giovedì 22 dicembre 2016

Non ci mancava la lettura psicopatologica dell'islamismo politico radicale


Come già detto, quando non hanno idea ricorrono alla psicoanalisi [SGA].

Fethi Benslama: Le surmusulman. Un furieux désir de sacrifice, Seuil

Risvolto

Comment penser le désir sacrificiel qui s’est emparé de tant de jeunes au nom de l’islam ? Cet essai propose une interprétation dont le centre de gravité est ce que j’appelle le surmusulman. Qu’il revête l’aspect d’une tendance ou qu’il s’incarne, il s’agit d’une figure produite par près d’un siècle d’islamisme. Je l’ai décelée dans ses discours et dans ses prescriptions, mais aussi à partir de mon expérience clinique.
La psychanalyse ne consiste pas uniquement à « thérapeutiser » des gens à l’abri d’un cabinet. Son enseignement clinique permet d’explorer les forces individuelles et collectives de l’anticivilisation au cœur de l’homme civilisé et de sa morale.
C’est pourquoi, ce qu’on appelle aujourd’hui « radicalisation » requiert des approches complémentaires, en tant qu’expression d’un fait religieux devenu menaçant et en même temps comme un symptôme social psychique.
La désignation de surmusulman a ici valeur d’un diagnostic sur le danger auquel sont exposés les musulmans et leur civilisation. C’est la raison pour laquelle cet essai se termine par un chapitre sur le dépassement du surmusulman, en perspective d’un autre devenir pour les musulmans.

Fethi Benslama Membre de l’Académie tunisienne, Fethi Benslama est psychanalyste et professeur de psychopathologie clinique à l’université Paris-Diderot.
La riposta mortifera del Califfato a una ferita narcisistica 
Saggi . «Il Supermusulmano» di Fethi Benslama. L’Isis tra storia e psicoanalisi secondo l’intellettuale tunisino
Livio Boni Manifesto 21.12.2016, 19:22 
Nella messe di pubblicazioni sul radicalismo politico islamico i lavori di Fethi Benslama, psicoanalista e intellettuale d’origine tunisina, occupano un posto singolare, muovendosi tra psicopatologia, antropologia sociale e presa di posizione politica. Nel suo ultimo libro, Il supermusulmano. (Le surmusulman. Un furieux désir de sacrifice), Benslama riprende implicitamente il concetto di «sovracompensazione», già impiegato da Alfred Adler in Austria tra le due guerre mondiali, per descrivere il passaggio brusco da un complesso d’inferiorità ad un complesso di superiorità. 
La sovracompensazione permette infatti di trasformare immediatamente, e quasi per magia, una serie di stigmate d’inferiorità in segni destinali di potenza, e persino di elezione. Questa alchimia inconscia fa sì che una serie di ferite narcisistiche (esclusione scolastica, marginalità sociale, prigione, fragilità identitaria, rottura familiare, condotte a rischio) possano trasformarsi in segni precursori di un destino fuori dalla norma, producendo una «sedazione dell’angoscia, un sentimento di liberazione, slanci di onnipotenza», sanciti dall’atto simbolico di assumere un nuovo nome (di battaglia), espressione di una posizione superegoica che si dimostrerà mortifera. 
IL «SUPER-IO» del supermusulmano infatti, alfiere di un Dio umiliato e onnipotente al tempo stesso, pur permettendo in un primo tempo di alleviare il sintomo, in realtà lo esaspera, trasformandolo in un desiderio sacrificale, pura espressione della pulsione di morte. La stessa vocazione al martirio è pervertita, in quanto «nell’Islam tradizionale il martire è un combattente che va incontro alla morte, senza desiderio di morire», mentre «per il nuovo martire dell’islamismo la morte non è contingente rispetto alla lotta, ma ne è la finalità. Morire è il trionfo». 
Ciò detto, pur essendo indubbio che il radicalismo funziona come un’offerta senza pari sul mercato del sentimento d’inferiorità individuale proponendo una trasvalutazione di tutti i valori in grado di trasformare il piombo (dell’inferiorità) in oro (della superiorità), il meccanismo si rivela pregnante solo se articolato anche ad un altro livello, trans-individuale. 
LA FERITA NARCISISTICA dei soggetti supermusulmani (non necessariamente di origini musulmane) deve poter incontrare una ferita narcisistica collettiva. Qui la lettura di Benslama si fa sottile e invita ad evitare le soluzioni prefabbricate. «L’ideale collettivo ferito» non risiede nel presunto problema dell’islam rispetto alla modernità o alla secolarizzazione politica, ma rimonta al trauma della dissoluzione dell’impero ottomano e del Califfato (1924), non a caso seguita dalla nascita del primo movimento islamista, i Fratelli Musulmani (1928), momento che sancisce non solo l’infeudamento del mondo arabo-musulmano al colonialismo europeo, ma anche la perdita dell’oumma, la comunità, la «matria» piuttosto che la patria o la nazione (watan). «L’offerta jihadista consiste nel sovrapporre il torto fatto alla comunità al vissuto di un grave torto nella vita del soggetto». 
Più che un progetto teocratico il fantasma politico dell’islamismo consiste nel desiderio d’abolire le nazioni musulmane nate dalla dissoluzione del Califfato ottomano, così come hanno tentato di fare i Talebani o Daech. Per questo Benslama conclude parlando di un desiderio dell’Uno come cifra politica, o «anti-politica», ultima dell’islamismo guerriero, confrontato ad un’altra forma di culto impolitico dell’Uno, il nazionalismo del despota autocratico. E per questo la sola alternativa ai suoi occhi consiste nello sperimentare delle forme collettive di rinuncia ad ogni fantasma (fallico) di Unità. 
ISPIRANDOSI ALLA TUNISIA contemporanea, Benslama difende la necessità di attraversare una fase tumultuosa di diffrazione identitaria, di apprendimento delle proprie differenze e contraddizioni, individuali e collettive, «l’instaurazione di un grande specchio politico», di un «teatro delle verità sociali», come apprendistato soggettivo fondamentale per poter accedere alla rinuncia ad un garante «Unico», rinuncia indispensabile all’apertura di uno spazio propriamente politico.

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