martedì 20 dicembre 2016

La Sinistra Inutile in una dimensione europea: l'ala sinistra del PSE




Il congresso della Sinistra Europea è stato un disastro perché ha certificato l'orientamento moderato di quel raggruppamento politico e la sua linea subalterna alle politiche che discendono da Maastricht e complementare al PSE.
Con queste posizioni non si va da nessuna parte e saremo carne di porco per le destre. Né poteva andare diversamente visto che quel raggruppamento politico è nato, ormai diversi anni fa, esattamente con questa missione costitutiva, che non consente altro. L'elezione di Gysi a presidente e dell'innocuo Brioscino a vicepresidente ne sono l'emblema.
Nelle facce soddisfatte di Tachipirinas e del tedesco, il destino centrosinistro e fallimentare che ci attenderebbe da qui all'eternità se i cosiddetti "populisti" non fossero destinati a spazzare via tutto entro i prossimi 10 anni [SGA].



Il fronte anti-austerità si incontra a Berlino 
Sinistra europea a congresso. Gregor Gysi eletto nuovo leader, europeista convinto e figura di peso della Linke 

Jacopo Rosatelli Manifesto 18.12.2016, 23:59 
Mettere radicalmente in discussione i trattati, e rifondare il progetto di integrazione europea oggi in crisi. È questo l’obbiettivo fondamentale che si propone il partito della Sinistra europea (Se), che oggi conclude il suo quinto congresso a Berlino, vera capitale politica dell’Unione europea (Ue). Le assise si svolgono nel pieno di un nuovo braccio di ferro che oppone il governo greco alle istituzioni comunitarie, obbedienti come sempre al volere del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble: oggetto del contendere, l’aumento delle pensioni deciso da Atene. Una scelta che Alexis Tsipras – che per la Se fu candidato a presidente della Commissione Ue – ha orgogliosamente rivendicato dalla tribuna del congresso berlinese: «Siamo determinati a difendere i diritti del popolo greco, in particolare dei poveri, di chi percepisce salari bassi e dei disoccupati». 
La situazione, tuttavia, non è facile. I rapporti di forza continuano a essere sfavorevoli alle forze anti-austerità. E questo è il punto-chiave che torna in quasi tutti gli interventi degli esponenti dei 25 partiti nazionali che compongono la Se: come riuscire a contrastare sia l’egemonia delle forze neoliberali al governo quasi ovunque, sia i movimenti di estrema destra, da Alternative für Deutschland ad Alba Dorata. Esaurito il ciclo di ascesa delle sinistre nei Paesi periferici – Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda – il centro della scena è ora tutto per lo Stato-guida di questa Ue: la Germania. Il 2017 sarà l’anno delle elezioni politiche nella Repubblica federale, e per la prima volta dalla riunificazione l’opzione di una svolta progressista è in campo: Angela Merkel non è più invincibile, e i socialdemocratici prendono finalmente in considerazione l’alleanza con la Linke (e i Verdi). La fine del dominio di Merkel e Schäuble è la condizione – necessaria ma non certo sufficiente – dell’inversione di rotta. 
Non è un caso, quindi, che il congresso berlinese ieri abbia eletto nuovo leader Gregor Gysi, che proprio della tedesca Linke è la figura di maggior peso. Subentra al francese Pierre Laurent, segrerario generale del Pcf, per 6 anni alla guida della Se. Il carismatico Gysi è fra i più europeisti dei dirigenti della sinistra tedesca: sono note le differenze con l’altra figura-chiave del suo partito, Sahra Wagenknecht, decisamente più scettica verso la possibilità di mantenere in vita l’euro e le attuali istituzioni politiche dell’Ue. E molto meno incline di Gysi ad alleanze con i socialdemocratici. Divergenze che si ritrovano, in realtà, fra tutte le organizzazioni raccolte sotto l’ombrello della Se, e che il nuovo numero uno avrà il non facile compito di far convivere. L’esperienza e la capacità per farlo di certo non gli mancano. 
