giovedì 1 dicembre 2016

La filiazione centrosinistra di Renzi dimostrata dai fatti. Tutti pronti a accordarsi con Renzi sia con il Sì, sia con il No


























Il paradosso di Cacciari e le ragioni del Sì   
"... Un’opposizione di sinistra intelligente dovrebbe svelenire il clima plebiscitario e dare sin d’ora la disponibilità a un governo politico di scopo in caso di vittoria del No, anche a guida Renzi.
Una prospettiva di stabilità scongelerebbe gli incerti e toglierebbe l’alibi della mancanza di alternative..."
Spagnoli sul Manifesto di oggi


Corriere della Sera - 19 ore fa
verso il voto del 4 dicembre ... la sinistra ferita dalla scelta di Prodi: «Ma con le sue parole boccia Matteo» ... Ma pur sempre un Sì. Il Professore motiva così: «Anche se le ...


“Una decisione sofferta E Matteo dimentica l’Ulivo” 

L’ex premier: correndo sotto i portici di Bologna ho pensato di dover parlare. Preoccupazione per la stabilità internazionale 

Fabio Martini  Busiarda 1 12 2016
Il Professore sembra un uomo sollevato: «Sì, è stata una decisione sofferta. Certo, da tempo avevo deciso come votare, ma stamattina, correndo sotto i portici a Bologna, ho definitivamente maturato la convinzione che fosse giusto rendere pubblico il mio voto, anche se da diversi anni ormai non prendevo posizione su temi di politica italiana». Le prime parole di Romano Prodi, pronunciate poco dopo aver scritto la nota per le agenzie, restituiscono il background emotivo di una decisione sofferta, che gli è costata, ma che alla fine è stata liberatoria. Un endorsement per Renzi? La svolta a favore del Sì, che potrebbe ribaltare le sorti di una partita ancora in bilico? Le duemilaottocento battute scritte dal Professore per la sua nota pro-Sì sono un distillato di orgoglio, una rivendicazione della sua battaglia storica per «una democrazia decidente e bipolare», ma anche il più severo ritratto di Matteo Renzi che sia stato mai scritto da una personalità del centrosinistra. Al punto che, se gli si chiede se il suo Sì sia scandito a prescindere dal governo, Romano Prodi risponde con un monosillabo: «Sì».
Decisione «sofferta» quella del Professore: in questi anni il suo profilo di uomo padano, concreto, razionale è stato messo a dura prova da esperienze così originali da diventare proverbiali. Il Professore ha vinto per due volte le elezioni con un Berlusconi in pieno vigore politico e per due volte i governi guidati da Prodi sono stati mandati all'aria dai suoi stessi alleati. In lui hanno lasciato il segno i cinque, interminabili mesi trascorsi in solitudine a Palazzo Chigi da presidente dimissionario all’inizio del 2008; ma anche la «chiamata» di Pier Luigi Bersani che nel 2013 lo candidò (senza rete) alla Presidenza della Repubblica, senza «calcolare» il tradimento dei 101. E negli ultimi anni l’attuale presidente del Consiglio ha tenuto Prodi a distanza, in particolare nella vicenda della Libia, dove l’ex premier era stato invocato dalle fazioni locali come uomo di mediazione.
Certo, il rapporto tra Prodi e Renzi, formalmente mai intaccato, non è si è mai trasformato in amicizia. Ma neppure in ostilità. I due ogni tanto si parlano, l’ultima volta è stata due settimane fa in occasione del breve passaggio in Sardegna del presidente cinese Xi Jinping. Proprio perché il rapporto personale scorre lungo un binario a scartamento ridotto, ma scorre, nei giorni scorsi Prodi era infastidito dall’idea che qualcuno potesse interpretare il suo riserbo sul referendum come una forma di rancore verso Renzi. Dunque, non una questione personale verso Renzi, ma invece una forte riserva politica, che Prodi ha distillato nella sua nota con espressioni molto secche, rimproverando a Renzi una «leadership esclusiva, solitaria ed escludente», accusandolo di aver cancellato l’esperienza dell’Ulivo, «come se le cose cominciassero sempre da capo». E imputando al governo di aver gettato «il Paese nella rissa», con la stabilità, «inutilmente messa in gioco da un’improvvida sfida» e provocando «turbolenza qualsiasi sarà il risultato di questo referendum». Parole in cui si coglie l’eco di una forte preoccupazione per quello che potrebbe accadere all’Italia a livello internazionale e sui mercati. 
Romano Prodi e Arturo Parisi, l’«ideologo» del bipolarismo e dell’Ulivo si espongono per il Sì, spinti dalla paura che la vittoria del No possa riaprire la strada alla «palude» del proporzionale, al ritorno del Partito nella versione «decotta» dei post-comunisti. Ecco perché nella nota di Prodi c’è anche una stilettata per Massimo D’Alema: «C’è chi ha poi strumentalizzato» la storia dell’Ulivo, «rivendicando a sé il disegno che aveva contrastato».
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Bersani: “Da Romano sostegno senza entusiasmo ma io non mi turo il naso” 

