giovedì 22 dicembre 2016

Figli, voucher e peste centrosinistra


Quando giustamente ironizziamo su Poletti e Bell'e papà, ricordiamoci che i voucher li ha messi Monti e che Bersani con la cosiddetta sinistra PD li ha votati, come il pareggio di bilancio e tutte le porcherie dai primi anni Novanta ai prossimi secoli.
La vera peste è il centrosinistra con la CGIL, Siderurgia & Aperitivo e Sinistra Inutile al séguito, non Renzi. Lui è stronzo ma i suoi nemici sono peggio di lui [SGA].

Corriere della Sera


Mozione di sfiducia contro Poletti Minoranza Pd: no ai voucher o sarà sìL’iniziativa promossa da Sinistra italiana , M5S e Lega dopo le frasi del ministro sui giovani. E scoppia il caso di presunti aiuti al figlio 
Amedeo La Mattina  Busiarda
La prima grossa grana del governo Gentiloni si chiama Giuliano Poletti. Sinistra Italiana ha presentato al Senato una mozione di sfiducia individuale nei suoi confronti ed è stata firmata anche dai 5 Stelle, dalla Lega e da alcuni senatori del gruppo misto. Anche alla Camera mozione di sfiducia. A scatenare la richiesta di dimissioni sono state alcune dichiarazioni improvvide del ministro. A proposito dei giovani costretti ad andare all’estero alla ricerca di lavoro, aveva detto che non sono sempre cervelli in fuga o i migliori, i più bravi e intelligenti. «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi».
Poletti, tra l’altro, era stato protagonista di un’altra uscita infelice e inopportuna sul referendum promosso dalla Cgil per abolire il Jobs Act: con le elezioni anticipate verrà rinviato di un anno. Aveva detto la verità, ma intanto i suoi nemici sono aumentati e poi non è detto che si vada a votare entro l’estate . Tra ai suoi nemici ci sono i compagni della sinistra dem che non hanno mai digerito il Jobs Act. A farsi avanti è stato Roberto Speranza che nel suo blog sull’Huffington post ha scritto «via i voucher o sfiducia». Speranza sostiene che un’esternazione sbagliata possa capitare a tutti. E un ministro non si può sfiduciare solo per una frase sbagliata. «Ma quello di cui invece sono molto convinto è che il ministro del Lavoro non può continuare a non vedere che nel fiume di questa nuova precarietà stiamo perdendo un’intera generazione. E questo sì che varrebbe la sfiducia». Allora via i voucher («una nuova forma inaccettabile di precarietà) con un’iniziativa immediata del governo. 
I renziani difendono Poletti. Il capogruppo Rosato accusa 5 Stelle, Lega e Si di strumentalizzare le parole del ministro e di fare campagna elettorale. Durissimo contro Speranza il presidente del Pd Orfini che gli ricorda che la liberalizzazione dei voucher fu fatta dal governo Monti, con Bersani segretario. «Il governo Renzi semmai ne ha limitato l’uso», ha detto Orfini, aprendo un’altro fronte di scontro tra i Democratici dopo la violenta contrapposizione sul referendum costituzionale. 
Poletti si era scusato, aveva spiegato di essersi espresso male. «So di avere sbagliato». Ma non intende dimettersi. Così le scuse non bastano. Ora si dovrà votare la mozione di sfiducia individuale. Alla Camera non ha problemi, al Senato potrebbe averlo se la sinistra dem dovesse votare la sfiducia. Eventualità remota se il ministro dovesse mettere in atto quello che ha promesso ieri al question time alla Camera dove ha promesso «normative più stringenti» sulla riforma del lavoro, ed in particolare sui voucher, per i quali sono già stati introdotti «rigorosi criteri di tracciabilità», come ha ricordato in aula lo stesso Poletti. 
I problemi per il responsabile Lavoro sono arrivate anche in famiglia e toccano il figlio, Manuel, direttore del settimanale Sette Sere. La Lega Nord di Ravenna ha annunciato un esposto in Procura e alla Guardia di Finanza per verificare la regolarità dei contributi all’editoria concessi a Poletti junior (si tratterebbe di mezzo milione di euro). Sul suo profilo facebook si sprecano le prese in giro: la più “cattiva” sottolinea che è facile trovare lavoro in Italia potendo contare su simili aiuti ed avere un padre potente. 
Richiesta di dimissioni del ministro dentro e fuori il palazzo. Davanti la sede del ministero i ragazzi della rete Act si è presentata con un maxi biglietto aereo intestato a Poletti: destinazione «quel paese, solo andata». 
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Poletti ora è all’angolo mozione M5S-Lega e la sinistra Pd avverte “Via i voucher o lui” 
Mossa per sfiduciare il ministro che ha offeso i giovani andati all’estero Lui: io non lascio. Bufera sul figlio per i fondi pubblici al giornale che dirige