Per l’Italia ha preso parte al congresso Rifondazione comunista, che, insieme a L’altra Europa con Tsipras, è l’unica forza politica italiana membro a tutti gli effetti del partito della Sinistra europea. E proprio un’esponente del Prc, Eleonora Forenza, è la deputata che il gruppo della Sinistra ha candidato alla presidenza del parlamento europeo. Per sostituire il dimissionario Martin Schulz (che passa alla politica nazionale) il prossimo 17 gennaio ci sarà una competizione tutta italiana: gli unici con chance di essere eletti sono il berlusconiano Antonio Tajani per i conservatori del Ppe e il democratico Gianni Pittella per i socialisti europei (Pse). Vincerà chi saprà aggiudicarsi i voti degli altri gruppi: ago della bilancia potrebbero risultare i liberali di Guy Verhofstadt, ma anche le forze di destra come lo Ukip di Nigel Farage e il Front National di Marine Le Pen. Ma c’è un’altra possibilità: un accordo stile «grande coalizione» che veda il Ppe aggiudicarsi la presidenza dell’Europarlamento «cedendo» al Pse quella del Consiglio europeo (il vertice dei capi di governo), carica attualmente ricoperta dal polacco Donald Tusk.
Pd, il problema non è più Renzi. È fermarlo
L’assemblea di oggi del Partito democratico dovrebbe rispondere a una domanda: quali caratteri di sistema ha la sconfitta di Matteo Renzi? Il plebiscito, che lo ha travolto, è il frutto di un processo lungo di perdita di ogni credibilità.
Nessun leader può vincere in una contesa se la sua stessa parola, a maggior ragione dopo un abbandono così riluttante, è percepita come ingannevole.
Quando il loro leader ha perso l’ethos, ovvero il carattere, l’immagine che rende rispettabile, e degna di essere seguita, una figura pubblica, i ceti politici di supporto devono prendere gli accorgimenti inevitabili: affidarsi a un altro capo per sopravvivere. Occorre che qualcuno persuada i dirigenti del Pd oggi riuniti che è necessario che pria facciate al duce spento/successor novo, e di voi cura ei prenda. Ma il Pd, che ha scambiato la personalizzazione della politica con il partito della persona, ha smembrato questo argine. E quindi, mentre il sistema bipolare proprio con il referendum ha replicato il grande crollo del 2013, si coltiva l’illusione di una sua restaurazione imminente, ad opera dello stesso leader annichilito, che crede di avere in dote un potere personale.
Dopo il tracollo di dicembre, che è il compimento di un ciclo e non una eruzione improvvisa di cieca protesta, Renzi non ha più alcuna seria possibilità di trionfo. Questo non significa che ormai irrilevante risulti la sua ombra nella prossima battaglia. «Nessun problema politico – spiegava Bismarck – giunge ad una completa soluzione di tipo matematico. I nodi appaiono, hanno i loro tempi, e poi scompaiono soltanto sotto altri problemi». Finché non si completa il seppellimento del capo, la cui fascinazione è dileguata, altri problemi non compaiono a strutturare i nuovi conflitti.
Non porterà alcun effetto ricostituente per la democrazia la cura rivoltante di un governo sotto tutela dei consoli gigliati spediti a presidiare palazzo Chigi. Accresce ancor più la rabbia un esecutivo che occupa il tempo solo per scaldare la poltrona vacante e riconsegnarla al capo voglioso di riavere lo scettro che ha solo accantonato per qualche mese.
Un leader del tutto annebbiato impone alle sue truppe una mappa irrealistica di risalita perché è saltato il sistema bipolare. Renzi pensa ancora ad un traino leaderistico esercitato dal capo con un preteso dono carismatico: spento rito delle primarie, incoronazione nella marcia dei gazebo e poi assalto disperato al palazzo. Il punto di debolezza della sua strategia è evidente: confida in un nuovo congegno maggioritario per blindare un bipolarismo solo immaginario.
L’attivismo di Renzi per tornare al potere appartiene al campo del tragico. Senza più alcuna credibile capacità offensiva, la sua presenza al timone è la garanzia più certa del naufragio inevitabile. Anche per questa sua vulnerabilità estrema il M5S lo ha irriso chiedendogli di rimanere a palazzo Chigi sino al voto. Non spaventa più come leader in ascesa, e perciò da temere, e anzi il suo spettro, che emana il volto sfigurato di una potenza in decadenza, incrementa le chances di successo dei nemici. È il peggio che possa capitare per un leader.
