mercoledì 30 novembre 2016

Claudio Pavone 1920-2016, un maestro


Il volgare tentativo di piegarne le tesi a sostegno della riabilitazione di un passato che molti vorrebbero ancora presente, nel nome di una impossibile "pacificazione" - un tentativo che sfiora il ridicolo con Perfetti sul Giornale ma che affiora anche nel morboso sfrucugliamento sul Corriere, la Stampa e quella velina di questo Zeitgeist di merda che è Repubblica - illustra assai bene la cialtroneria cortigiana del mondo del giornalismo culturale italiano, che non ha nulla da invidiare a quello accademico [SGA].


Nato nel 1920, partigiano combattente, con un libro del 1991 inaugurò un nuovo modo di considerare la Resistenza nella cultura di sinistra. Ma non concesse nulla al fascismo
di ANTONIO CARIOTI Corriere

Il suo libro del 1991 fu fondamentale (pur con troppe omissioni) per riaprire il dibattito sulla Resistenza



La battaglia dei cittadini alle radici della Repubblica 
Storia del Novecento. Addio allo storico Claudio Pavone, scomparso all'età di 95 anni. Sua l'opera fondamentale intorno alla Resistenza «Una guerra civile»

Gianpasquale Santomassimo Manifesto 30.11.2016, 23:59 
A 96 anni non compiuti per un sol giorno, si è spento Claudio Pavone, dopo una lunga vita spesa bene con eleganza e discernimento. 
Aveva l’età per aver partecipato alla Resistenza, dapprima nel Psiup, poi nel Partito Italiano del Lavoro (che nei suoi ricordi definiva «un gruppetto un po’ estremista»). Se in tarda età si definiva «azionista postumo» confessava di non aver aderito a quel partito, avendone conosciuto solo la componente moderata ed elitaria. La rievocazione di quegli eventi alternava ironia e serietà, ricordando l’episodio che lo aveva portato, allo scadere del coprifuoco nella Roma occupata, a disfarsi dei volantini gettandoli in una grossa auto nera parcheggiata, che apparteneva però al capo dell’Ovra, Guido Leto, gesto che provocò il suo arresto e la detenzione prima a Regina Coeli e poi dal dicembre del ’43 nel carcere di Castelfranco dell’Emilia. 
Liberato nell’estate del ’44, riprese l’attività clandestina a Milano, dove visse gli eventi della fine del fascismo. Questi ricordi sono nel libro La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, edito da Donzelli nel 2015, dove è contenuta anche una vivida descrizione di Piazzale Loreto e di un popolo «non all’altezza della tragicità» di quell’epilogo. Fu per gran parte della sua vita archivista, divenendo nel tempo maestro per generazioni, promuovendo l’apertura dei confini della professione spesso angusti e autoreferenziali, e continuando anche in seguito a interessarsi dei problemi connessi tanto all’organizzazione degli Archivi quanto alla legislazione più moderna e delicata in materia (il tema della privacy, ad esempio).  Claudio Pavone 
I SUOI INTERESSI di storico furono a lungo dedicati al tema, assai poco frequentato, del modello di impianto amministrativo che dal Piemonte volgeva all’Italia post-unitaria (Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), del 1964). E con prime approssimazioni ai temi di storia e cultura della Resistenza che in età già molto avanzata lo avrebbero visto protagonista assoluto.
Il primo intervento, che fece molto discutere, fu quello del 1959 sulla rivista vicina ad Antonio Giolitti «Passato e presente», attorno a Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, che ricostruiva il tema complicato del rapporto con la tradizione risorgimentale, a volte non pacifica e anzi conflittuale per molte tradizioni e segnatamente per quella comunista, passata nel corso degli anni Trenta dalla denigrazione di quel passato alla rivendicazione dei simboli risorgimentali. Come molte polemiche si addensavano attorno a un altro dei temi portanti della sua ricerca, quello sulla «continuità dello Stato», negli anni Settanta divenuto tema di discussioni accese e di suggestioni interpretative contrapposte rispetto alle origini dell’Italia repubblicana e al suo rapporto con il passato. 
