venerdì 16 dicembre 2016

L'origine divina del male secondo la Qabbalah: Moshe Idel


Moshe Idel: Il male primordiale nella Qabbalah, Adelphi

Risvolto
I primi versetti della Genesi costituiscono da sempre un'arena di scontro per esegeti, filosofi e mistici. Tutto ruota intorno all'oggetto d'indagine della teodicea, quella branca della teologia che studia l'origine del male: si tratta di una realtà presente nella creazione e addirittura in Dio? Preesiste al bene, così come le tenebre preesistono alla luce? È una scorza dura che protegge un frutto succoso dagli attacchi di chi lo vuole distruggere?
In antichi testi ebraici si legge che Satana fu il primogenito di Dio, o che il primogenito di Adamo, Agrimas, potenza primordiale malvagia, prese in moglie una lilit, una demonessa, la quale gli generò novecentomila figli che avrebbero invaso il mondo e imposto la loro supremazia se non fosse intervenuto Matusalemme a sterminarli con una spada magica. La storia della generazione del male da un principio positivo appare già nel IX secolo in un passo del vescovo Agobardo di Lione, dove si attribuisce agli ebrei la credenza in un Dio il quale, seduto sul suo trono sorretto da quattro bestie in una sorta di grande palazzo, «fa pensieri superflui e vani che, data la loro inanità, si trasformano in demoni» – una formulazione destinata a riverberarsi in molte forme della tradizione cabbalistica medioevale.

Basandosi sull'analisi di testi perlopiù ignoti, ignorati o fraintesi dalla ricerca contemporanea, Moshe Idel indaga in pagine dense e coinvolgenti i processi che portarono all'adozione nel giudaismo di tradizioni dualistiche iraniche o gnostiche e all'elaborazione di gerarchie ontologiche in cui i due princìpi opposti di bene e male sono comunque intesi come entità subordinate al loro creatore. E solo di rado il male appare in forme diaboliche, perché in fondo esso deve la sua vitalità alle scintille di Dio che vi si trovano incluse, senza le quali sarebbe incapace di agire o addirittura di esistere. 

Ne «Il male primordiale nella Qabbalah» (Adelphi) di Moshe Idel il Creatore conosce 
la mancanza: spetta all’uomo con le sue virtù ricomporne l’immagine e la gloria

di PIETRO CITATI Corriere 16 12 2016I



La banalità del male nella Qabbalah 
Un saggio dello studioso di mistica ebraica Moshe Idel indaga sulle origini del bene e del suo opposto