La conseguenza della sua nuova scalata alla guida del Pd sarebbe l’esplosione inevitabile del suo partito, entro il quale proprio il suo comando assoluto costituisce il principale elemento divisivo e l’ostacolo insuperabile ad ogni ipotesi di alleanza. Che i notabili del suo giro non ne tengano conto, e fingano di essere ancora sedotti dalla promessa di un simulacro di ordine bipolare, è anch’essa una manifestazione di propensione al tragico.
L’abbandono renziano, con la nostalgia dell’immediato ritorno, coltiva il vizio assurdo di esorcizzare un sistema tripolare con l’energia, con la stabilizzazione di una conquista del centro mediante un regime personale da consolidare attraverso la ripresa economica. Orfano del bipolarismo violato dal popolo, Renzi può mantenerne in vita una caricatura, con il progetto evaporato del partito della nazione, che assorbe i residui del berlusconismo e si erge a paladino del sistema della legittimazione che combatte e isola le forze antisistema (la Lega e il M5S).
Rientrano nel grottesco le gesta di un leader che dal buen retiro di Rignano minaccia di tornare presto al palazzo brandendo un’ipotesi già sconfitta: il bileaderismo. Renzi? È un problema in astratto risolto che però resiste complicando così le trame di un sistema che non può dedicarsi alle nuove questioni perché deviato dalle velleità di ritorno in sella di un leader del passato. Eppure l’accantonamento di Renzi è la condizione, non sufficiente e però indispensabile, per rispondere ai segnali sempre più preoccupanti di involuzione del sistema.


Il contropiede di Renzi No al congresso anticipato ritorno al Mattarellum 

Il segretario: “Abbiamo straperso tra i giovani, sul web e al Sud” E Grillo lo attacca: “Bugiardo, avevi promesso di lasciare” 

Francesca Schianchi  Busiarda
Un tentativo di autocritica, niente congresso anticipato e proposta di tornare al sistema elettorale chiamato Mattarellum. Chi si aspettava plateali rese dei conti all’Assemblea nazionale del Pd di ieri sarà rimasto deluso dalla nuova «fase zen» esibita da Matteo Renzi. A due settimane dal referendum «non perso, straperso» che gli è costato la poltrona da premier, ieri la sua relazione, nella grande sala sotterranea dell’albergo romano colonizzato dai delegati dem, mette tutti d’accordo: 481 voti a favore, 10 astenuti e due contrari. La minoranza non vota: altrimenti, pur critica con l’analisi della sconfitta, avrebbero dovuto dire sì al Mattarellum.
«Eravamo a un passo dalla Terza repubblica: sembra di essere tornati alla Prima», e proprio con il brano «La Prima repubblica» di Checco Zalone si è aperto l’appuntamento. «Non è facile lasciare», ha avuto voglia di mollare tutto, giura il segretario, mentre elenca le ragioni della sconfitta: il web «lasciato nelle mani di chi è sotto gli occhi del mondo come diffusore di notizie false», lo scollamento con il Sud, con le periferie, con i 30-40enni (e per chi ne ha 41 «è come perdere in casa»). 
Alla sua destra nel tavolo della presidenza il premier Paolo Gentiloni: un abbraccio dopo l’inno, una breve citazione. Lancia qualche frecciata alla minoranza, si dice «ferito» da chi ha festeggiato le sue dimissioni, risponde a D’Alema che ha parlato della «puzza» delle sue riforme: «Non puzzano, segnano la grandezza del Pd». Ma non è questo il momento delle polemiche sanguinose, e allora manco cita il contestato Jobs Act. Il clima è disteso, gli attacchi moderati: ci pensa solo il renziano Roberto Giachetti a svegliare la platea, attaccando la minoranza a suon di «avete la faccia come il c…». Le bordate di Renzi sono più per il M5S: «Smettete di dire bugie su di noi, e noi smettiamo di dire la verità su di voi, cioè che siete un’azienda privata che firma contratti con gli amministratori». Sulla corruzione, infilza sul caso Marra: più dire no alle Olimpiadi «bisognerebbe scegliere meglio i collaboratori».
