domenica 4 dicembre 2016

Hillary minacciava la pace nel mondo ma anche Trump non scherza

Astuzia del sovranismo multipolarista nostrano "oltre destra e sinistra". Povero Preve.
Hillary era certamente un grave pericolo per la pace nel mondo.
Ma anche Trump, l'idolo degli eurasiatisti italiani che controllano adesso Cremlino e Casa Bianca, a giudicare da quanto accade sull'asse Washington-Taiwan non scherza affatto [SGA].

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I tormenti di un'Europa che gioca sempre in difesa
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Il gioco di Trump con Pechino e Taiwan
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Cina, irritazione con Washington dopo la telefonata Trump-Taiwan 

Incidente internazionale per il colloquio tra il presidente eletto e la leader dell’isola Tsai Non accadeva dal ’79. Pechino: ora i rapporti con gli Stati Uniti possono subire conseguenze 

Paolo Mastrolilli  Busiarda 4 12 2016
Una telefonata da Taiwan a Donald Trump ha scatenato la rabbia di Pechino e ha dato uno scossone alle relazioni internazionali tra i due Paesi. La Cina ha protestato formalmente con Washington dopo il colloquio telefonico tra la leader taiwanese Tsai Ing-wen e il presidente eletto Usa. E ora il ministro degli Esteri Wang Yi ha messo in guardia sul pericolo che i rapporti tra Usa e Cina possano subire «interferenze o rotture».
Maldestra ignoranza, o calcolata volontà di ribaltare le relazioni internazionali degli Usa? La telefonata tra Trump e Tsai è solo l’ultimo di una serie di episodi che stanno alimentando questa domanda. E la risposta dei consiglieri del nuovo capo della Casa Bianca, a parte qualche gaffe dovuta al suo stile informale, sembra puntare sulla seconda ipotesi.
Venerdì Trump ha ricevuto una telefonata da Tsai, che voleva fargli i complimenti per la vittoria, e lui ha risposto, definendola «presidentessa di Taiwan». Subito è scoppiata la polemica negli Usa, perché una cosa del genere non accadeva dal 1979, quando in seguito alla scelta della «One China Policy» da parte di Nixon, Jim Carter aveva interrotto le relazioni diplomatiche con l’isola. I rapporti erano continuati, con vendite costanti di armi, ma dentro un’ambiguità voluta. Tutti i presidenti repubblicani successivi, Reagan, Bush padre e Bush figlio, hanno avuto la tentazione di sostenere in maniera più esplicita Taiwan, con Bush padre che si era detto pronto a fare qualunque cosa per difenderla, ma non si era mai andati oltre le parole. Trump, vista la polemica, ha risposto con due tweet. Il primo, sottolineava che era stata Tsai a chiamare, e nel secondo notava: «È interessante come gli Usa possano vendere armi per milioni di dollari a Taiwan, ma io non possa ricevere una telefonata di congratulazioni». 
Ora gli analisti valutano l’uscita del nuovo capo della Casa Bianca in tre modi: non sapeva cosa stava facendo, perché finora il suo «transition team» non ha chiesto l’assistenza offerta dal Dipartimento di Stato per gestire questi contatti internazionali; ha interessi personali sull’isola, perché vorrebbe costruirci un hotel; ha deliberatamente colpito la Cina, per lanciare un segnale di minaccia nelle relazioni bilaterali.
I portavoce di Trump hanno smentito le prime due ipotesi, e quindi a sentire loro resta la terza. Il nuovo Presidente vuole cambiare la politica estera americana, e lo sta già facendo. Alcune sue telefonate sono state oggettivamente curiose, come quando ha detto alla premier britannica May: «Fammi sapere se passi in città, così ci vediamo». Anche l’ordine dei leader sentiti è stato a volte singolare, ma è difficile pensare che tutto il resto sia una gaffe. La volontà di cambiare le relazioni con la Russia era stata annunciata chiaramente durante la campagna elettorale. La chiamata in cui ha detto al leader pakistano Sharif che vuole visitare e aiutare il suo bellissimo Paese, pur sapendo di urtare l’India e dimenticare i sospetti di copertura del terrorismo da parte di Islamabad, non può essere un caso. Il contatto con l’invito alla Casa Bianca per il presidente filippino Duterte, secondo cui Trump ha elogiato la sua campagna violenta contro la droga, in fondo è in linea con le cose che aveva detto in campagna elettorale contro i narcotrafficanti che insidiano gli Usa. La stessa Tsai ha vinto le elezioni a Taiwan sulla scia di un’ondata populista non troppo diversa da quella che ha spinto Donald. Rompere con la Cina sarebbe una grave svolta storica, ma Trump vuole almeno ridiscutere gli equilibri internazionali. 
