giovedì 15 dicembre 2016

La Sinistra Imperiale che fa guerre per i "diritti umani" non muore mai e quando muore si è già riprodotta

















Glucksmann Corriere
Jebreal


“Con l’intesa nucleare niente è cambiato” Nelle strade di Teheran delusa dall’Occidente 
“Libertà e lavoro non sono arrivati”. E dopo la vittoria di Trump i falchi provano a fermare Rouhani

VANNA VANNUCCINI Rep 15 12 2016
TEHERAN. Alle sei di sera la libreria Saless è piena di giovani, ma l’entusiasmo e le speranze di un anno fa, quando entrò in vigore l’accordo nucleare e tutti si aspettavano che l’Iran tornasse ad essere un paese normale, sono ormai spenti. «Speravamo in nuove opportunità di lavoro, in scambi col resto del mondo, e in una maggiore libertà», dice Nahal, una giovane laureata che è appena stata fermata dalla polizia alla guida della sua macchina perché il foulard era scivolato dietro la testa. «E invece trovare lavoro è diventato ancora più difficile, e noi continuiamo a vivere sotto non uno ma mille dittatori» .
Se guidi senza foulard per punizione devi tenere in garage la macchina per una settimana. Nahal aveva obbiettato di dover ogni giorno insegnare all’università. È stata chiamata dai Servizi: «Collabori con noi, se non vuol pagare la multa. Ci servono informazioni, soprattutto ora che ci avviciniamo alle elezioni». Nahal ha rifiutato, ma pensa che tanti invece accettino di collaborare. Così non si fida più di nessuno. Come per questi giovani, anche per il presidente Rouhani l’accordo nucleare doveva essere l’avvio per grandi riforme interne. «Abbiamo fatto Barjam uno, ora dobbiamo fare Barjam due a casa nostra » aveva detto a febbraio (Barjam è l’acronimo con cui gli iraniani chiamano l’accordo). Ma agli occhi del Leader supremo le aperture potrebbero rendere la Repubblica islamica vulnerabile alla “infiltrazione” americana: «Dietro la spinta verso nuovi Barjam c’è un complotto americano. L’obbiettivo è sempre lo stesso: cambiare la costituzione, rovesciare il sistema islamico», ha ribattuto Khamenei.
Se il Leader aveva appoggiato il negoziato - senza il suo consenso nessun accordo avrebbe potuto essere firmato - non aveva però mai smesso di insistere sulla necessità di un’ «economia di resistenza » (tutto il contrario dell’apertura al mondo). Ora, dopo l’elezione di Trump e dopo che il Congresso americano ha ribadito la volontà di bloccare qualsiasi vantaggio economico che l’Iran potrebbe trarre dall’accordo, e dopo la vittoria di Assad ad Aleppo con l’aiuto determinante degli iraniani oltre che dei russi, per la prima volta il Leader supremo si è schierato apertamente dalla parte dei fondamentalisti. Ha attaccato direttamente Rouhani: «La corsa a firmare l’accordo sul nucleare è stata un errore », ha detto in un incontro coi capi della Marina militare. Rouhani non è più nelle sue grazie, e il Leader non perde occasione per manifestare in pubblico la sua disaffezione, ostentando ad esempio simpatia per il vice presidente Jahangiri. Sotto pressione, Rouhani tenta l’appeasement: promette alla Marina militare sottomarini nucleari, ha licenziato il ministro della Cultura Jannati, inviso ai conservatori perché generoso nel permettere concerti e mostre di pittura (le pressioni sono arrivate al punto che gli ultrà hanno appeso in parlamento le foto di una signora che secondo le accuse sarebbe legata al ministro). Ma il tentativo non ha fatto che accrescere la delusione degli iraniani, mentre i conservatori profittano del clima creato dall’elezione di Trump per dare il colpo di grazia al presidente sostenuto dai riformatori .
Il Consiglio dei Guardiani respingerà a maggio la candidatura di Rouhani per un secondo mandato, si dice. La storia si ripete nella Repubblica islamica. Quindici anni fa, quando al presidente riformatore Khatami si affiancò un parlamento deciso a cambiare le cose, i conservatori dissero basta. E con l’appoggio decisivo del Leader supremo neutralizzarono Khatami , impedendogli qualsiasi riforma fino a che gli iraniani non si convinsero che i riformatori «erano come gli altri se non peggio» e che era inutile votare per loro. Fu così che andò al potere Ahmadinejad.
Questa volta la posta in gioco è ancora più alta. Nei prossimi anni si tratterà di nominare il successore di Khamenei, che va per gli ottanta. E per i conservatori nessuna calamità sarebbe maggiore che vedere un riformatore prendere il suo posto. Rouhani avrebbe tutte le carte in regola per farlo, meglio perciò metterlo da parte prima. Le lotte nell’ombra sono cominciate e come in passato la prima mossa è puntare sulle delusioni della gente: si vieta qualche mostra, si blocca l’uscita di un film, si mettono decine di poliziotti senza uniforme per le strade a multare la donne “mal vestite”. Hanno coniato anche uno slogan, Hassan il fabbro, subito adottato dalla popolazione stanca di non aver visto nessun miglioramento da un presidente che in campagna elettorale si era presentato con in mano la chiave per risolvere i problemi del paese. “Ha messo la chiave nella serratura e lì gli si è bloccata”, dicono. «Tanti hanno la memoria corta, nessuno si ricorda dell’eredità disastrosa lasciata da Ahmadinejad», ricorda un economista. In realtà la macchina dell’economia in questi ultimi mesi ha ricominciato muoversi. Entro la fine dell’anno iraniano che si chiude il 21 marzo è prevista una crescita del 6% e un’inflazione a una cifra per la prima volta da ventisei anni. Ma i prossimi cinque mesi saranno cruciali.  ©RIPRODUZIONE RISERVATA