Promette un nuovo corso nel Pd: campagna di ascolto, «più noi e meno io», niente tour in camper per il Paese perché «voglio essere allenatore più che giocatore, fare da talent scout», segreteria da rinnovare e scadenze varie (21 gennaio mobilitazione dei circoli, 4 febbraio evento sull’Europa). Senza riuscire a convincere molti del suo cambiamento, ma tant’è: «Ho accettato il consiglio di non fare del congresso il terreno di scontro sulla pelle del Paese», e quindi la conta interna è rinviata di un anno. E le elezioni quando saranno? «Stiamo andando al voto, non sappiamo quando ma come», evita di dare una data di scadenza al governo, anche se sul discorso scritto che ha sotto mano si era appuntato «per noi prima possibile», e la stessa frase la pronuncia il ministro Graziano Delrio.
La proposta del Pd è arrivarci col Mattarellum: «Andiamo a vedere, gli altri ci dicano cos’hanno in testa». Lega e Fratelli d’Italia hanno detto sì; Fi con Gasparri no; il M5S con un post di Grillo lo attacca, «tu che hai un partito che è una banca», e lo invita a farsi da parte: «Lo avevi promesso, sei bugiardo.». Il segretario zen ha lanciato la proposta. «Non sottovalutino i signori del no che quel 41% è politico». Quella per lui è la percentuale da cui ripartire. Tutti insieme: resa dei conti rinviata.
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Matteo archivia il renzismo Viaggi studio all’estero e ricerca del basso profilo 

L’ex premier: “Non mi vedrete in tour né sul camper” Poi l’autocritica: “C’è più bisogno di noi che di io” 

Fabio Martini  Busiarda
Nella stessa sala dell’hotel Ergife dove Bettino Craxi nel 1993 fece la sua ultima apparizione da leader del Psi, prende la parola Matteo Renzi e pronuncia l’atteso mea culpa con un garbo in lui inusuale. Davanti a centinaia di quadri del Pd l’ex rottamatore sciorina espressioni politicamente corrette, quasi candide: «La prima regola del nuovo corso è ascoltare di più, io per primo», «un uomo si vede da come porta le proprie ferite», fino a pronunciare la frase che vorrebbe segnare la maggiore discontinuità: «C’è più bisogno di noi che di io». In un discorso durato 58 minuti, il premier sconfitto ha pronunciato un’ articolata autocritica dopo la batosta referendaria del 4 dicembre - autocritica spesso più emozionale che fattuale - anche se l’attesa maggiore da parte dei quadri del Pd e dell’opinione pubblica coinvolta era contenuta nella domanda più ricorrente nei corridoi dell’Ergife: da una autentica autocritica prenderà corpo un “nuovo” Renzi, oppure si va verso un restyling tattico? 
L’ex presidente del Consiglio sta privatamente coltivando nuovi progetti e un diverso stile di vita, ma intanto ha iniziato a tratteggiare un primo autoritratto del Matteo pubblico che verrà. Un Renzi che, nelle sue stesse intenzioni, dovrebbe archiviare una certa immagine del “renzismo” esteriore e tener vivo il nucleo duro del “renzismo” politico. Certo, sul piano politico, almeno per il momento, il premier uscente ha dovuto assecondare - e subire - una certa “normalizzazione”. Voleva un Renzi-bis per andare nel giro di qualche settimana alle elezioni anticipate e ci ha dovuto rinunciare. Accarezzava l’idea di Primarie ri-legittimanti da farsi a fine febbraio e ci ha dovuto rinunciare. La “normalizzazione” di Renzi si è potuta leggere negli interventi dei due ministri che nei giorni scorsi più si sono battuti dietro le quinte per assorbire le istanze renziane e che hanno lanciato ponti d’oro verso il leader ridimensionato. Hanno detto all’unisono Dario Franceschini e Andrea Orlando: «Matteo, la tua sconfitta è la sconfitta di tutti». Risultato: nessuno, a parte Gianni Cuperlo, ha approfondito più di tanto le ragioni e le conseguenze politico-sociali della vittoria del No, meno che mai la minoranza, protagonista di uno spettacolare forfait: non hanno parlato Bersani e D’Alema ma neppure Roberto Speranza, che pure si è candidato in nome di un ritrovato ruolo del partito.