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Nella Mosca di Putin che legge Fidel  a guarda a Trump 

Una città che non dorme mai dove i parrucchieri sono aperti fino a tarda notte e le giovani coppie si fanno fotografare davanti ai luoghi simbolo dell’Urss 

Cesare Martinetti  Busiarda 4 12 2016
Gamberetti e tè col miele sono un dolce spuntino dopo la sauna. Salame di cavallo alla tartara con il pane nero hanno un gusto più selvaggio, da carovana nella taigà. Ernst, tra un boccone e l’altro, mi dice: «Parliamoci chiaro, senza Putin sarebbe il caos. Avevo undici anni quand’è caduta l’Urss. A scuola fui uno dei primi a togliermi il fazzoletto rosso da pioniere che portavamo al collo. Gli insegnanti non sapevano che fare, dall’alto non arrivavano direttive, lo Stato era semplicemente scomparso».
E aggiunge: «Ricordo quegli anni con grande entusiasmo, c’era confusione, casino, ma anche vita, idee diverse, discussioni. Per strada c’erano i fascisti con la camicia nera, bande che si affrontavano, ogni giorno si faceva a pugni. Ora è tutto sotto controllo». 
Siamo ai bagni Sanduny, uno di quei posti veri di Mosca, décor rococò fine ’800, nemmeno uno straniero a pagarlo. Schwarzenegger ci girò un film. È venerdì sera, ordinari corpi da businessman si mescolano a masse muscolari tatuate da lottatori georgiani. Nella grande sauna gli inservienti sferzano spietati la schiena dei clienti con rametti di quercia e di betulla. Gesti ritmati che assomigliano a un rituale. È il relax di guerrieri che hanno combattuto le loro differenti battaglie per tutta la settimana. Sono gli elettori di Vladimir Putin che ora sembra diventato il king maker della politica mondiale, da Trump a Fillon, l’ago della bilancia di tutti gli equilibri geopolitici, a cominciare dalla Siria, il fornitore occulto di tutti i sospetti, dai leaks delle mail di Hillary Clinton alle fantasiose cosmogonie dei nostri Cinque stelle. Che pensano di lui i suoi sudditi? Lo amano, lo temono, lo detestano?
L’effetto Mosca
È qui che incontriamo Ernst Sultanov, considerandolo modello di una generazione. Ha 37 anni, ne aveva venti quando Putin è andato al potere e adesso ci dice senza esitazione: «Senza di lui sarebbe il caos». È il coordinatore di «Mir initiative», tiene insieme un forum di città che va da Mosca a Pechino a Torino e ha per obiettivo quello che chiamano un «metrò euroasiatico» che si propone di connettere le reti ferroviarie di questo vasto mondo. È una specie di folletto che passa tre giorni a Istanbul, quattro in Cina, un weekend a casa (Mosca) con passaggio abituale al bagno Sanduny. Domani sarà a Roma dove si inaugura alle scuderie del Quirinale la mostra sulla Via della Seta, antica e nuova. Lui sostiene soprattutto quella futura e dice che per la Russia è l’unica strada realistica per diffondere l’«effetto Mosca» lungo i suoi infiniti fusi orari.
Ma che effetto è? Per capirlo bisogna venire nel cuore di questa città che ha ormai quasi 13 milioni di abitanti e continua ad attrarne come una calamita. La trasformazione in pochi anni è stata spettacolare. I Gum della piazza Rossa sono stati i primi, vi si trovano coppie di sposi che celebrano il loro giorno con foto tra le boutique. La metropolitana è tuttora intitolata a V. I. Lenin, ma c’è il Wi-Fi in ogni linea, si trovano persino passeggeri che leggono libri di carta, secondo tradizione, e i mosaici con falci e martelli e bandiere rosse vengono lucidati ogni giorno. Ma è dietro al Bolshoi e nel quartierino del Kuznetsky Most che le luci brillano giorno e notte. Entrare nei vecchi Zum sovietici o nel Petrovski passage è come sentirsi ai Lafayette di Parigi o al KaDeVe di Berlino. Tutti i teatri sono illuminati, bar, ristoranti, persino i parrucchieri per signora sono aperti fino alle 2 di notte e le ragazze di Mosca ci entrano ed escono saltellando con i tacchi sulla neve, lasciando una scia di profumi e un’eco di risatine. «È una città che non dorme mai», ci ha detto con ammirazione una di loro. Pur essendo il presidente l’uomo con una delle facce più tristi del mondo, qui si respira un vibrante edonismo putiniano.