RISPETTO A SEMPLIFICAZIONI troppo brutali che all’epoca erano correnti, la sua ricerca, contenuta in un ampio saggio del 1974 e in interventi successivi (raccolti tutti nel volume Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri 1991) documentava l’innegabile continuità operante, pur non disconoscendo «i molti cambiamenti intervenuti», senza per questo «rifluire nella storiografia dei delusi», e tenendo nel dovuto conto ruolo degli Alleati, persistenze di apparati e termini complessi dell’epurazione tentata e solo parzialmente attuata. 
Solo in età avanzata entrò nell’università, insegnando alla Statale di Pisa dal 1975 e uscendone come docente associato nel 1991 (il che dice molto sull’università italiana), proprio alla vigilia della sua fama improvvisa presso il grande pubblico e della sua consacrazione come protagonista riconosciuto di un filone importante e controverso della storiografia italiana. 
Aveva cominciato a suscitare discussioni, molto vive e talvolta aspre nell’ambiente resistenziale, tornando a proporre il tema della «guerra civile» in alcuni convegni a partire dal 1985. E proprio Una guerra civile era il titolo della grande opera pubblicata nel 1991, ma con un sottotitolo che andò quasi dimenticato: Saggio storico sulla moralità della Resistenza. 
Ci fu, e probabilmente a maggior ragione vi è tuttora – nell’inevitabile semplificazione che lo scorrere del tempo comporta – un fraintendimento sul senso di quel titolo. Certamente il termine col passare degli anni era caduto in disuso, sebbene la definizione di guerra civile fosse stata presente a lungo nel linguaggio ufficiale, talvolta sostituita con l’espressione «guerra fratricida» dalla connotazione molto più deprecativa. 
MA PAVONE SPIEGAVA chiaramente, nelle prime pagine del libro, il senso che intendeva dare all’espressione prescelta: guerra civile perché guerra combattuta dal cittadino, dal civis, l’unica guerra degna di essere combattuta, perché investiva integralmente l’esistenza di chi vi prendeva parte. 
Si trattava di una laboriosa, ricca e sapiente ricostruzione di cultura e politica, di universi morali e mentali delle molte componenti che confluivano in quel fenomeno, dall’una e dall’altra parte.
La vera grande novità interpretativa era la teorizzazione delle «tre guerre» che si combatterono in Italia tra il ’43 e il ’45 (e dalle radici che talvolta affondavano in un passato che non andava rimosso): guerra civile, patriottica, di classe. Guerre che non si svolgevano autonomamente e in parallelo ma si intersecavano e si sovrapponevano in maniera inestricabile nella stessa coscienza dei protagonisti. 
SI È TRATTATO DI UN PUNTO fermo nella riflessione storica, da cui non sarà possibile tornare indietro e che non può essere banalizzato dalla disinvoltura di chi privilegia un solo elemento unilaterale ignorando la complessità e la tragicità del fenomeno. «In certi momenti mi dico, autoironicamente, di essere riuscito a non morire fascista né democristiano. Spero di non crollare sotto il peso di questo ventennio tanto surreale quanto doloroso», affermava in una intervista a Repubblica del 27 ottobre 2013. Gli ultimi anni lo avevano visto, fino a quando non era stato soverchiato dal peso della vecchiaia, lucido e attivo nell’impegno civile e culturale. 
Chi ha memoria delle sue conversazioni lo ricorderà a lungo come uomo ricco di curiosità e di umanità, dal tratto signorile e dalla mitezza non priva di una fermezza di fondo e di una coerenza interiore che non lo aveva mai abbandonato.