Renzi a questo punto si è “rassegnato” a votare a giugno e anche se nessuno può garantirgli questo timing, d’ora in poi il segretario del Pd riorganizzerà tutto se stesso su questo traguardo. Primo obiettivo confidato: abbassare il profilo, sgonfiare la “bolla comunicativa” che lo ha circondato, riducendo le presenze televisive. E anche quelle in giro per il Paese: «Non mi vedrete a fare tour per l’Italia o giri in camper». Un distacco esibito che Renzi intende concretizzare con due-tre viaggi all’estero, viaggi di approfondimento, di “aggiornamento professionale” al massimo livello e non finalizzati ad incontri politici. Su un piano parallelo Renzi sta lavorando ad un libro, a cavallo tra consuntivo e progetto per la “nuova” Italia che dovrebbe andare in libreria a febbraio. Progetti che dovrebbero avere protagonista un Renzi che, dice lui, sarà più attento all’«umanità» e per farlo credere, ha raccontato di aver preparato gli scatoloni «di notte, per non farmi vedere». Nel frattempo Paolo Gentiloni, che Renzi ha voluto a palazzo Chigi, è uscito dall’Ergife convinto di una cosa: la ribadita leadership di Renzi e il rinvio del congresso Pd consentono al governo di navigare nelle prossime settimane senza scosse “innaturali”.
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Matteo inaugura la fase Zen ma la road map non cambia “Urne a giugno, forse prima” 
L’ex premier cambia stile e toni e apre la segreteria ad altre correnti: tra le ipotesi Fassino, Martina e Cuperlo

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
IL SEGRETARIO del Pd rivoluziona lo stile, il tono. Inaugura la fase zen, parla di «ponti», di «aperture», di «inclusione», di «ascolto». Ma dopo Renzi c’è sempre Renzi e la strategia non è cambiata: bisogna andare al voto a giugno. Anche prima, ad aprile- maggio. Dopo le dimissioni, Renzi torna a parlare e lo fa con qualche segno di novità: lo scansare argomenti scivolosi e di divisione come il Jobs Act (nemmeno una parola).
EPOI la veloce autocritica, soprattutto sul Sud (con relativa presa di distanza da Vincenzo De Luca, «non dobbiamo più parlare con il notabilato ») e sui giovani, la ferita che fa più male a un 41enne, appartengono a una nuova stagione. Ma in fondo, il discorso di ieri all’assemblea nazionale convocata nell’albergo dei congressi radicali, l’Ergife, è solo il primo passo di una campagna elettorale che Matteo Renzi dovrà giocarsi con parole diverse, cambiando la comunicazione, resettando il tono. Non se stesso. Ad esempio, il nuovo Renzi non dà al Pd e al governo Gentiloni un tempo lungo, maggiore profondità di riflessione. Sulle elezioni anticipate, il segretario non ha cambiato opinione: l’orizzonte è giugno 2017. Ma l’obiettivo vero è qualche mese prima.
Renzi pensa che nel momento in cui ci sarà una legge elettorale, ovvero dopo il 24 gennaio, il giorno della sentenza della Consulta sull’Italicum, scatterà un tana libera tutti. Cadrà ogni alibi per non andare al voto. Persino giugno sembrerà una data troppo distante «perchè noi siamo pronti - dice il leader dem ai suoi collaboratori - e non possiamo essere gli unici che dicono aspettiamo ». Del resto, ricordano i renziani, l’atto costitutivo del governo Gentiloni è scolpito nei saloni del Quirinale: legge elettorale e poi elezioni. Quindi, il tentativo sul ritorno al Mattarellum è obbligato ma senza attendersi risposte concrete dagli altri partiti. «Una proposta tattica? Anche», dice un renziano. E se il 24 gennaio la legge elettorale sarà immediatamente applicabile, il primo ostacolo alle urne scomparirà d’incanto. Anche con il proporzionale, il voto sarà il male minore. Su questo punto per il momento l’accordo Renzi-Gentiloni regge. Per il momento.