SUSANNA NIRENSTEIN 28 12 2016
Cercate un pensiero teologico che non voglia definire il male, capire da dove venga e perché esista. Non lo troverete. L’israeliano Moshe Idel, il più grande studioso di mistica ebraica vivente, vede formulata la ricerca, e la risposta, fin dai primi versi della Torah. Il percorso di “Il male primordiale nella Qabbalah. Totalità, perfezionamento, perfettibilità” (Adelphi, per l’amorevole cura di Elisabetta Zevi) è complesso, multiplo, con centinaia di influenze di altre culture (zoroastriana, neoplatonica, ovviamente rabbinica), in un crescendo
che a volte sembra portarci sul limite di una spirale ascendente, oppure no, discendente, verso gli abissi. Per non perderci negli inferi, ci affidiamo a una guida sicura, Fabrizio Lelli, allievo, traduttore di Idel e docente di Ebraistica all’Università di Lecce.
L’illustrazione di copertina tratta dal manoscritto dell’Hagaddah di Sarajevo (XIV sec.) ci racconta già qualcosa, la separazione della luce dalle tenebre, della terra e delle acque dal magma: in una parola la creazione. Era questo che i cabalisti (nati tra XII e XIII secolo in Provenza e Catalogna) e prima ancora i maestri rabbinici sottolineavano — mostra Idel nel libro — la compresenza di male e bene, e infine l’azione divina che estrae la luce, come se le tenebre, assumendo un ruolo positivo, la contenessero, la salvaguardassero. Prima dunque le tenebre, e dalla rottura della loro scorza, accettando la presenza della negatività necessaria, il frutto succoso della luce che altrimenti si sarebbe dispersa. Quelle tenebre sono il male primordiale, il primo male. Il male prima del bene, così come poi ci sarà Caino prima di Abele e Ismaele prima di Isacco. Una concezione diversa da quella cristiana che vede il male come scaturito successivamente, perché se ammettesse che è compresente, vorrebbe dire che Dio è anche male, mentre la cristianità lo concepisce come bene assoluto.
Già negli ultimi testi biblici (fino al II sec a.C.) è invece presente una visione ebraica opposta, basta leggere, ci dice Lelli, Qohelet (IV-II sec. a.C), citato da Idel, che oltre a giustapporre il tempo del bene e quello del male, a un certo punto scrive: «Nel giorno lieto (del bene) stà allegro, ma nel giorno triste (del male) rifletti: Dio ha fatto l’uno e ha fatto l’altro ». C’è male anche in Dio, dunque. E se questa visione è già presente nella letteratura rabbinica, nella tradizione cabbalista diviene un leit motiv.
Ma che stacco c’è tra le due elaborazioni, la rabbinica e la cabbalistica? «Se per Qabbalah s’intende una disciplina esoterica autonoma », risponde Lelli, «di un gruppo ristretto che specula su aspetti segreti e sapienziali, allora nasce verso il XII secolo, ma se significa ricezione e speculazione sui testi, allora anche la letteratura rabbinica è Qabbalah ». Insomma, tra i due generi ci sarebbero molte analogie: anche nelle cerchie rabbiniche c’erano gruppi esoterici. Prendiamo il Sefer Yetzirah (V sec. d.C.) di ambiente rabbinico babilonese: oltre a parlare di dottrina degli abissi, del bene e del male emanati da Dio, il trattato concepisce la creazione come una combinazione delle lettere dell’alfabeto ebraico. Dunque Dio è imperfetto, ci dice Idel, ma per i cabalisti è perfettibile. Un’operazione che ha bisogno degli uomini. «Se l’uomo non pregasse, per i mistici ebrei, Dio si sentirebbe meno attivo, non avrebbe il feed-back necessario: è per questo che un vero credente deve adempiere alle mitzvot, osservare il Sabato, rivolgersi a lui 24 ore su 24, perché se tutto ciò che sono e mi circonda lo devo a Lui, devo mantenere un contatto. Per un cabalista del XIII secolo esiste un serbatoio di benedizioni che gli uomini devono alimentare in modo che il flusso continui a irrigare noi, il giardino di Dio». Un concetto, quello della reciprocità del bisogno di preghiera, sempre più vivo dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C., quando non ci fu più né un luogo santo né i sacrifici: una specularità infinita che vede anche Dio pregare quando l’ebreo lo fa. Lo stesso principio speculare ci dice che anche il male si deve riflettere in Dio.
Ma se il male viene prima del bene, qual è il processo necessario per perfezionare il perfettibile, chiediamo a Lelli? «Separare, discernere, raffinare: è qui che arriva ad esempio il mito dei mondi distrutti, quelli che Dio avrebbe creato prima del nostro. Ma non gli piacquero perché, dissero i cabalisti, erano troppo perfetti appunto, troppo spirituali, troppo divini per sussistere, mentre la terra, con la sua componente di male e materialità, era in grado di farlo». Forse questa complementarietà del male e del bene, pensiamo, fu un modo anche di elaborare tutte le persecuzioni e gli esili subiti. Il male, dicevano i cabalisti, non è così importante, ci si può convivere. «In fondo», chiosa Lelli, «anche la “banalità del male” della Arendt, rientra in questa tradizione giudaica».
Torniamo alle tenebre da cui Dio crea la luce. È interessante notare come nella Bibbia «il fu sera e fu mattina» corrisponda alla scansione temporale data dai sacerdoti alla liturgia, alla preghiera della sera da cui infatti inizia il giorno ebraico. Anche secondo alcuni mistici cristiani, come San Giovanni della Croce, bisogna passare dalla notte per arrivare alla luce, e del resto è un pensiero terribilmente psicoanalitico, notiamo insieme a Lelli.
La Qabbalah è piena di demoni, diavoli, diavolesse. Cos’è, politeismo? Ci sono tante entità, risponde Lelli, fin dall’epoca rabbinica. C’è il mito del figlio di Adamo, Agrimas, che, prima della creazione di Eva, si unisce alla demonessa Lilit, e genera 100.000 figli diabolici sterminati solo dalla spada magica di Matusalemme. Ci sono gli angeli caduti. Altri angeli così luminosi da essere scambiati per il Signore. È una sfida, su tutto e tutti va sempre riconosciuta l’unicità e la trascendenza di Dio. Ma Idel li riporta perché gli interessa mostrare come la Qabbalah, a differenza di quel che diceva Scholem, non sia un movimento unitario, ma carico di scuole, risposte, miti diversi.
Anche l’eros percorre il libro di Idel e la Qabbalah. Per i cabalisti molto della Bibbia si spiega con le pulsioni sessuali archetipiche nell’individuo che devono rispondere al “crescete e moltiplicatevi” di Dio e non disperdere il seme. Ma non astenersi. La castità non è mai predicata nell’ebraismo. Non è mai santa. Ed è fantastico e vitale, come i cabalisti trasferiscano anche al mondo divino un eros necessario a creare, perché in Lui non esiste solo una polarità bene/male, ma anche maschio/femmina, la cui finalità ultima, come nell’uomo, è la riproduzione, la creazione. Tutto è eros per i cabalisti, anche il giorno sacro del Sabato, nient’altro che il rito di congiunzione tra Dio e il popolo di Israele. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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