Claudio Pavone Tre conflitti in una Resistenza 

È morto lo storico che liberò dalla retorica la narrazione della lotta antifascista 
Aldo Agosti  Busiarda 30 11 2016
Se si pensa al grande vuoto che lascia la sua scomparsa e alla ricchezza e alla varietà degli scritti saggistici e autobiografici che ha pubblicato in questi ultimi anni, si fa fatica a ricordare che Claudio Pavone si è imposto all’attenzione dei grandi media e dei lettori non specialisti ed è diventato una voce di riferimento nel discorso pubblico solo a settant’anni compiuti. Fu nel 1991, quando apparve il suo libro Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza
Eppure la sua biografia non era di quelle ordinarie. Impegnato nella Resistenza clandestina subito dopo l’8 settembre, passò quasi un anno in prigione. Dopo la guerra abbandonò la politica attiva ma non l’impegno intellettuale militante: uomo senza partito ma sempre e coerentemente di sinistra, scrisse assiduamente sulla galassia delle riviste che negli Anni 50 davano voce all’anima inquieta del socialismo italiano. Quando nel 1975 lasciò il ruolo di dirigente dell’Archivio di Stato per l’insegnamento universitario, la sua autorità era già da tempo indiscussa nella comunità degli storici, grazie a un invidiabile curriculum di studioso. 
Il postfascismo
I suoi interessi si erano concentrati in due campi: la storia delle istituzioni e dell’amministrazione italiana dopo l’Unità e il tema cruciale della continuità degli apparati dello Stato dal fascismo al postfascismo. Un tema, quest’ultimo, che aveva affrontato, come egli stesso avrebbe riconosciuto, «nel clima della nuova sinistra post-sessantottesca», sentendosi partecipe di un movimento che gli sembrava riaprisse un discorso rimasto sospeso nel 1945 e appena riabbozzato alla fine degli Anni Cinquanta. Su quella continuità Pavone aveva insistito molto, tanto da ammettere anni dopo che nella sua interpretazione era presente «una radicalità non priva di cadute in uno schematismo di tipo classista» e un eccesso di polemica contro quello che si era spinto a chiamare il «bigottismo costituzionale». Ma in realtà quegli scritti toccavano un nervo scoperto nel dibattito culturale e politico, quello della legittimazione che la Repubblica italiana attingeva dalla Resistenza. Una legittimazione che il libro del 1991 tornava sì a ribadire, ma attraverso un percorso ben più complesso e articolato di quello consegnato all’ufficialità delle celebrazioni.
Morale e violenza
Frutto di anni di riflessioni e di ricerche, Una guerra civile toccava – basandosi su un’amplissima gamma di fonti – diversi temi di grande rilievo: dal valore fondante della scelta compiuta l’8 settembre al problema della violenza, al rapporto tra politica e morale. Era una rilettura della storia degli anni 1943-1945 ferma nel sottolineare l’importanza decisiva della lotta di liberazione per la riconquista della dignità nazionale e per una vera rinascita di quella patria di cui era di moda allora, nell’incipiente clima del «revisionismo», far risalire la morte all’8 settembre 1943. Ma era altrettanto attenta a far risaltare differenze e chiaroscuri. Da un lato distingueva fra una «Resistenza in senso forte», la guerra partigiana combattuta soprattutto al Nord da una cospicua minoranza, e una «Resistenza in senso ampio e traslato», che era man mano diventata – anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne o manometterne la memoria – l’elemento legittimante del sistema politico repubblicano.
Guerra di indipendenza
Dall’altro interpretava la Resistenza a un tempo come guerra patriottica, combattuta per liberare il paese dall’occupazione tedesca e sentita in sostanza come nuova «guerra d’indipendenza», guerra civile, tra combattenti partigiani ed i fascisti della Repubblica di Salò, e guerra di classe, combattuta, soprattutto dai comunisti al Nord nel nome di una radicale trasformazione sociale. 