Per tenere insieme il partito e affrontare il braccio di ferro che nascerà dentro il Pd sullo scioglimento delle Camere, Renzi deve però cambiare il messaggio. È forzato a includere, finalmente, partendo dalle correnti dem che gli sono rimaste fedeli. Domani avrà un incontro con Lorenzo Guerini, il vicesegretario che parla con tutti, anche nei momenti di burrasca. Alla vigilia della riunione convocata per mercoledì. Insieme, proveranno a ridisegnare la segreteria del Pd, sostituendo probabilmente alcuni renziani, facendo entrare qualcuno della corrente di Maurizio Martina, dando posti ai Giovani Turchi. Provando a coinvolgere Piero Fassino, un nome di peso. E offrendo anche a Gianni Cuperlo, già rappresentato da De Maria, un ulteriore apertura.
I vicesegretari rimarranno al loro posto a meno che non sia Debora Serracchiani a chiedere il cambio per concentrarsi di più sulla presidenza del Friuli Venezia Giulia. Votare prima di giugno significa saltare il congresso e c’è bisogno di sponde per arrivare al risultato. «Il congresso va celebrato prima del voto - attacca Francesco Boccia, in linea con Michele Emiliano ed Enrico Rossi -. Se proveranno a scansarlo raccoglieremo le firme degli iscritti».
Se è questa la road map, la fase dell’ascolto non avrà tempi lunghissimi. Ma il Renzi zen sa che non funziona più l’Io e valorizzerà il Noi, come ha detto ieri al microfono. Come? Non con le adunate nei teatri. «Voglio arrivare all’improvviso, fare l’allenatore e il talent scout dei giovani». Sta preparando anche due viaggi «di studio » all’estero per cancellare l’immagine del premier tra i leader europei nei vertici, quei vertici che non portano a nulla. «Cibo per la mente», è la definizione usate dall’ex presidente del Consiglio per immaginare le due trasferte. Da verificare se saranno partecipazioni a think tank politici, visite private e incontri a due.
Il richiamo al Mattarellum è anche un richiamo all’Ulivo, al tenere insieme il centrosinistra, a trovare alleati che il Pd a vocazione maggioritaria aveva via via escluso. È una via politica, ma anche la strada per un linguaggio diverso. Renzi ha sparato quasi tutte le sue cartucce nella campagna referendaria e ha fallito. «Ora ripartiamo per una campagna elettorale dicendo che cosa? È un bel problema», dice un deputato dem.
La domanda si fa strada anche nel circolo ristretto del renzismo. Parlare di «ponte» con le persone, come ha fatto ieri il segretario, è già qualcosa. Non rinuncerà a rivendicare i successi dei mille giorni.
Ma anche Renzi sa che è una «traversata del deserto» come fu quella di Silvio Berlusconi sconfitto nel 1996. Una traversata che nell’epoca della velocità, il leader del Pd vorrebbe fare come fosse uno sprint.
E non disperdendo il patrimonio dei voti del Sì: il 40 per cento, 13 milioni e mezzo. Che secondo lui sono «il 31-32 per cento di voti alo Pd di Renzi». Oggi, però. Perché potrebbero non durare a lungo.
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Il rilancio del Pd sulla legge elettorale “Staniamo M5S e FI” 
Renzi punta su Ulivo e Mattarellum. Ma c’è già il no di Grillo e Berlusconi

TOMMASO CIRIACO CONCERTO DI NATALE Rep
Compattare il Pd sul Mattarellum. Allargare l’alleanza alla sinistra di Giuliano Pisapia. E portare gli avversari a “scoprirsi” sul sistema elettorale, mostrando plasticamente che nessuno - ad eccezione dei democratici - intende davvero cambiare la legge. E poi? «E poi – confida Matteo Renzi ai capicorrente che lo avvicinano durante l’assemblea del partito - diremo che va bene anche la legge della Consulta, l’importante è che si torni a votare». Non basta insomma la disponibilità della Lega e di Fratelli d’Italia, né il sostanziale via libera della minoranza di Roberto Speranza. La trattativa resta più in salita che mai. E il punto di caduta sembra già un altro: l’Italicum, nella nuova versione che stabilirà la Corte costituzionale.
