sabato 3 dicembre 2016

Aspetti della fine della democrazia moderna in Italia


Il sommerso del terzo millennio 
Teodoro Chiarelli Busiarda 3 12 2016
Quarant’anni fa ci aveva sorpreso e ammaliato con l’immagine del sommerso. Un Paese nascosto ma reale, in nero epperò vitale, una locomotiva potente che trainava l’economia italiana. Pmi, acronimo di «piccole medie imprese», e popolo delle partite Iva. Un sommerso che Giuseppe De
Rita definiva «di imprese e di lavoro». 
Oggi, col consueto linguaggio suggestivo e immaginifico, il presidente del Censis ci racconta il sommerso del terzo millennio, il sommerso «post-terziario», il «sommerso di redditi». 
Altro che imprenditoria molecolare, industrializzazione di massa ed epopea del «piccolo è bello». La spina dorsale fatta di piccole aziende e laboratori artigiani è uscita malconcia da dieci anni di recessione e tagli, lasciando sul terreno milioni di posti di lavoro e decine di migliaia di imprese. Il «sommerso di redditi» prolifera nella gestione del risparmio cash («per non andare in banca»), nelle strategie di valorizzazione del patrimonio immobiliare, nel settore dei servizi alla persona, nei servizi di mobilità condivisa. Mentre il sommerso industriale apriva un’era di sviluppo imprenditoriale, l’attuale sommerso è più statico che evolutivo, senza un sistematico orientamento di sviluppo. È un magma di soggetti, interessi e comportamenti, una macchina «molecolare», in cui proliferano figure lavorative labili e provvisorie. 
In questa seconda era del sommerso la società civile si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta, mentre il mondo politico si arrocca su se stesso. Il risultato è che le istituzioni non riescono più a fare cerniera tra dinamica politica e dinamica sociale e di conseguenza vanno verso un progressivo rinserramento. Delle tre componenti di una società moderna (corpo sociale, istituzioni, potere politico) secondo De Rita sono proprio le istituzioni a essere oggi più profondamente in crisi. L’89,4% degli italiani esprime un’opinione negativa sui politici, appena il 4,1% positiva. E siamo al ko per tutti i soggetti intermedi tradizionali: solo l’1,5% degli italiani ha fiducia nelle banche, l’1,6% nei partiti politici, il 6,6% nei sindacati. Il 36% tiene regolarmente contante in casa per le emergenze o per sentirsi più sicuro e, se potesse disporre di risorse aggiuntive, il 34,2% le terrebbe ferme sui conti correnti o nelle cassette di sicurezza. 
Ecco perciò che si affaccia un’Italia «rentier», che accumula contanti, li tiene sotto il materasso e non investe nel futuro. Con il rischio di consumare inesorabilmente il tesoretto (chi ce l’ha) e di finire con lo svendere pezzo a pezzo l’argenteria di famiglia. Siamo di fronte a un’immobilità sociale che genera insicurezza e porta a un incremento dei flussi cash. Rispetto al 2007, all’inizio della crisi, gli italiani hanno accumulato una liquidità aggiuntiva per 114,3 miliardi di euro. Un valore superiore al Pil di un Paese come l’Ungheria. La liquidità totale di cui gli italiani dispongono in contanti o depositi non vincolati è di 818,4 miliardi, ossia pari al valore di un’economia che si collocherebbe al quinto posto nella graduatoria del Pil dei Paesi Ue post-Brexit: dopo la Germania, la Francia, la stessa Italia e la Spagna. 
Evidente la débâcle economica dei giovani e in particolare dei millennial. I figli sono più poveri dei padri e perfino dei nonni. E già, questo, non ti lascia il cuore leggero. Il fatto è che continuano a latitare speranza e fiducia. Le aspettative degli italiani continuano a essere negative o piatte. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non aumenterà nei prossimi anni, il 57% ritiene che i figli e i nipoti non vivranno meglio di loro, cosa che pensa anche il 60,2% dei benestanti. Il 63,7% crede che, dopo anni di consumi contratti l’esito inevitabile sarà comunque una riduzione del tenore di vita. L’incidenza degli investimenti sul Pil vede l’Italia fanalino di coda dell’Europa, ma soprattutto ai livelli minimi dal dopoguerra. 
Anche per oggi non si vola. E del doman non v’è contezza. 
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CENSIS, QUEL MURO TRA LE GENERAZIONI 