Queste tre concezioni si intrecciavano spesso anche negli stessi protagonisti individuali o collettivi. Ma il titolo che diede al volume, e che contribuì al suo forte impatto nel dibattito politico e storiografico, finì per portare in primo piano la guerra civile, sdoganando un’interpretazione che era stata fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra, anche se era stato ben presente, nel vivo della lotta, sia nella pubblicistica comunista del Nord, sia soprattutto in quella azionista. Franco Venturi aveva parlato addirittura della guerra civile come della sola guerra che per il suo valore etico meritasse di essere combattuta. 
Uno standard accettato
Pavone, che avrebbe sempre sottolineato l’importanza anche della seconda parte del titolo del suo libro, ridiede piena dignità al termine proprio nella prospettiva di accentuare la portata morale della scelta antifascista, di sottolinearne l’importanza per il futuro dell’Italia. Ancora nel 1991, quel termine non piacque a tutti, nemmeno all’interno della tradizione azionista: non a Nuto Revelli, per esempio, che pure elogiò il libro come «un lavoro straordinario che ci ha liberati da tutta la retorica che si era depositata sulla resistenza». Con il tempo però il libro di Pavone appare sempre più uno spartiacque storiografico nello studio del biennio 1943-1945 e la sua tesi di fondo – quella della Resistenza come intreccio di tre guerre – non solo non è più seriamente contestata ma è diventata termine di riferimento anche per la comparazione con il movimento di liberazione in altri paesi. Sentiremo la mancanza dei suoi limpidi, mai interrotti ragionamenti sui rapporti tra la moralità, le idee e la cultura da un lato, le istituzioni dall’altro.

Quando il Pci censurava l’idea di guerra civile 

Mattia Feltri  Busiarda 30 11 2016
Il primo a inalberarsi fu Giancarlo Pajetta: «No, non si è trattato di una guerra civile, ma di una guerra di popolo, di una guerra meritoria, di una guerra per l’indipendenza». Claudio Pavone, durante un convegno a Brescia, aveva appena espresso la sua teoria sulla triplice guerra combattuta durante la Resistenza: una patriottica contro i tedeschi, una di classe fra rivoluzionari e borghesi, e appunto una civile: italiani contro italiani. 
Era il 1985, mancavano ancora sei anni all’uscita della sua opera più celebre («Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza». E per la prima volta in trent’anni uno storico di sinistra e per di più ex partigiano - sebbene estraneo al Pci - aveva osato pronunciare quell’espressione, «guerra civile», abolita su desiderio del più importante leader del comunismo italiano, Palmiro Togliatti, nel tentativo di togliere dignità di contendente agli avversari, cioè i fascisti, e di costruire una reputazione al Pci. Obiettivo raggiunto: a parlare di guerra civile erano rimasti Giorgio Pisanò nei suoi racconti dalla ridotta di Valtellina e i suoi colleghi di reducismo. 
Eppure subito dopo il ’45 la definizione era diffusa e per niente sacrilega, usata da Ferruccio Parri, Leo Valiani e persino da Paolo Spriano, storico di spessore molto gradito alle Botteghe Oscure. Poi basta. Ecco perché Pajetta, comunista di granito, quel pomeriggio a Brescia si alza e si scandalizza: intravede il tentativo di mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti, e fa niente se negli anni Pavone spiegherà e rispiegherà che non ci pensava nemmeno, la definizione di «guerra civile» era pura filologia, e secondo lui gli antifascisti avevano ragione e i fascisti torto.
Trascorrono tre anni, e nell’88 Pavone ci riprova in un convegno a Belluno. Lì si scatena l’Unità con Emilio Sarzi Amadè, giornalista e partigiano, che liquida la faccenda con disprezzo: «Torbida suggestione». E subito dopo rincara Filippo Frassati, storico non di primissima fila ma molto fedele al partito, che svilisce quella di Pavone a «pseudo teoria». E quando esce il libro, è il ’91, non va tanto meglio. Anche perché l’anno prima, a Muro di Berlino tirato giù, era stato dedicato alla disputa sul Triangolo della morte in Emilia che aveva ringalluzzito non soltanto l’area del Movimento sociale ma anche politici e studiosi più moderati, esausti della retorica resistenziale.
L’approfondimento di Pavone regge all’urto perché come sempre è molto serio e perché è appoggiato da totem come Vittorio Foa e come Norberto Bobbio, che ha incoraggiato Pavone nel suo lavoro. Insorge l’Anpi, insorge Giorgio Bocca, garbatamente pure Nuto Revelli («Non era un guerra civile, perché i fascisti per noi erano stranieri come e più dei tedeschi») che però finisce col rafforzare la fondamentale dottrina di Pavone sul supplemento d’odio. Ma «guerra civile» è ormai un’espressione sdoganata, accettata da tutti e, oggi lo si è capito, così decisiva per valutare la storia del Pci oltre l’oleografia.
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Claudio Pavone  Lo storico che riscoprì la moralità della Liberazione