Il leader sa di aver sparigliato, rilanciando il Mattarellum e mandando in confusione i suoi nemici. «Ho smosso le acque». Per questo, intende percorrere fino all’ultimo la strada indicata davanti all’assemblea dem. Come? Scrivendo presto ai leader degli altri partiti per ribadire l’offerta di tornare alla legge del 1993, oppure incardinando direttamente in Parlamento la proposta. Il problema è che Forza Italia e Movimento cinque stelle si opporranno alle
avances
renziane. È una partita a scacchi, d’altra parte, per questo il segretario dem si è attribuito la prima mossa. «Facciamo sul serio – giura il senatore renzianissimo Andrea Marcucci - ma nessuna melina». Ecco il punto, allora: per condurre la trattativa senza perdere tempo in un infinito tira e molla, l’ex premier intende far uscire allo scoperto le altre forze politiche. A partire dai grillini.
Beppe Grillo ha già scavato il solco, rivolgendosi a Renzi: «Noi vogliamo andare al voto subito con una legge elettorale che abbia il vaglio della Consulta. Tu vuoi allungare il brodo? Risparmiarcelo ». Un no che, a dire il vero, fa a pugni con il passato dei cinquestelle, che alla Camera votarono nel 2014 una mozione di Giachetti che invocava proprio il Mattarellum. Ma il rischio, adesso, è che il ritorno ai collegi danneggi il Movimento. «Sfavorisce i candidati poco conosciuti sul territorio - hanno spiegato in privato Davide Casaleggio e Luigi Di Maio - per noi sarebbe un suicidio ».
Il vero ago della bilancia, però, si chiama Silvio Berlusconi. Da Arcore, non lascia spiragli alla proposta dell’ex premier, almeno nella versione originale: «Noi aspettiamo la sentenza della Consulta. Vogliamo il ritorno al proporzionale, magari corretto con un piccolo premio di maggioranza ». Sembra la fotografia di come potrebbe diventare l’Italicum dopo il pronunciamento dei giudici costituzionali, certo qualcosa di diverso dal Mattarellum. A meno che non si decida di correggerlo, aumentando in modo esponenziale la quota proporzionale. Ma perché rischiare? Alcune proiezioni hanno già orientato il Cavaliere. Con la legge del 1993, è la sintesi, Forza Italia rischia di scomparire in tutto il Centrosud. «Presidente, saremmo cancellati », gli hanno spiegato i consiglieri più fidati. Una previsione forse eccessiva, che però il via libera di Salvini al Mattarellum contribuisce per paradosso a rafforzare.
Nelle prossime ore, Renzi aumenterà l’intensità del suo pressing. Già oggi incasserà il via libera di Pisapia, atteso con Gianni Cuperlo e Virginio Merola a un evento dal titolo inequivoco: “Unire il centrosinistra”. Proprio a loro guarda, per rilanciare l’alleanza di centrosinistra. E non a caso richiama la stagione prodiana: «Il Mattarellum ha visto vincere centrosinistra e centrodestra. E ha visto affermarsi l’Ulivo di Prodi». Arriveranno anche altri no. Quelli dei suoi avversari. E quelli - più silenziosi - di pezzi di Pd: i siciliani, i veneti, i laziali, quelli insomma di chi combatte in zone a forte densità leghista o cinquestelle. A quel punto il segretario potrà passare al piano B. «L’importante – ripete – è tornare al voto il prima possibile».
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UN’AUTOCRITICA CHE NON CONVINCE 

STEFANO FOLLI Rep
UN’ASSEMBLEA durata poche ore, forse troppo poche; un voto a favore del segretario in apparenza “bulgaro”, in realtà reso tale dai tanti assenti; la sensazione di un partito ferito e incerto.
