzanti, la demonizzazione dell’avversario costellano la discussione. Tuttavia, la deriva delle parole in parte si giustifica. Se bisogna optare tra bicameralismo simmetrico e bicameralismo differenziato, se l’ingegneria costituzionale spadroneggia, meglio simulare una batracomiomachia come è avvenuto alla Leopolda, con quel «Fuori, fuori!» contro la minoranza Pd. 
La cultura dell’inimicizia deflagra mentre scarseggiano idee, progetti, vocaboli in grado di sfidare l’antipolitica con una politica che sia ricerca collettiva dei rimedi ai mali di questo Paese. 
C’è un sesso che vuole prendere parola, in autonomia. Compaiono gli appelli delle donne, divise tra il No e il Sì. Queste ultime apprezzano la riforma perché nelle istituzioni elettive difende l’equilibrio della rappresentanza (rafforzando il principio già introdotto nell’art. 51). 
Ma questo non mette davvero a tema la relazione tra i sessi, nascondendo il dato fondamentale che gli interessi degli uni e delle altre non sono necessariamente gli stessi. Ora, accontentarsi di una inclusione per via legislativa-costituzionale, ho paura che significherà, al massimo, una spruzzata di visibilità per il protagonismo femminile. 
Non cambierà una politica bellicosa, nella quale ognuno salta alla gola dell’avversario. In fondo, l’antipolitica consiste proprio nel non sapersi parlare. 
«In ogni ambito sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelletto, quelle di limite, misura, grado, proporzione, relazioni, rapporto, condizione, legame necessario, connessione tra mezzi e risultati. Per limitarci alle questioni umane, il nostro universo politico è popolato esclusivamente da miti e mostri» (Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia in “Il libro del potere”, Chiarelettere 2016). 
Per mettere in campo un’altra politica mi pare che vada disinnescata la tentazione di un linguaggio violento, anchilosato negli stereotipi. Le lezioni della storia recente suggeriscono che c’è disprezzo per un lavoro di cura che parta dalle parole. 
Fino a quando la consultazione referendaria rimarrà un campo di battaglia, non resta – secondo me – che sottrarsi a questi giochi di guerra. Votando scheda bianca. 
Chi l’ha detto che siamo in ballo e dobbiamo ballare?

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