Laico, rigoroso, “azionista postumo” è morto il giorno prima dei 96 anni
GUIDO CRAINZ Rep 30 11 2016
Guida generale degli Archivi di Stato italiani, alla cui ideazione e realizzazione diede un contributo decisivo. Mi sono chiesto a lungo, ha scritto, se e come la moralità, le idee e la cultura riescano a lasciare il loro segno nelle istituzioni: la mia «vena di moralismo vagamente anarchico», ha aggiunto, mi spingeva a dubitarne ma proprio il mio lavoro di storico e di archivista mi ha talora convinto che questa possibilità esiste. Vi è qui una chiave per comprendere molti suoi tratti: l’intreccio profondo fra impegno intellettuale e passione civile, ad esempio, o una attenzione alle fonti – non solo a quelle archivistiche – che è rigorosissima ma non ha nulla di erudito. Pavone le viveva, al contrario, come strumento essenziale per indagare anche gli aspetti più insondabili dell’individuo e delle vicende collettive. E poteva farlo proprio perché muoveva da una grandissima apertura e ricchezza culturale: è un vero scrigno la sua Prima lezione di storia contemporanea
(Laterza, 2007: e presso lo stesso editore ha pubblicato di recente
Aria di Russia, appunti di un viaggio del 1963).
La passione onnivora con cui guardava alle fonti è limpidamente testimoniata dal suo lavoro più importante, uno dei grandi libri del Novecento italiano:
Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza
(Bollati Boringhieri, 1991). Una tappa fondamentale nel suo percorso di ricerca, che si è allargato di continuo ai grandi nodi della storia contemporanea ma ha avuto costantemente al centro la stagione della Resistenza e il suo rapporto con la nascita della Repubblica. I suoi contributi più stimolanti su questo terreno sono venuti in coincidenza con tre fasi di rinnovamento culturale del Paese, o di rifondazione dopo il crollo delle certezze. Così fu nel post 1956, in un clima che Pavone visse anche nell’esperienza di
Passato e presente, la rivista animata da Antonio Giolitti e Luciano Cafagna, Alessandro Pizzorno e Alberto Caracciolo. In quelle pagine pubblicò nel 1959 Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti davanti alla tradizione del Risorgimento: una critica puntuale della lettura “ufficiale”, o dello stereotipo, della Resistenza come “Secondo Risorgimento” e al tempo stesso una rivisitazione penetrante di entrambe le fasi, e degli usi politici che ne erano stati fatti.
Ancora un suo denso saggio troviamo poi al centro del dibattito successivo al ‘68, un movimento cui aveva guardato con attenzione partecipe e con speranza (vide allora «riaprirsi il campo del possibile», come scrisse). Fra i temi che quei fermenti avevano messo all’ordine del giorno vi era anche il contrasto fra le speranze di trasformazione del 1943-45 e l’“Italia reale” che ne era poi nata, presto immersa nel clima teso della guerra fredda. Riflettendo su quel nodo in sintonia con Guido Quazza, Pavone mise a fuoco una questione essenziale: la “continuità dello Stato” nel passaggio dal fascismo alla Repubblica come corposo freno a un rinnovamento reale. Non una continuità assoluta, ma un tenace permanere di apparati, di uomini e di culture da cui sarebbero venuti condizionamenti pesanti. Nei suoi saggi su questi temi — raccolti poi in Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) — trovavano risposte e al tempo stesso ulteriori stimoli le ansie di comprensione della realtà italiana che il ‘68 aveva alimentato, e venivano superate sia le rimozioni che le semplificazioni ideologiche. Era solo la premessa di Una guerra civile, frutto di una riflessione che portò a fondo anche in reazione al più generale disorientamento e “perdita di memoria” degli anni Ottanta: comprendeva bene la necessità e l’urgenza di contrapporre a quel clima risposte di alto profilo.
È impossibile soffermarsi su quel grandissimo libro, capace di scandagliare i differenti modi di “essere italiani” che erano sedimentati in una vicenda lunga. Capace di cogliere nella crisi del 1943-45 non solo il delinearsi di diverse e opposte opzioni ideologiche e politiche ma anche «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell’uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro». Capace di porre al centro una intensa riflessione sul rapporto fra scelte individuali e vicende collettive. E di far comprendere i diversi percorsi attraverso cui prese di nuovo corpo e significato nella Resistenza l’idea di patria. In quel crocevia Pavone vedeva il coesistere e l’intrecciarsi di “tre guerre”, mosse da differenti motivazioni ed aspirazioni: la guerra di liberazione nazionale contro l’occupazione nazista, certo, ma anche una “guerra di classe” intrisa di aspirazioni ad un radicale rivolgimento sociale, e al tempo stesso una guerra civile fra fascisti e antifascisti, epilogo dello scontro aperto nel 1921-22 dalle violenze squadristiche. Proprio quest’ultima chiave di lettura suscitò anche reazioni aspre: non solo e non tanto, forse, perché la categoria di “guerra civile” era stata usata strumentalmente dalla pubblicistica neofascista quanto perché in questo modo il libro poneva alle origini della Repubblica non un mito rassicurante ma un irto groviglio di questioni, e impediva al tempo stesso di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a riflettere, anche, sul nesso decisivo fra etica e politica: quel libro è davvero un «saggio storico sulla moralità della Resistenza » ma al tempo stesso, come osservava Nicola Gallerano, «una testimonianza dello spessore morale dello storico che lo ha scritto»