Ma non è di questo effetto che parla Ernst, piuttosto, quello di una città che rappresenta gran parte dell’economia russa ed è l’emblema delle sue contraddizioni: in questo paese dei balocchi (o se preferite il villaggio Potëmkin di Putin) che è il cuore di Mosca, è praticamente impossibile trovare merci di produzione russa, il Paese continua a vivere delle sue ricchezze naturali, gas e petrolio, e solo ora dopo la grande crisi degli anni scorsi che ha fatto perdere al rublo il 40 per cento del suo valore e sbarellato i bilanci delle famiglie più povere o anche solo normali, col prezzo del barile che risale si può immaginare il ritorno alla crescita nel 2017. Ma non c’è traccia di quella svolta di riforme che molti giudicano indispensabile, a cominciare dai demografi che stando così le cose prevedono «inevitabile» il declino della Russia salvo immissioni massicce di immigrati. A Mosca, a Mosca! Come nelle tre sorelle di Cechov, tuttora rappresentato, proprio qui accanto.
E poi questa è una città che conserva intatti i suoi numerosi fantasmi che Enzo Bettiza collocava all’hotel Lux, dove alloggiava Togliatti. Ora basta uscire dalle luci della piazza Rossa dove si sta montando il villaggio di Natale con la pista di pattinaggio e scendere verso il fiume per incontrare sul ponte il luogo dove venne ucciso nemmeno due anni fa Boris Nemzov. Ci sono vasi di fiori, la sua foto, delle scritte con quelle frasi un po’ così tipo «gli eroi non muoiono mai». Era il più rappresentativo dell’opposizione liberale, ex ragazzo prodigio della stagione dei democratici, a cavallo tra la fine del comunismo e i tumultuosi anni Eltsin. Le mura del Cremlino incombono. Per il suo omicidio sono accusati due ceceni come esecutori, ma nessuna ipotesi di mandante. Immaginare che sia stato il presidente a volere la sua fine è oltraggioso e fantasioso. Ma a Mosca anche i sospetti non finiscono mai e qualche giorno fa al processo dei killer la corte ha rispolverato una formula sovietica: «La sua attività politica come motivo dell’omicidio non è oggetto del dibattimento». Si diceva proprio così una volta dei dissidenti: crimini comuni, non politici.
Stimmate della dissidenza
Siamo tornati all’epoca sovietica? Zoja Svetova è una che porta le stimmate della dissidenza, suo padre Feliks, scrittore e attivista cristiano ortodosso, fu inviato al Gulag, i suoi figli sono stati protagonisti nelle manifestazioni di protesta contro Putin degli anni passati. E lei si batte da sempre contro le prepotenze del potere, l’ultimo suo libro tradotto in Francia si intitola «Gli innocenti saranno colpevoli». «No - ci dice - in epoca sovietica c’erano carceri speciali per i politici, ora non più, gli arrestati per reati di opinione sono sparsi insieme ai comuni». Ma cosa rappresentava Nemzov? «Era l’anima dell’opposizione, un uomo carismatico, l’unico che poteva unire. La sua fine ha avuto su di noi l’effetto di una bomba». A che punto è ora il movimento? «Ci sono ancora delle persone in carcere per le proteste contro le elezioni truccate in piazza Balotnaya quattro anni fa. Basta niente per essere accusati di terrorismo, anche un solo post su Facebook e si rischia la perquisizione in casa. La gente ha paura, chi ha potuto è andato all’estero». 
Ma ci sono pur sempre le elezioni, le ha vinte il partito del presidente, l’opposizione non ha eletto nemmeno un deputato e Putin ha un grande consenso anche nei sondaggi. «Le ultime elezioni della Duma - dice Zoïa Svetova - sono state organizzate in fretta e furia, a metà settembre, la gente era appena tornata dalle vacanze, non c’è nemmeno stata la possibilità di attaccare i manifesti e fare campagna elettorale. Ha vinto Putin. Ma quanti hanno votato davvero? A Mosca credo poco più del 30 per cento...».
