giovedì 15 dicembre 2016

I fratelli Garrone, antesignani democratici della Sinistra Imperiale italiana


I fratelli Garrone, eroi antieroi inghiottiti dalla Grande guerra 
Un volume racconta attraverso le loro lettere e le fotografie l’esperienza al fronte dei due interventisti democratici 

Bruno Quaranta  Busiarda 14 12 2016
Ci sono due medaglie d’oro al Valor Militare nella storia italiana (e piemontese) che continuano a rifulgere, ma sobriamente, discretamente. Sono Giuseppe e Eugenio Garrone, caduti nella Grande guerra, gli eroi antieroi di una famiglia che ha interpretato i valori risorgimentali nel Novecento. Ne coltiveranno innanzitutto la memoria i nipoti Galante Garrone, figli del latinista Luigi Galante (i Galante e i Garrone andranno a formare un unico cognome grazie a un decreto degli Anni Venti): Alessandro, storico e giurista; Carlo, magistrato e avvocato, nello studio che fu di Dante Livio Bianco; Virginia, professoressa e scrittrice di dantesca sensibilità. 
Giuseppe ed Eugenio - Pinotto e Neno - hanno lasciato un testamento epistolare che via via riappare. Ora, per i tipi di Caramella, a cura di Roberto Orlando: 100 (e una) lettere dal fronte un secolo dopo. Rispetto alle precedenti edizioni, una scelta di missive, non l’intero corpus. E, assoluta novità, il corredo fotografico, 56 immagini inedite dall’archivio di Margot Galante Garrone, figlia di Carlo, scatti attraverso cui i due fratelli documentano la vita in uniforme, tra un’azione bellica e l’altra. Una galleria quasi idilliaca, tesa a rassicurare amici e parenti: truppe che lavano i panni, escursioni con gli «ski», un superiore - è la didascalia di Pinotto - «che tiene presso di sé un figlio a passeggiare, dormire, e far fotografie, come se la guerra fosse per i figli di Papà un luogo di villeggiatura».
L’introduzione storica è di Paolo Borgna, il biografo di Alessandro Galante Garrone, procuratore aggiunto vicario a Torino, tra le figure che rievocano una lontana annotazione di Jemolo sulla magistratura piemontese: «La tradizione dev’essere sempre alta». 
Dopo Caporetto, l’11 dicembre 1917 gli austriaci danno l’assalto al Monte Grappa. Giuseppe e Eugenio militano nello stesso battaglione, «Tolmezzo». Pinotto è dilaniato da un colpo di artiglieria. Neno, ferito al petto, morirà nell’ospedale di Salisburgo il 6 gennaio. Il 21 dicembre, da Innsbruck, aveva scritto alla famiglia: «Cara Mamma, cari tutti, vi mando il mio bacio. Sono ferito ai polmoni, ma non gravemente. State tranquilli. Pinotto è caduto nelle mie braccia... Tornerà uno solo dei due; il tuo Eugenio sarà per te parte di Lui che non è più».
Mamma Maria Ciaudano Garrone, un’anima biblica, che non esita a offrire i suoi Isacco. Giuseppe e Eugenio, riformati alla visita di leva, al fronte vanno come volontari, nel solco di una fede irredentista meditata, non impulsiva, che la madre contribuirà ad alimentare. Confessò, profilatosi il rischio che una «pace giolittiana» sventasse il conflitto: «Io donna, io madre, non certo eroica, sentii qualche cosa che mi faceva tremar l’anima per grande sgomento, e non potei pensare con l’animo sereno alla pace».
Entrambi allievi di Francesco Ruffini, Giuseppe a soli ventidue anni vince il concorso di magistrato, esercitando a Roma, a Torino, a Morgex, in Libia; Eugenio si distingue come funzionario al ministero della Pubblica Istruzione. Giorno dopo giorno scoprendo crescere dentro di sé la febbre della trincea, l’urgenza di perfezionare il Risorgimento con la conquista di Trento e Trieste. 
I fratelli Garrone, fra gli interpreti dell’interventismo democratico, impermeabile al nazionalismo e al fascismo, che covava «nelle viscere della guerra», come Turati - rammenta Borgna - ebbe modo di profetizzare. Alle viste il «nazionalfascismo», secondo l’espressione coniata da Luigi Salvatorelli.
Jemolo, un «maggiore» di Alessandro Galante Garrone, che conobbe appena Pinotto, ma bene Eugenio, come lui curatore di dispense universitarie nella Torino di Einaudi, Mosca, Ruffini, soffermandosi sull’epistolario dei borghesi fratelli rifletterà: la Grande guerra «fu guerra combattuta dal popolo, non fu guerra di popolo. L’interventismo fu eminentemente borghese, quasi senza partecipazione di popolo».
Per lo storico di Chiesa e Stato in Italia, la guerra del 1915-18 «chiude un periodo della storia della borghesia italiana». Della piccola borghesia in particolare, il mondo esemplare dei fratelli Garrone destinato a divenire, a cannoni spenti (l’analisi è di Salvatorelli), l’elemento «caratteristico e direttivo del fascismo». Un’onta che sarà risparmiata alle medaglie d’oro. O, piuttosto, che patiranno attraverso mamma Maria, madre coraggio, scomparsa nel 1938, appena entrate in vigore le leggi razziali. «Troppe cose mi turbano - annota sulla sua agenda la vigilia del commiato -. È uscita la legge per la difesa della razza. Dio ci assista. Indignazione crescente».
