sabato 3 dicembre 2016

Gli stessi che hanno fatto i soldi con la globalizzazione, girata la moda fanno i soldi con il sovranismo

Effetto Brexit in libreria anche la letteratura diventa protezionista 

Da Julian Barnes a J. K. Rowling l’isolamento adesso è d’autore
CLAUDIA DURASTANTI Rep 3 12 2016
Da qualche settimana, gli inglesi possono assistere alla versione restaurata di “Napoleon” di Abel Gance, film muto del 1927. Durante una proiezione al British Film Institute di Londra, quando è apparsa la schermata in cui Napoleone dichiara di voler creare un’Europa unita nel nome della libertà del popolo, la sala ha iniziato a rumoreggiare. Qualcuno ha fischiato, molti si sono concessi delle risate isteriche, il signore
dietro di me ha urlato «Come no». Qualche tempo fa, invece, durante un collegamento in diretta con Edward Snodwen dopo la proiezione di Citizen Four all’Institute of Contemporary Arts (ICA), un ragazzo ha preso la parola e ha iniziato a fare battute sulla Brexit, ricorrendo all’umorismo un po’ dissonante e macabro che va per la maggiore da queste parti. Ma Edward Snowden non ha raccolto e ha persino rimbrottato un po’ l’interlocutore, invitandolo a prendere molto sul serio quanto sta succedendo nel suo Paese, alterando il suo cipiglio di solito imperscrutabile. Di nuovo, il pubblico si è lasciato andare a qualche risata imbarazzata.
Negli ultimi tempi ho scoperto che il cinema è un posto perfetto per tarare il livello di disagio nazionale e quello che gli inglesi non dicono durante le transazioni commerciali quotidiane o sul posto di lavoro. Una delle conseguenze più evidenti del referendum di giugno è questa: che nessuna battuta è innocente, sul grande schermo o meno. E in un Paese in cui niente ha il privilegio dell’innocenza, la dichiarazione rilasciata qualche giorno fa da uno scrittore del calibro di Julian Barnes che lamenta l’apertura del prestigioso Man Booker Prize agli americani perché questa minaccerebbe la visibilità degli autori locali, lo è ancora meno. C’è la presunzione che la letteratura vada oltre questo tipo di protezionismi, anche all’interno di una cornice in fondo un po’ conservatrice e vetusta come quella dei premi nazionali. Ma se Brexit è l’evento politico più devastante per gli inglesi dai tempi delle guerre mondiali, è inevitabile che le sue ripercussioni vadano a toccare l’intoccabile: esisteva una letteratura di guerra, esisterà una letteratura di rinuncia alla globalizzazione. L’accusa di Barnes non è senza fondamento: in questo terzo anno in cui il Man Booker ha aperto agli americani, ha vinto effettivamente un cittadino statunitense, Paul Beatty con Lo schiavista (Fazi). A complicare l’opportunità della sua dichiarazione, c’è il fatto che Paul Beatty è un afroamericano concentrato sulla satira sulla razza nel suo Paese, tema un po’ indigesto ai locali per cui c’è ancora un conflitto di classe, ma per cui
Black Lives Matter è un po’ un’operazione di marketing. Da questo punto di vista persino la parola Commonwealth evocata da Barnes (il Man Booker è sempre stato aperto agli scrittori delle ex colonie) risulta inopportuna, per tutti i suoi rimandi alla violenza dell’imperialismo britannico. Scrittori come A. S. Byatt, Susan Hill e Philip Hensher hanno fatto da eco alla polemica di Barnes. È inevitabile notare cosa hanno in comune questi autori dissidenti: sono bianchi, più o meno di mezza età, e sono cresciuti in aree periferiche prima di diventare metropolitani. Per farla breve, è il profilo medio dell’elettore che ha votato per la Brexit. Anche se hanno poco in comune con i sostenitori di Nigel Farage, nei loro libri eruditi o nostalgici, Hensher e gli altri difendono un’idea di vecchia Inghilterra educata nelle grammar schools. A lamentarsi delle regole del Man Booker Prize non è stata infatti una scrittrice inglesissima come Zadie Smith, e men che meno lo ha fatto Salman Rushdie. Non è solo perché entrambi sono sbarcati in America o hanno un’idea più dinamica di identità, ma