All’istituto di sondaggi Levada, il più accreditato centro studi dell’opinione pubblica russa al quale il governo ha tolto finanziamenti accusando i suoi ricercatori di agire da «agenti stranieri», pensano che la questione della partecipazione al voto sia cruciale. Nelle precedenti elezioni aveva votato il 60 per cento e questa volta il governo puntava ad aumentare i consensi. Il risultato ufficiale è stato deludente: 48 per cento. Lev Gudkov, direttore del Levada, pensa che in realtà sia ancora più basso, 40-45 al massimo. Se si tiene conto del fatto che almeno il 25 per cento dell’elettorato è costituito da impiegati statali, militari, poliziotti, pubblici ufficiali, persone a vario titolo direttamente dipendenti dal sistema, la vera quota di opinione pubblica che vota per il partito del presidente è abbastanza modesta. 
Ma non ci sono alternative. L’opposizione è stata schiacciata e minacciata, nessuno contende al capo del Cremlino il ruolo di leader. Se nulla cambia Vladimir Putin si avvia a vincere senza avversari la sua quarta elezione presidenziale nel 2018. Le uniche scosse vengono dall’interno del suo cerchio e son tutte da decifrare, come l’arresto del ministro dell’economia Aleksiej Ulyukaev, incastrato due settimane fa dall’Fsb (l’ex Kgb) con una tangente-trappola. Era un uomo di primo piano dei liberali, che in questo caso vuol dire i più pragmatici e meno disponibili al ritornello propagandistico del tutto va bene.
«Votare è inutile»
Molti dei giovani putiniani rampanti non vanno a votare perché «inutile», perché è «noioso», perché «non cambia nulla». Questo non significa che non siano con il presidente, ma la situazione politica si è talmente normalizzata e appiattita che ognuno pensa al suo business e «vsiò», basta così. Non lo si può chiamare totalitarismo, è un regime autoritario con tratti di totalitarismo. Il dominio della scena pubblica, il controllo totale della Tv che sembra tornata all’epoca sovietica fa sì che lo stesso Putin appaia in cerca di un nuovo slancio. Giovedì ha tenuto il suo discorso sullo stato della Federazione cospargendolo di messaggi, come ha raccontato su «La Stampa» di venerdì Lucia Sgueglia: «Il 2017 sarà occasione per riflettere sulla natura delle rivoluzioni. Il passato va rispettato, ma occorre valutare le conseguenze». 
La storia e la sua rivalutazione ad uso del potere è diventato uno degli argomenti maggiori, una continua metafora pseudo culturale che sostituisce la politica. Il ministro della cultura Medinsky ci si dedica con zelo spesso caricaturale, difendendo i più insostenibili falsi come quello del film sui ventotto eroi che avrebbero difeso Mosca fermando da soli i panzer nazisti. Che succederà tra un anno al centenario della rivoluzione d’ottobre? L’avvertimento di Putin, che ha più volte definito il crollo dell’Urss la più grande tragedia del Novecento, sembra preludere ad una pedagogica rivisitazione. Per ora se ne colgono piccoli segni. Al «Garage», meraviglioso centro d’arte contemporanea di Gorky park costruito da Dasha Zhukova, moglie del magnate Abramovich (il padrone del Chelsea), si vendono gadget rielaborati su vecchi simboli sovietici: una carrarmato con la scritta Cccp, una zhigulì, la torre di Ostankino. Nelle librerie già sono allestiti angoli con i vecchi album sovietici.
L’impatto di passato e presente fa parte della narrativa e della popolarità di Putin. Ce lo racconta Olga, una gentile ed elegante signora di sessant’anni che incontriamo davanti a una tazza di tè al «Cofemania», accanto al monumento a Tchajkovskij e alla bellissima grande sala del Conservatorio. «Nel ’90 siamo passati dalla speranza alla disperazione. Io insegnavo francese all’università, di colpo i nostri stipendi non valevano più nulla. Ingegneri, medici, professori hanno dovuto inventarsi le vite più assurde. C’erano quelli che facevano la spola con l’estero, andavano con le borse vuote e tornavano con merci da vendere per strada. Qui non c’era niente, li chiamavano «celnok». Io me la sono cavata, ho potuto lavorare con un’impresa italiana ed è andata bene. Ma ne ho visti tanti star male. Noi eravamo cresciuti dentro la musica della letteratura russa, con un’idea forte della giustizia, non potevamo vedere questi oligarchi che non erano nessuno diventare miliardari. Il nostro Paese si era arreso. Siamo stati umiliati. All’estero non capiscono questo, non conoscono la nostra storia, nemmeno adesso. Perché se gli americani vanno in Iraq portano la democrazia, se i russi vanno in Siria portano la guerra? Noi russi siamo sempre il capro espiatorio. L’Europa ha privatizzato la parola «valori»: c’è troppa ipocrisia, pensate di avere solo voi gli ideali? Io credo che Putin sia una persona buona, è figlio del popolo, va in chiesa non solo quando ci sono il patriarca e le Tv, anche quando nessuno lo vede, nelle piccole chiese di provincia. Lui ci ha ridato la dignità».