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Le lettere dal fronte dei fratelli Garrone 
Un libro curato da Roberto Orlando raccoglie fotografie e testimonianze inedite dalla prima guerra mondiale
CLAUDIO MERCANDINO Rep 12 1 2017
L’altra faccia della guerra sono gruppi di soldati sorridenti sotto gli occhi di alcune contadine. File di “skiatori” in divisa bianca sul biancore abbagliante della neve. Panorami di vallate alpine apparentemente non scalfite dalle bombe e dalle scariche di fucileria. Uomini in trincea con un piccone in mano. Compagnie di militari che riposano sulle rocce, sfiancate dalle lunghe marce in montagna. Scene di relax, tra fiaschi di vino e dormite sui prati. Militari che lavano i panni sulla riva di un fiume. Valligiani in posa davanti alle loro baite. A raccontarla così, la Grande Guerra, sono le immagini inedite scattate al fronte dai fratelli ufficiali vercellesi Giuseppe e Eugenio Garrone, “Pinotto” e “Neno”, zii di Alessandro e Carlo Galante Garrone, morti il primo sul Monte Grappa e il secondo a Salisburgo a cavallo tra il 1917 e il 1918. Quelle fotografie, uscite per la prima volta dall’archivio familiare della pronipote Margot Galante Garrone, cantautrice e regista figlia di Carlo, sono raccolte a cura di Roberto Orlando nel volume 100 ( e una) lettere dal fronte un secolo dopo (Caramella Editrice), presentato oggi alle 18 al Circolo della Stampa di Torino. È infatti una selezione delle lettere dei due fratelli a offrire, accanto alle foto, il racconto epistolare dell’esperienza bellica: un conflitto narrato senza mai essere in primo piano, ma ricostruito attraverso inquadrature “laterali” piene di senso morale, umanità, sgomento, lirismo.
Le figure di Giuseppe ed Eugenio, descritte nella prefazione dal magistrato e storico Paolo Borgna, sono un interessante prodotto dell’Italia all’alba del ’900: nati da una famiglia dall’etica sabauda che inculca loro «una concezione della vita intesa come sacrificio, perfezionamento, ascesa continua » e un «esasperato senso del dovere », studiano legge e diventano uno giudice e l’altro funzionario del ministero dell’Istruzione, coltivano un patriottismo di stampo risorgimentale e aderiscono con convinzione a tratti esaltata all’interventismo democratico che contribuisce a spingere l’Italia in guerra.
Ma quando il «collaudo della realtà» determina, scrive Borgna, «il passaggio dalla Guerra alla guerra», con la sua concreta crudezza e le sofferenze inflitte ai suoi protagonisti, questi “eroi gentili”, come li definisce Roberto Orlando, mostrano nelle loro missive alla famiglia, agli amici e ai conoscenti, non solo un animo e uno stile (sferzante e polemico quello di Giuseppe, poetico e letterario quello di Eugenio), ma anche uno sguardo umano e solidale, pieno di pietas, sulla tragedia del conflitto. Loro, figli della borghesia, sembrano più vicini ai figli dei contadini con cui condividono la trincea che agli ex compagni di liceo. Giuseppe, che si indigna per il figlio di un generale che si aggira scattando fotografie «come se la guerra fosse per i figli di Papà un luogo di villeggiatura», scrive: «In questi tempi si deve pretendere cento dall’ufficiale per avere il diritto di ottenere uno dal soldato che pure è privo di ogni conforto fisico e morale. È ai soldati più che agli ufficiali che si devono ricompense e onori». I soldati sono la carne viva del racconto di “Pinotto” e “Neno”: li adorano, ne parlano “in modo commosso”. «Ne osservano i visi, i sorrisi, i gesti (i gesti lenti e pacati dei montanari). Ne ammirano il coraggio, la pazienza. Ascoltano i loro racconti, che parlano di speranze, di mogli, di figli, di madri, di case che li aspettano. E ne scrivono ai loro genitori, con un rispetto sacro».
Visi, sorrisi, gesti fissati per sempre nei bianchi e neri delle loro fotografie, spedite a casa con mezzi di fortuna e mille peripezie, che ora riappaiono dal buio di un secolo per restituire il racconto emozionante di una tragedia. Un racconto che, conclude Orlando, lascia «molta tristezza nel cuore: noi, durante la lettura di questo epistolario e studiando le foto, abbiamo sempre sperato che il finale potesse essere diverso per i fratelli Garrone».
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