La sinistra del Pd accusa il colpo a sorpresa 

Andrea Carugati  Busiarda 1 12 2016
La metafora contadina usata da Prodi per spiegare il suo Sì al referendum - «meglio succhiare l’osso del bastone» - non dispiace a Pier Luigi Bersani. E del resto, sulle metafore emiliane i due si sono sempre capiti. Stavolta però il succo politico diverge nella sostanza: «Io quell’osso non lo succhio, e neppure il bastone. E non mi turo il naso», spiega l’ex leader Pd a margine di una iniziativa per il No, al circolo Arci di Pietralata nella periferia romana. «Dalle parole di Romano mi par di capire che il suo Sì sia assai poco entusiasta…».
L’atmosfera è quella giusta per un No che si tinge di rosso. A fianco di Bersani ci sono la presidente dell’Arci Francesca Chiavacci e il segretario della Cgil del Lazio Michele Azzola. «Io mi incazzo quando mettono la mia faccia insieme a quelle di Casa Pound. E poi qui abbiamo la Cgil, l’Arci, l’Anpi, con Renzi ci sono i banchieri, Marchionne», spiega. E insiste: «Contro la legge truffa c’erano il Pci e l’Msi, e così in altri referendum. Nelle urne ci sarà tanta gente arrabbiata che con quella matita vuole segnalare un disagio, io voglio starci con tutti e due i piedi con queste persone, non li regalo a un Trump o ad una Le Pen italiani».
A tre giorni dal voto, l’obiettivo del leader della minoranza dem è rassicurare i compagni indecisi, «la nostra gente che non è convinta di questa riforma». «Ci stanno raccontando un sacco di balle, dobbiamo stare tutti tranquilli e votare in libertà e per convinzione. Se vince il No non si può andare a votare, perché ci sono da fare due leggi elettorali. E dunque Renzi può restare a palazzo Chigi. Il problema per la stabilità nasce se vince il Sì, dal giorno dopo tutte le cancellerie si chiederanno quando si vota e se vince Grillo…è col Sì che il Paese entra nel frullatore». L’analisi di Bersani sulla eventuale corsa alle urne è semplice: «Se resta il ballottaggio, si può anche smettere di domandarsi chi vince, perché la risposta è Grillo. Alle amministrative abbiamo vinto un ballottaggio su 20 e avendo litigato con tutti finisce che la gente ci manda un bel ‘ciaone’». L’ex segretario martella su palazzo Chigi: “Se vince il Sì da lunedì siamo nel regime del governo del Capo, e le modifiche all’Italicum sono affidate al suo buon cuore». 
Nonostante le battute del leader, nelle truppe bersaniane, che hanno impugnato la bandiera ulivista contro Renzi, la scelta di Prodi pesa come un macigno. Miguel Gotor, docente di Storia e consigliere di Bersani, si consola col No di Paolo Prodi, fratello dell’ex premier e storico: «E’ schierato sul No, con motivazioni non dissimili da quelle di Romano. Lo storico è più attento al processo istituzionale, l’economista al nodo della stabilità. Visto che si parla di Costituzione mi pare più giusto ispirarmi a Paolo…». Gotor ricorda i giorni della mancata elezione del Prof. al Quirinale: «Ho contato almeno 101 tweet del fronte del Sì a sostegno della scelta di Romano, e la cosa non mi ha sorpreso».
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Il Professore si prepara al dopo voto 
Marcello Sorgi  Busiarda 1 12 2016