Tra pochi giorni sarà il venticinquesimo anniversario della caduta dell’Urss, la notte del 25 dicembre 1991 la bandiera rossa scese dalla cupola del Cremlino e Mikhail Serghevich Gorbaciov uscì dalla storia. Ma tra tutti i passati della Russia millenaria, questa è una circostanza da tempo sfumata nell’oblio. Qui può succedere che l’archivio storico del marxismo-leninismo continui a vivere circondato dalle boutique di Prada e Vuitton, ma trovare qualcuno che si ricordi del padre della perestrojka è praticamente impossibile. Nella grande libreria sulla via Tverskaja davanti al municipio di Mosca, nel bancone dei libri più venduti ci sono le biografie di Donald Trump, il «campione miliardario» e di Fidel Castro, lo «stratega vittorioso». Vecchi e nuovi miti di Mosca, la città che non dorme mai. È questo, più o meno, lo spirito del tempo.
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Strappo su Taiwan Trump inaugura la sua diplomazia L’ira di Pechino Telefonata con la leader di Taipei Tsai Ing-wen Prima volta da 37 anni, l’imbarazzo di Obama FEDERICO RAMPINI Rep
‘‘NEW YORK LA PRIMA crisi internazionale, Donald Trump se la procura con la Cina provocandola sul “tabù” di Taiwan. Venerdì sera la telefonata dello scandalo: per 10 minuti il presidente- eletto s’intrattiene con la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen. Uno strappo inaudito, che interrompe 37 anni in cui gli Stati Uniti hanno avuto relazioni diplomatiche solo con Pechino. Sabato mattina arriva la protesta della Repubblica Popolare, che esige «rispetto del principio per cui esiste una sola Cina», subito riaffermato anche dall’Amministrazione Obama. Il governo cinese avvalora l’ipotesi che Trump per inesperienza sia caduto nella trappola tesa dalla presidente Tsai, è contro di lei che Pechino lancia le accuse: «Trucco meschino».
INSOMMA Trump sarebbe caduto in una trappola tesa dalla leader taiwanese. Ma il presidente- eletto non ci sta a passare per uno sprovveduto. Di fronte alla tempesta diplomatica che ha sollevato, prima twitta una giustificazione secca: «La presidente mi ha chiamato per congratularmi della vittoria. Grazie!». Poco dopo, piccato per le critiche, torna sull’accaduto con un nuovo tweet: «È interessante, l’America vende armi a Taiwan per miliardi di dollari, ma io non dovrei accettare una chiamata di congratulazioni». Così si appropria dell’incidente, gli dà una logica: lui è l’outsider che sconvolge il galateo diplomatico svelandone l’ipocrisia.
La politica americana verso la Cina si muove tra equilibrismi delicati, finzioni complesse. Le convenzioni attuali affondano le radici nell’anno 1972, l’avvio del disgelo con la Cina comunista di cui furono artefici i presidenti Richard Nixon e Mao Zedong, insieme col segretario di Stato Henry Kissinger e il premier Zhou Enlai. Peraltro lo stesso Kissinger, ormai 93enne, è stato ricevuto dal presidente cinese Xi Jinping e si sarà prodigato per «spiegargli Donald Trump». L’America a prescindere dalle alternanze fra democratici e repubblicani accetta il principio che esista “una sola Cina” e che questa sia la Repubblica Popolare, la superpotenza comunista con la quale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta non aveva avuto relazioni diplomatiche. Taiwan di conseguenza non può essere riconosciuta come nazione sovrana; risale al 1979 l’ultimo contatto fra un presidente americano e un leader dell’isola, che Pechino considera come una propria provincia in mano a forze separatiste. Al tempo stesso è vero che Taiwan è protetta dall’alleanza militare con gli Stati Uniti, è un tassello chiave nel dispositivo di sicurezza americana nel Pacifico. Pur senza riconoscerne la sovranità, tutte le Amministrazioni Usa hanno sempre diffidato i governi di Pechino dal risolvere la questione con la forza, senza rispettare la volontà dei cittadini di Taiwan. Alto equilibrismo, nel quale Trump interviene, secondo l’immagine usata da Politico. com, «come un elefante in una cristalleria cinese».