“Fu guerra civile” E destra e sinistra non lo perdonarono 
Dimostrò per primo da antifascista che la Liberazione divise il Paese ma non accettò mai il revisionismo

SIMONETTA FIORI Rep 30 11 2016
Quando usciva dai dibattiti in cui veniva contestato, Claudio Pavone manteneva uno sguardo sereno, di chi sa di essere nel giusto. Non che fosse sospettabile di sicumera, al contrario: coltivava il dubbio e le sfumature, ma una volta scelta la strada la percorreva fino in fondo, soprattutto se si trattava di sconfinare oltre il mito, di sfidare il senso comune o le immagini “più rassicuranti” e “levigate” della nostra stessa radice democratica. Sfide che non ebbero carattere univoco, tanto da procurargli critiche da fronti opposti. Da parte della sinistra che fece fatica ad accettare il capolavoro con cui sdoganava la nozione di guerra civile. E dalle voci più pungenti della retorica anti-antifascista che, più o meno nella stessa stagione, non gli perdonarono l’impegno pubblico contro il “neorevisionismo” a uso e immagine dei nuovi governanti del centro-destra.
Nel 1991, in un passaggio storico di grandi rivolgimenti in Italia e nel mondo, uscì il suo libro più famoso, Una guerra civile. Il titolo fu fortemente voluto dall’editore Giulio Bollati, consapevole del suo tratto dirompente. Si trattava di un saggio spartiacque, frutto di un lungo lavoro di ricerca, destinato a modificare non solo il giudizio storiografico ma anche il senso comune intorno alla Resistenza e al biennio infuocato tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945. Secondo Pavone non si trattava solo di guerra di liberazione dai nazifascisti, e di guerra di classe (comunisti contro padroni), ma anche guerra civile tra italiani di segno opposto. Qualcuno nella sinistra intellettuale, e nelle file dei partigiani reduci, gridò allo scandalo. Guerra civile era una categoria impiegata fino a quel momento solo nei libri del neofascista Giorgio Pisanò: l’uso da parte di uno storico antifascista, peraltro ex partigiano, appariva una resa ai repubblichini che per tanti anni l’avevano sbandierata per legittimare la propria parte.
Fiorirono dibattiti, sulle pagine culturali e negli incontri pubblici. In dissenso intervennero le voci critiche di Giulio Einaudi, di Giorgio Bocca, di Nuto Revelli. Pur apprezzando la ricchezza della documentazione, mostravano perplessità per una formula che sembrava sminuente. «Non fu una guerra civile nel senso pieno del termine», obiettò Nuto Revelli, «perché i fascisti per noi erano degli stranieri, come e forse più dei tedeschi». Ma se i fascisti non erano considerati neppure italiani, fu la replica di Pavone, «questo suona come una conferma delle pagine in cui cerco di chiarire come sia tipico della guerra civile l’atto di privare l’avversario della nazionalità ». In difesa dello studioso si schierano Vittorio Foa e Norberto Bobbio, che avevano partecipato attivamente alla progettazione del lavoro. Pavone sapeva bene che «la memoria collettiva tende a seppellire tutto ciò che la angustia». E la guerra fratricida combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945 era un grande peso a rimuovere. Si faceva fatica ad accettare che anche la Repubblica Sociale fosse storia nostra, storia del nostro paese. E che gli odiati fascisti di Salò fossero italiani «e non fantasmi partoriti dall’inferno».