LO ZAR D’ORIENTE 

BERNARDO VALLI Rep 15 12 2016
L’INTESA tra lo zar russo e il raìs siriano esce vincente da Aleppo assediata e martirizzata. L’alleanza Putin- Assad ha distrutto e conquistato quella città consacrata, quando era in piedi, patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
HA demolito le mura all’ombra delle quali guerreggiò il Saladino. I cronisti al seguito dell’esercito siriano hanno descritto la gioia della popolazione liberata, mentre le esecuzioni annunciate dall’Onu sono rimaste nell’ombra. In alcuni quartieri orientali si combatte ancora, forse per qualche ora o giorno supplementare, a dispetto del cessate il fuoco. Vladimir Putin ha rianimato e porta al successo l’agonizzante e screditato regime di Bashar al Assad. È riuscito in un’impresa azzardata, che sarebbe stata impossibile se l’Occidente non gli avesse lasciato via libera. I prudenti Stati Uniti di Obama, ansiosi di sganciarsi al più presto dalle disastrose spedizioni di Bush jr, si sono impegnati il meno possibile. E comunque la coppia russo-siriana non l’avrebbe spuntata senza l’aiuto determinante degli ayatollah di Teheran, degli hezbollah libanesi e delle altre numerose milizie sciite, irachene e afghane, che hanno fornito forze di terra indispensabili al limitato esercito siriano e all’aviazione russa.
Questa è dunque l’alleanza russo-sciita che sta ultimando la conquista delle rovine di una delle più belle città mediorientali. Risulta invece sconfitto nella battaglia di Aleppo il variegato fronte sunnita anche se non impegnato ufficialmente nei combattimenti. L’Iran sciita, presente sul campo di battaglia, ha sconfitto l’Arabia saudita sunnita non presente direttamente sul campo di battaglia, ma sua grande antagonista in Medio Oriente. L’infortunio più imbarazzante, se non proprio bruciante, l’ha tuttavia subito l’Occidente nel suo insieme. Dalla fine della Guerra fredda, sul piano politico militare come su quello morale, non era mai accaduto niente di simile.
Declassata come superpotenza con l’implosione dell’Unione Sovietica, la Russia ritorna trionfante in Medio Oriente, almeno per il momento, dove un conflitto sta cambiando confini ed equilibri. E la regione conserva la sua importanza, anche se gli Stati Uniti danno l’impressione di considerarla un’incontrollabile area rissosa, con insanabili vizi balcanici, da quando hanno raggiunto l’autonomia energetica e il petrolio mediorientale ha perduto valore. E il loro interesse strategico è rivolto all’Estremo Oriente.
Vladimir Putin cavalca la vittoria con il rischio di essere disarcionato. La guerra in Siria non è infatti conclusa. Ma la conquista di Aleppo lo impone come attore principale in una situazione in cui sono in gioco innumerevoli interessi internazionali. Ha conquistato quel ruolo con il suo apparato militare e diplomatico. Gli strumenti di una vera potenza. Dopo l’Ucraina, con identica spregiudicatezza e abilità, ha sfruttato l’incertezza occidentale. Ha puntato su un regime come quello di Bashar al Assad, bolso, dato per spacciato fino a qualche mese fa, e giudicato impresentabile per l’uso di gas, di torture, di eccidi contro la sua gente. Ha trasformato un assedio interminabile in una vittoria. Il controllo della seconda città siriana non è soltanto l’occupazione di un grande centro abitato: è la conclusione di una battaglia che può cambiare il corso di un conflitto.
La battaglia di Aleppo è cominciata nel 2012 con l’insurrezione di forze animate dal desiderio di liberarsi dal regime degli Assad: prima aveva governato Hafez, il padre arrivato al potere nei primissimi Settanta, e poi gli era succeduto il figlio Bashar. Decenni ritmati da repressioni. Nel Libano occupato dalla Siria di Assad sono stati uccisi più palestinesi che a Gaza e in Cisgordania. Il potere iniziale della famiglia si è basato soprattutto sulla minoranza alawita cui appartiene. È un gruppo religioso derivato dalla corrente sciita dell’Islam. Il clima delle “primavere arabe”, non ancora spente, e i conti che la maggioranza sunnita della società siriana pensava di potere regolare infine con gli Assad per i massacri subiti, furono all’origine della rivolta. Il cui carattere moderato, privo di fanatismo religioso, fu accolto con favore dalle potenze sunnite in funzione anti sciita e da quelle occidentali sensibili alle ambizioni democratiche degli insorti. I cauti aiuti iniziali furono subito ridotti o addirittura sospesi, quando arrivarono in Siria i movimenti curdi indipendentisti e soprattutto i gruppi derivanti da Al Qaeda, e poi lo stesso Daesh ( lo Stato islamico), che ha visto nella valle del Tigri e dell’Eufrate il luogo ideale per il califfato terrorista.
Pur condannando il regime di Assad l’insurrezione fu subito sostanzialmente isolata. Il turco Erdogan non tollerò l’azione dei curdi, in particolare del Pkk considerato terrorista, e gli americani evitarono di fornire armi troppo sofisticate ai ribelli del “Libero esercito siriano” per evitare che finissero nelle mani di Daesh. Quando Bashar al Assad fu accusato di usare armi chimiche contro la popolazione civile, Barack Obama fissò una “linea rossa”. Ma non se ne tenne conto. La minaccia non si concretizzò perché l’obiettivo della coalizione animata dagli Stati Uniti era lo Stato islamico, nemico di Assad, il quale diventava obiettivamente quasi un alleato. Comunque qualcuno da non attaccare, da lasciare tra le braccia di Vladimir Putin.
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