Perché lo ha fatto? Inesperienza ex ante, calcolo ex post, è la spiegazione verosimile. L’incompetenza ha giocato la sua parte, tant’è che l’entourage immediato della Trump Tower inizialmente venerdì sera ha dato notizia della telefonata con un comunicato di routine, senza coglierne l’eccezionalità. Trump oltre alla propria impreparazione soffre la mancanza di adeguati consiglieri; lo danneggia il suo rifiuto di farsi assistere dall’attuale personale del Dipartimento di Stato (proprio venerdì mattina un retroscena del New York Times ricostruiva la costernazione dei diplomatici che su vari dossier gli hanno offerto i loro servigi, inascoltati). Sono problemi che rischiano di segnare la sua presidenza: si è visto durante la campagna elettorale che un tratto della sua personalità è l’impulsività e il non ascoltare i consiglieri più esperti e moderati.
D’altra parte c’è del metodo nel gesto di ieri. Trump sfida le convenzioni e sposta i confini del “politically correct” in tutti i campi. Compresa la politica estera. Ha detto alla premier Theresa May che gli piacerebbe avere Nigel Farage come ambasciatore inglese a Washington (inaudito che un paese voglia “scegliersi” gli ambasciatori altrui). Ha invitato il leader filippino Duterte, l’ispiratore degli squadroni della morte che insultò ripetutamente Obama. Ha elargito elogi esagerati e imbarazzanti al Pakistan e al Kazakhstan. Sulla Cina, Trump non ha mai nascosto i suoi propositi bellicosi. L’ha attaccata per concorrenza sleale e per avere contribuito alla deindustrializzazione degli Stati Uniti. Ha detto nei comizi: «Non dobbiamo consentire alla Cina di stuprare il nostro paese come sta facendo». Ha minacciato dazi fino al 45% sul made in China. Quindi è possibile che, giustificando e rivendicando ex post la sua gaffe, abbia voluto mettere alla prova i cinesi, in quella che rischia di diventare una guerra di nervi, in cui alternerà propositi rassicuranti e provocazioni. Lui in campagna elettorale auspicò che Giappone e Corea del Sud si dotassero dell’arma atomica, uno strappo perfino più grave con la politica estera americana dalla seconda guerra mondiale in poi. Per quanto al presidente uscente resti un mese e mezzo del proprio mandato, appaiono già lontani gli anni di Obama, che riuscì faticosamente a portare la Cina dentro l’accordo di Parigi sull’ambiente.
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La Cina considera l’isola una propria provincia nelle mani di forze separatiste Il tycoon: “Solo una chiamata per congratularsi della mia vittoria”
Nel mondo esiste una sola Cina, e Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese Chiediamo di gestire le questioni legate all’isola con cautela e attenzione
IL MINISTERO DEGLI ESTERI CINESE

Donne al comando, asse con gli Usa l’altra Cina esce dall’isolamento ANGELO AQUARO Rep
C’era una volta il “made in Taiwan”, era l’alba degli anni Settanta e anche l’Italia che arrancava nell’austerity scoprì l’invasione dei prodotti sottocosto in arrivo dalla Cina. Già, ma quale Cina? Quella “nazionalista”, recitavano fior di esperti, per distinguerla dalla “Cina comunista” di Mao Zedong. Altri tempi? Mica tanto se perfino il presidente eletto degli Stati Uniti non fa adesso che rilanciare la confusione. E pensare che l’ultima crisi si sta consumando mentre a Pechino torna un signore chiamato Henry Kissinger, l’uomo che organizzò lo storico viaggio di Richard Nixon del 1972: l’inizio della fine dell’isolamento della Cina comunista ma anche l’inizio della fine del sogno di Taiwan di rappresentare la Cina nel mondo. Il presidente Xi Jinping l’ha invitato per farsi spiegare che tipo è questo Trump. E Kissinger è venuto a dirgli quello che aveva già detto alla
Cnn:
«Non bisogna inchiodarlo sulle posizioni che ha espresso in campagna elettorale. Certo, se poi davvero insiste...».