GUIDO CRAINZ Rep 3 12 2016
INIZIA con un’impressionante serie di pessimistici “mai così” la parte generale sulla società italiana del Rapporto annuale del Censis. Mai così pochi i nuovi nati, mai così dilatata la componente demografica di anziani, mai così depressa la condizione economica dei giovani che “vivono nella frontiera paludosa fra formazione e lavoro”, e mai così alti i muri fra le generazioni. Ora è una dolorosa e fondata certezza, si aggiunge, quella sensazione che da un ventennio almeno ha incrinato visioni di futuro e coesione sociale.
SEGUE A PAGINA 36 ROSARIA AMATO A PAGINA 12
LA SENSAZIONE cioè che i figli non vivranno meglio dei loro padri, tutto al contrario (ed era stato questo, invece, il cemento più solido dei primi decenni della nostra storia repubblicana). E ancora, mai tanta liquidità ferma nei conti correnti (il suo aumento negli ultimi dieci anni ha superato il Pil dell’Ungheria), nel contemporaneo stagnare della propensione agli investimenti: effetto inevitabile della “pervasiva percezione di uno smottamento delle condizioni di vita” e dell’incertezza di futuro. A questa “bolla della liquidità” si assomma poi la “bolla dell’occupazione a bassa produttività”, la moltiplicazione dei “lavoretti” precari e “quasi regolari”: in uno scenario in cui il deperire del lavoro accresce l’erosione della classe media e della componente operaia e artigiana, mentre i processi di digitalizzazione incidono in maniera sempre più rilevante nei settori impiegatizi. Un quadro desolante, se a questi dati ci si arrestasse, ed è esplicito nel rapporto l’interrogarsi sugli effetti di lungo periodo di una crisi internazionale di cui pure l’anno scorso si avvertiva l’esaurirsi. Si segnalava allora il delinearsi di una “società dello zero virgola” (dello sviluppo stentato e quasi invisibile), espressione richiamata anche quest’anno: una differenza positiva, in realtà, rispetto al più drastico pessimismo di qualche tempo prima (“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è più data per imminente”, si annotava alla fine del 2014).
Corre sotterraneamente nel Rapporto un’altra domanda, intimamente connessa: cosa significa oggi “ripresa”, in uno scenario drasticamente mutato? Quali sono i suoi indicatori, inevitabilmente differenti da quelli del passato? Saranno più vicini allo “zero virgola” o al “più 5-6%” dell’ “età dell’oro” dell’Occidente”, segnata da un ruolo dello Stato nel favorire sviluppo e distribuzione del reddito oggi inimmaginabile? La risposta non è difficile, naturalmente, e con questa consapevolezza il Rapporto suggerisce il delinearsi di una “seconda era del sommerso”: un “sommerso post-terziario” radicalmente diverso da quello “pre-industriale” che proprio il Censis aveva visto prender corpo negli anni Settanta. Più fragile e segnato da quelle stesse tare colte allora nella “economia del cespuglio” (perdita di diritti, evasione di obblighi fiscali e contributivi, e così via) ma comunque un’ “onda” fondamentale per la tenuta del Paese. Non più un sommerso di impresa e di lavoro ma un “sommerso di ricerca di più redditi”, in cui rientra la crescita stessa della liquidità (talora con contiguità o compenetrazioni con l’area dell’illecito). E in cui confluiscono le attività più differenti: dall’uso del patrimonio immobiliare come fonte di reddito (a partire dall’esplosione dei bed and breakfast) alle attività di cura (non solo di anziani e bambini), dall’enogastronomia ai consumi culturali. Un “insieme di macchine molecolari” cui si aggiungono i perduranti successi nelle filiere collaudate del made in Italy e in altre ancora, o le start up innovative. Un “insieme” i cui limiti e i cui possibili “vizi” appaiono forse altrettanto rilevanti della loro capacità di aiutare il paese a “reggere”, e i cui contorni sono più evocati che tratteggiati nelle loro dimensioni concrete.
Si innesta qui però l’elemento più profondo della nostra crisi: una frattura fra società e politica, con “reciproci processi di rancorosa delegittimazione”, che sembra giunta al suo apice e di cui proprio il Censis aveva colto precocemente le origini. Già all’inizio dei “dorati anni Ottanta”, ad esempio, segnalava i “sempre più evidenti rinserramenti della società nel proprio particulare interesse” in una crescente distanza dalle forze politiche “nelle loro usurate dialettiche e nelle loro usurate persone”. Aveva origine proprio allora la crisi di quel sistema dei partiti, e nemmeno dopo il suo crollo quel nodo troverà risposte. Si è aggravata così quella frattura, quella reciproca delegittimazione che è il vero alimento dei populismi, annota il Censis, e che non trova più nelle istituzioni il necessario luogo di mediazione e di superamento. Eppure, si conclude, l’unica via d’uscita sta proprio nel rilanciare la loro qualità, la loro dignità e la loro funzione di cerniera.
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