SEGUE A PAGINA 29
UN LEADER, Renzi, che ha in mano una sola carta da giocare, se ci riesce: le elezioni entro cinque-sei mesi al massimo, con una legge ancora tutta da definire e da approvare in Parlamento.
Si potrebbe continuare, nella cronaca di una giornata non proprio trionfale per l’ex presidente del Consiglio. Bisogna infatti distinguere fra gli applausi al capo carismatico e lo spessore del dibattito; fra il desiderio di voltare pagina nel dopo referendum e la difficoltà di analizzare quello che è realmente successo il 4 dicembre; fra la necessità per Renzi di coinvolgere Franceschini e altri nella gestione del partito («d’ora in poi convocherò la segreteria») e la fatica di deporre la stella dello sceriffo solitario. È dentro questa cornice che la platea ha ascoltato una specie di autocritica che tale era solo in minima parte. Certo, il tono del segretario-ex premier era diverso e più conciliante rispetto al passato. Tuttavia ciò era inevitabile date le circostanze e considerato l’accordo interno da cui è nato il governo Gentiloni. Quel governo in cui, sul piano del potere, Renzi è riuscito a ottenere quasi tutto quello che voleva, tranne la delega per i servizi di sicurezza. Almeno finora.
Se dunque si fa eccezione per lo stile del discorso, meno veemente del consueto, e per l’apertura a favore del Mattarellum — una mossa attesa e come previsto gradita alla minoranza — , non si può dire che ieri sia nato un altro Renzi. È il medesimo personaggio ben conosciuto, con i suoi pregi e i suoi difetti, con la sua energia vitale e le sue astuzie. Semmai gli si può riconoscere un maggiore autocontrollo e un cambio di passo tattico di cui non tutti lo credevano capace. Ma la sua autocritica, a voler essere sintetici, si può riassumere così: ho sbagliato e ho perso, anzi “straperso”, perché non mi sono fatto capire dagli italiani. Ovvero: perché la comunicazione del governo era carente rispetto all’aggressiva campagna degli altri, il fronte eterogeneo del “No”. Per essere più precisi: abbiamo perso perché non abbiamo saputo usare il “web” e ci siamo arresi alle “bufale” diffuse via internet dagli avversari.
Non è tutta qui l’analisi renziana, ma nella sostanza non c’è molto di più. Si comprende allora che c’è molto da riflettere sulla sconfitta del 4 dicembre, sul perché il Sud e i giovani hanno detto no. Altro che “web”. Del resto, il segretario è oscillante. Dice di aver perso, ma poi precisa: «Pensavo di prendere 13 milioni di voti, invece ne ho presi 13 milioni e mezzo»: purtroppo l’affluenza è stata talmente alta che l’onda anomala del “No” ha travolto gli argini. Qui lo sforzo autocritico del leader sembra davvero arenarsi. Perché si limita a chiosare: «non ho compreso la politicizzazione del voto». Come se la responsabilità fosse tutta dell’accozzaglia del “No” — secondo la celebre definizione — e non del tentativo di Palazzo Chigi di trasformare fin dall’inizio il referendum in un plebiscito: o con me o contro di me.
Ne deriva che l’autocritica di Renzi sarebbe stata molto più convincente se si fosse addentrata nella vera contraddizione di quei sette mesi di campagna elettorale: credere che l’Italia descritta sulla via della ripresa a tutti i livelli, socialmente coesa e ottimista sotto la guida del leader, fosse quella vera. Solo in quel caso avrebbe avuto un senso, sia pure assai discutibile, la logica del plebiscito. Ossia una mera verifica della straordinaria popolarità del capo. Viceversa l’epica renziana andava in una direzione mentre il paese arrancava in un’altra. Forse nemmeno il generale De Gaulle, uno che pure amava i plebisciti, si sarebbe azzardato a organizzarne uno in anni di “crescita zero”. Il popolo, quando viene chiamato in causa, merita di essere ascoltato e non solo utilizzato. Altrimenti si finisce per dar ragione all’ironia di Brecht, quando ammoniva i dirigenti della Germania Est che «se il comunismo non va bene per il popolo, bisogna cambiare il popolo».
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