Trump ha insistito, e ieri sì che Pechino ha alzato la voce con la Casa Bianca dell’incolpevole Barack Obama. E Taiwan? «Almeno il mondo si è accorto che esiste », racconta Barbara Celis, giornalista che ha lasciato New York per l’isola e ieri ha raccolto per strada la gioia «soprattutto tra i più giovani, quelli che dai tempi del Sunflower Movement spingono per l’indipendenza, anche se qui è difficile liberarsi dalla paura dell’invasione». Non è solo un mito della guerra fredda. C’è un rapporto del ministero della Difesa taiwanese datato 2015 che adombra letteralmente lo scenario: ricordando i 1.500 missili già puntati contro ma anche le ultime manovre militari intorno alle isole contese nel Mar della Cina. Del resto Pechino ha passato 11 anni fa quell’Anti Secession Law che prevede l’uso della forza persino «se non si intravede più la possibilità di una riunificazione pacifica». Eppure le migliaia di persone che ieri hanno invaso il Ketagalan Boulevard a Taipei protestavano, certo, ma mica per la telefonata tra The Donald e Tsai Ing-wen, la prima presidente che parla di indipendenza: sono scesi in piazza contro la legge con cui questa signora fiera di essere single, nonché paladina dei gatti, vuole fare del suo piccolo grande stato la prima nazione d’Asia a legalizzare le nozze gay. Capite come sono uguali e diverse la Cina di Pechino e quella di Taiwan? Nell’altra Cina vogliono i matrimoni omosessuali, in questa la Costituzione riconosce solo il matrimonio tra uomo e donna. Nell’altra Cina comanda una donna, in questa non ce n’è una nel Comitato permanente. Nell’altra Cina una donna, Hung Hsiu-chu, è anche a capo dell’opposizione, in questa l’opposizione non ha neppure un capo perché non esiste. Nell’altra Cina il Pil sale, in questa rallenta: ok, lì +2.03% e qui comunque +6.7%, le grandezze non sono comparabili, ma l’altra Cina è una nazione di 20 milioni di abitanti, questa di 1 miliardo e 400 milioni di persone. Nell’altra Cina vogliono liberarsi del nucleare entro il 2025: in questa vogliono triplicarlo entro il 2020.
Peccato che tutto questo, per Pechino, non ha alcun senso: perché per Pechino non esiste un’altra Cina. La Cina è una e una sola: e a dire il vero fino alla telefonata che ora il China Post di Taipei definisce “storica” il principio era condiviso anche dall’isola. È il “1992 Consensus” che per superare lo stallo permise a entrambi i duellanti di riconoscere l’esistenza di una sola nazione: la propria. Quando nel 1949 i comunisti di Mao conquistarono Pechino dando vita alla Repubblica popolare, ai nazionalisti di Chiang Kai-shek non era restato infatti che miniaturizzare la Repubblica cinese in questo superscoglio nel Pacifico: l’isola che i portoghesi chiamarono “Bella”, cioè Formosa. Chiang Kai-shek è morto nel 1975. Mao l’ha battuto anche in quello: è campato un anno di più. Da allora l’ascesa economica e politica del Dragone ha fatto il resto: facendo uscire Taiwan prima dall’Onu, dove ha perso il seggio preso dalla Cina, poi dai radar dell’attenzione internazionale. Per non far arrabbiare Pechino, dalle Olimpiadi all’Organizzazione mondiale della salute le hanno tolto anche il nome: la chiamano Taipei.
È toccato a una donna, ora, riportare al centro del mondo l’isola che voleva diventare nazione: con il piccolo aiuto di Edwin Feulner, il consigliere di Trump che già a ottobre era sbarcato qui per incontrare la presidente e che è stato fra l’altro il gran supporter di Elaine Chao, la donna emigrata dall’isola che The Donald ha chiamato nel suo governo dando un altro schiaffo alla Cina. È la riscossa del “made in Taiwan”? Per la verità la forza da lì non se n’è mai andata, è pur sempre il paese di Asus, Acer e altre meraviglie tecno, la quarta Tigre asiatica con Singapore, Hong Kong e Corea del Sud. Ma cosa può il graffio della Tigre contro le fiamme del Dragone?
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