Adesso tutti a chiedersi quanto sposterà nelle urne il «Sì» di Prodi. Attesa da settimane, preceduta dalle prese di posizione a favore delle riforme di alcuni prodiani eccellenti, come ad esempio l’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi, la dichiarazione di voto del Professore alla fine è arrivata, a soli quattro giorni dal referendum, sebbene accompagnata da una serie di esplicite riserve sul testo su cui dovranno pronunciarsi gli italiani, e da un antico detto contadino, che spiega tutto: «Meglio succhiare un osso che un bastone». Prodi dunque dice «Sì» a denti stretti e avverte il premier che si aspetta un cambiamento di marcia dopo il voto e un effettivo cambio della legge elettorale, per riequilibrare il nuovo assetto costituzionale che uscirebbe dall’approvazione popolare della riforma. E al contempo, con questa mossa sapiente, studiata nei tempi e nell’articolazione, si conquista un ruolo per il dopo-voto nella necessaria ricucitura della spaccatura del centrosinistra a cui anche Renzi ieri ha fatto accenno.
In realtà sono proprio le perplessità esplicite del due volte presidente del Consiglio dei governi del 1996 e del 2006, oltre che il suo carisma ancora oggi molto forte presso l’elettorato orfano dell’Ulivo e non del tutto convinto dal Pd, a dar peso alla decisione del Prof. Una scelta razionale, per certi versi scientifica.
Prodi non è mai stato dov’è Berlusconi e si è sempre sentito stretto dove c’è D’Alema, ecco perché non poteva votare «No» e doveva schierarsi pubblicamente, per non lasciare dubbi, in nome di una coerenza con le sue posizioni che in tutti questi anni non è mai venuta meno. Allo stesso modo non ci si poteva aspettare una sua adesione convinta alla riforma del governo, di cui non ha condiviso la genesi (vedi il «patto del Nazareno»), il percorso e gli occasionali alleati centristi o di centrodestra, che via via si sono aggiunti a una maggioranza in difficoltà e che perdeva pezzi a sinistra. Inoltre, se non proprio Prodi, nelle file prodiane sono ancora tanti a considerare non rimarginata la ferita della mancata elezione del Professore alla Presidenza della Repubblica nel 2013, e a ritenere che, se il grosso della responsabilità di aver bruciato il candidato più prestigioso del centrosinistra fu di Bersani, per il modo confuso in cui il nome di Prodi fu portato in votazione senza la certezza di avere i voti necessari, tra i famosi centouno franchi tiratori che lo affossarono, un gruppo, o un gruppetto di renziani, doveva pur esserci.
Così il Prof. s’è rivolto alla sua gente, a quelli che ancora pensano che la sua stagione sia stata la migliore del centrosinistra, e ha chiesto loro di mettere da parte i dubbi e andare a votare «Sì». Difficile dire quanti siano, ma quelli che saranno certamente si aggiungeranno a chi aveva già stabilito di schierarsi per la riforma. Non a caso Renzi, che ha ringraziato Prodi malgrado le critiche, lo ha fatto poiché ha capito di aver aggiunto un mattone decisivo alla sua costruzione. E Bersani, che ha cercato di minimizzare, è consapevole che il «Sì» del Prof. sposta, eccome.
Nella campagna renziana sono proprio le novità degli ultimi giorni che possono capovolgere i pronostici finora favorevoli al «No». E accanto a quella di Prodi, non va trascurata l’altra notizia della giornata: l’accordo con i sindacati per i dipendenti pubblici, che porterà nelle tasche di tre milioni e trecentomila elettori aumenti di stipendio attesi dal 2010 e invano chiesti e richiesti prima di adesso. Se solo si riflette che la campagna referendaria è cominciata con la nuova legge di stabilità incentrata sugli aiuti ai pensionati e sull’anticipo dell’età pensionabile innalzata dalla legge Fornero, è ormai chiara e scoperta l’architettura del blocco sociale che nei piani del premier domenica dovrebbe salvare il governo e la riforma.
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