Le vivaci polemiche rischiarono di oscurare la grandezza dell’opera, racchiusa nel sottotitolo Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Proprio «per non annullare la memoria della guerra di liberazione nella oleografia rifiutata dalle generazioni più giovani», Pavone spostò la sua lente storiografica sugli uomini e sulle donne della Resistenza, sulle loro “convinzioni morali”, sulle “strutture culturali”, sulle “pulsioni emotive”, sui “dubbi e le passioni” suscitate dalla crisi dell’8 settembre del 1943, quando le istituzioni italiane parvero dileguarsi. Il terreno scelto da Pavone era quello della “moralità”, ossia il terreno in cui si incontrano e si scontrano politica e morale. «Si trattava di calare in contingenze storiche alcuni grandi problemi morali. E reciprocamente volevo mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero a quei problemi», scrisse lo studioso nella premessa al volume. Il risultato fu uno straordinario affresco in cui per la prima volta prendeva la parola una moltitudine di giovani uomini travolti dalla Storia. Per loro, per chi aveva scritto «è ben triste vivere senza far sapere», lo studioso aveva lavorato alla sua opera principale.
Moralità è anche la cifra che più rispecchia la personalità intellettuale di Pavone, molto critico verso i disinvolti riscrittori della storia repubblicana che negli anni Novanta si misero al servizio dei nuovi governanti. Comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò non significava considerarli sullo stesso piano dei partigiani. E capire la complessità delle nostre origini repubblicane non significava svilire le fondamenta antifasciste. Intellettuale rigoroso, fu severo verso quegli opinion maker che usavano la storia come strumento di lotta politica contingente: hanno tutto il diritto di farlo, aggiungeva Pavone, ma nel momento in cui lo fanno non operano da storici. La critica non gli fu perdonata. Qualche anno dopo, in occasione della visita del presidente Ciampi a Cefalonia in ricordo dell’eccidio nazista, Ernesto Galli della Loggia puntò l’indice contro Una guerra civile, lamentando che in 800 pagine non una riga era dedicata alla strage. Un attacco insensato (lo studioso aveva parlato di Cefalonia in altre sedi), lontano dallo stile pacato mostrato da Pavone nella sua vita privata e pubblica.
Pur essendo al centro di diverse polemiche, Pavone cercava sempre di evitare rotture personali. Come se la sua moralità implicasse il rispetto dell’altro, anche nel dissenso.
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