perché hanno un fortissimo potere contrattuale sul mercato editoriale internazionale, il che fa capire bene come la questione sia più economica che altro: il protezionismo auspicato da Barnes ha a che fare con il successo commerciale dei libri, non con la sacrosanta difesa dei valori nazionali. Ma nell’Inghilterra post Brexit agitata dal malcontento delle minoranze è inevitabile che la sua risuoni come la lamentela dell’uomo bianco che ha perso potere nel mondo. Un mondo in cui forse romanzi come Swing Time di Zadie Smith e Lo schiavista di Paul Beatty si impongono di più all’attenzione del pubblico banalmente perché i lettori hanno voglia di storie di questo tipo, che allargano il mondo invece di contrarlo. Per articolare meglio la sua protesta, Philip Hensher ha dichiarato che l’attacco al Man Booker Prize è in realtà una critica esplicita al potere finanziario degli americani capaci di dettare la linea culturale dominante, esattamente come gli inglesi un tempo hanno imposto Shakespeare in tutte le colonie.
Ma chi di protezionismo perisce, di protezionismo ferisce. Gli inglesi la linea culturale dominante la dettano ancora, quando vogliono: lo scorso anno, il Paese è stato travolto dal successo de
La vegetariana, il body horror letterario della sudcoreana Han Kang (uscito in Italia da Adelphi). Il libro è stato tradotto da Deborah Smith con il plauso unanime, e per la prima volta il vincitore del Man Booker International Prize – andato appunto ad Han Kang – ha dovuto dividere il premio con il suo traduttore. In realtà è stata Deborah Smith la vera vincitrice: in varie circostanze pubbliche, è come se la figura di Han Kang fosse stata completamente eclissata. Anche l’insistenza su una traduzione bellissima e viscerale perdeva senso, perché in fondo chi ha mai letto l’originale e chi poteva comparare? Gli inglesi, insomma, sono riusciti a trasformare La vegetariana in un libro loro.
È infine curioso che autori come Barnes e Byatt lamentino l’insularità e l’irrilevanza della letteratura nazionale quando il mercato è schiacciato dal successo di J. K. Rowling, un franchising inglesissimo che ha assoggettato le librerie di mezzo mondo. O forse non lo è affatto, perché in una polemica che interseca risiko, mercato e fiction, viene ribadito comunque il confine che separa la scrittura letteraria dalla narrativa commerciale.
Poco tempo fa sono andata a vedere Animali fantastici e dove trovarli, tratto dal libro di Rowling parallelo alla saga di Harry Potter. In teoria doveva essere un film disimpegnato, ma l’eco di Brexit si è impossessata anche di quella sala cinematografica: un po’ perché la trama, incentrata su dei maghi in trasferta a New York che si battono per difendere animali “diversi”, non può fare a meno di invocare il totalitarismo nazista e tutta la Scuola di Francoforte in esilio, ma anche per le continue e quasi esasperanti battute sulla differenza tra il modello sociale americano e quello inglese, dove gli inglesi ne escono vincitori, suscitando l’ilarità e la gioia sbarazzina del pubblico. Il che andrebbe bene, e sarebbe comprensibile: peccato che il film sia ambientato negli anni Venti.
Invocando il restringimento del Man Booker Prize ai soli inglesi e alle vecchie colonie, Julian Barnes ha ottenuto il bizzarro effetto di riportare in auge una separazione linguistica e storica che dovrebbe aver fatto il suo tempo, reinventando l’Impero come una minoranza. Il suo desiderio di fare degli scrittori con il passaporto britannico un’enclave sicura, protetta e non esposta al mercato internazionale, è lo stesso che ha animato chi il 24 giugno ha votato per andarsene. Barnes paga l’effetto perverso della Brexit che priva ogni discorso di una sua legittimità nel timore che voglia alludere alla cosa peggiore possibile, in un momento in cui il peggio non possiamo permettercelo.
L’autrice vive a Londra. Il suo nuovo romanzo è Cleopatra va in prigione ( minimum fax)
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