TOMMASO CIRIACO Rep 
ROMA. E adesso il posto lo rischia Giuliano Poletti. Non bastano le scuse del ministro, dopo la gaffe sui giovani italiani che lavorano all’estero. Le opposizioni presentano una mozione contro il titolare del Lavoro, mentre la minoranza del Pd addirittura rilancia: «Via i voucher o sarà sfiducia». Ed è proprio su questo punto che il Partito democratico tenta di immaginare una soluzione di compromesso. L’idea, a cui lavora da tempo Cesare Damiano, è quella di fissare criteri stringenti per limitare i voucher alle prestazioni occasionali. Ma i tempi parlamentari sono strettissimi e soltanto un intervento del governo permetterebbe di assicurare con un buon margine di sicurezza il traguardo, prima che la legislatura si esaurisca. Difficile però che Palazzo Chigi vada oltre interventi mirati, quindi molto circoscritti. Poletti, nel frattempo, tiene il punto: «Non lascio il ministero».
Il governo, si diceva. Lo sforzo di queste ore è soprattutto quello di far dimenticare lo scivolone del ministro e questa falsa partenza. I problemi, però, non mancano. La Lega presenta un esposto in Procura e alla Guardia di Finanza per verificare la regolarità del contributo di mezzo milione concesso al settimanale Sette Sere, diretto da Manuel Poletti - figlio del ministro - mentre duecento Giovani democratici chiedono la testa del ministro. Bisogna spegnere l’incendio, insomma. Ci prova la vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani: «Si è scusato, il caso è chiuso». Eppure, la sfiducia incombe e il rischio è che al Senato la partita si giochi sul filo dei numeri.
A presentare la mozione, che sarà calendarizzata soltanto alla ripresa dei lavori parlamentari fissata per il 10 gennaio, sono leghisti, grillini, Sinistra Italiana e un frammento del gruppo Misto. Chiedono che il ministro lasci e puntano il dito contro «un linguaggio discutibile e opinioni del tutto inaccettabili». A decidere la sfida, però, saranno soprattutto Forza Italia e la minoranza del Pd. I berlusconiani non si espongono (ad eccezione di Maurizio Gasparri che si schiera contro Poletti), ma alla fine dovranno sfiduciare il ministro per non esporsi al fuoco amico della Lega. È soprattutto la sinistra dem, però, a mettere i brividi al titolare del Lavoro: «Un ministro non si può sfiduciare solo per una frase sbagliata - premette Roberto Speranza - Ma lui non può continuare a non vedere il fiume di questa nuova precarietà. E questo sì che varrebbe la sfiducia». Il possibile voto segreto, tra l’altro, renderebbe il rebus ancora più intricato. Certo è che i venti anti- renziani del Pd a Palazzo Madama rappresentano già l’ago della bilancia, a meno che non arrivi il soccorso dei verdiniani per salvare la poltrona del ministro.
La partita dei voucher resta comunque il cuore del problema. Matteo Orfini, assai vicino al segretario del Pd, ricorda che «la liberalizzazione di questo strumento fu fatta dal governo Monti, con Bersani segretario, mentre l’esecutivo Renzi semmai ne ha limitato l’uso». E il responsabile economico dem Filippo Taddei interviene sull’Unità lasciando capire che un eventuale restyling sarà assai mirato: «Studiamo i limiti dei voucher, ma comprendiamone i benefici. Perché se reagiamo sull’onda dell’indignazione, rischiamo solo di rimanere con il lavoro nero senza diminuire la precarietà».
Nella partita si inserisce anche Damiano, alla guida della commissione Lavoro di Montecitorio. Ha già incardinato un progetto che limita l’utilizzo di questo strumento ai soli lavori occasionali. Un testo simile a quello dei cinquestelle, con cui il dem intende giocare di sponda. «Lavoriamo per unificare i testi omogenei - spiega - La mia proposta è di tornare a quanto previsto dalla normativa Biagi. E non vedo come il Ncd e il centrodestra possa opporsi». Si opporrano, però. E dall’11 gennaio in commissione si giocherà il primo round. Senza un decreto del governo, però - o senza quantomeno la benedizione politica di Palazzo Chigi - il destino di questa battaglia sembra già scritto.
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LE TRAPPOLE DEL REFERENDUM 

ANDREA MANZELLA Rep 22 12 2016
NEL suo ultimo tweet, la ragazza Erasmus scomparsa a Berlino ci ammonisce che, con il referendum, non deve anche morire il suo sogno per una diversa Italia. Con Fabrizia Di Lorenzo, il 4 dicembre, altri trentadue inattesi milioni di elettori hanno spiegato, in modi opposti, una identica cosa: che la questione istituzionale è fonte ancora di mobilitazione e vitalità democratica. Fallita la riforma, restano dunque le speranze e i problemi. Da affrontare subito, pazientemente, ad uno a uno, e in maniera condivisa. La stessa energia espressa dalla partecipazione cittadina può dare forza al rimbalzo. Chi pronostica ”decenni“ per riprendere il discorso, come se questo fosse esaurito nella frenesia politica di una sola stagione, sbaglia.
Si discute ancora su Waterloo e Caporetto, figuriamoci se vi possa già essere accordo sulle cause della disfatta di Matteo Renzi. Tuttavia, una costante negativa sembra evidente in tutto il suo pur generoso percorso. È la sorprendente incapacità di un giovane leader, colmo di talenti ed energia politica, a capire come funzionino le istituzioni nostre: trovandosi, per questa sua curiosa cecità, catturato in almeno quattro trappole istituzionali.
La trappola iniziale, si sa, è stata nella trasformazione di una questione costituzionale in una questione di governo e poi, addirittura, personale. Dal 1947 era nota come una trappola da evitare con cura. Ha cercato di forzarla con la retorica del “cambiamento”. E forse poteva riuscirci se il suo progetto fosse stato leggibile: puntato sulla forza di governo, sulla democrazia interna dei partiti, sulla semplicità e rapidità delle decisioni legislative, su nuovi meccanismi di controllo costituzionale. Così non è stato. La partita contro l’opposta retorica della “difesa della Costituzione” è stata persa in partenza. Quando il “cambiamento” è risultato insabbiato in un testo obeso, contorto e opaco, esposto a pesanti interrogativi giuridici, pieno di buche come le strade di Roma. Uno specchio deformato, insomma, di ciò che comunemente si intende per “costituzione”: il documento che deve dare certezza e identità a una comunità politica.
La seconda trappola è scattata quando — persa la garanzia del consenso dei due terzi del Parlamento — ha voluto continuare un discorso “costituzionale” a colpi di risicata maggioranza. Decisione temeraria che implicava, inevitabilmente, l’azzardo del referendum: dato lo scontato ricorso al popolo da parte delle minoranze parlamentari.
La terza trappola è stata una legge elettorale valida per una sola Camera (dando già per avvenuta la scomparsa di un Senato elettivo). Dopo la sconfitta, la trappola si è rinchiusa. Il catenaccio è stata una logica costituzionale, inattaccabile nelle sentenze della Corte: vincolare il bene pubblico della stabilità di governo ad un sistema elettorale non schizofrenico fra le due Camere. È stata così preclusa la avventuristica via di fuga verso elezioni immediate.
La quarta trappola istituzionale è quella, appena aperta, sulla durata del governo Gentiloni. La trovata di un governo sotto timer di “fuoco amico” è una specie di subordinata alla bizzarria di “elezioni subito!”. Cose già viste negli anni della Repubblica “proporzionale”. Ora, per così dire, perfezionate. Con la gaffe delle “consultazioni parallele” a quelle del Quirinale e con la provocatoria imposizione dell’icona del referendum perduto nella “sala macchine” del governo. Tanto per dare quasi ragione postuma a chi attribuiva al progetto irrefrenabili vocazioni autoritarie. Tuttavia questa riserva di potere di vita e morte sul neonato governo non tiene conto di due elementi che la rendono velleitaria.
Il primo elemento è nelle attribuzioni del presidente della Repubblica. Già nel maggioritario a due poli e ora, ancor di più, nella fase gassosa del tripolarismo, il potere presidenziale si pone come una dimensione diversa rispetto al vecchio triangolo governo- parlamento -giudici. Ora vi è un quadrilatero e il quarto potere “condiziona” gli altri tre. Il secondo elemento è nella intrinseca imprevedibilità della funzione di governo: esercitata in un Paese della fragile Unione, immerso nel Mediterraneo, isola nella corrente dei grandi flussi globali. Ci sono più variabili indipendenti nella durata di un tale governo di quante ne possa immaginare un calcolo politico a gioco fermo. Anche questa trappola istituzionale è dunque pronta a ingabbiare chi non ne ha valutato i rischi.
È bene, però, che gli errori non continuino. In quel che resta di legislatura c’è ancora tempo per fare alcune cose essenziali: con i regolamenti parlamentari, innanzitutto, e con qualche legge ordinaria necessaria, come quella elettorale. Ma anche con minime, e indispensabili, revisioni costituzionali. Chi avrà il coraggio di opporsi ancora al voto ai diciottenni al Senato (oggi precluso dall’art. 58 della Costituzione)? La generazione Erasmus, appunto: di cui oggi piangiamo uno dei tanti, splendidi, ignoti esempi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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