lunedì 5 dicembre 2016

Telemaco un corno, statista manco quello




































Anche nella meritata disgrazia ha confermato la nullità e l'infondata arroganza narcisista improntata al principio di piacere che ne hanno segnato l'effimera fortuna.
Nessuno sforzo di comprensione dei sommovimenti profondi della società e non uno straccio di autocritica ("Ho fatto quello che dovevo fare. Ho proposto una riforma giusta") ma solo il gesto di sfida sbruffona suggerito dallo spin doctor per non dar sazio alla morte. La rivendicazione ottusa quanto tronfia di una mera messa in scena di governo, dietro la cui patina di plastica si nascondeva però solo lo scatenamento degli istinti più rapaci del particolarismo, assieme al tradizionale sovversivismo delle classi dirigenti nazionali, questa volta travestito da narrazione giovanilista.
Ognuno esce di scena per quel che è. Lui, dunque, da viscido e irresponsabile imprenditore di se stesso che tenta di lasciarsi aperta una strada ripetendo la recita di una menzogna stantìa.
Lascia problemi più gravi di prima e un esercito di renzicchi anglicizzati in cerca d'autore, contro il quale bisognerà a lungo condurre una battaglia in nome della dignità dell'uomo.
Per il resto, a una destra seguirà ora una destra ulteriore, perché questa è la natura del quadro sociale e politico oggi e per una lunga pezza, indipendentemente dai suoi interpreti soggettivi.

Una piccola nota sulla depressione post-referendaria a Urbino


Urbino è una delle poche città d'Italia al di fuori del Renzistan, dell'Emiliia Romagna (ma non Rimini), della provincia di Bolzano e di San Luca (RC) nelle quali il Sì ha prevalso (52 a 48 % circa).
Qui, dove le sinistre hanno governato ininterrottamente dal 1946 finché sono diventate destre, c'è un esempio in miniatura ma assai rodato del capillare sistema clientelare PD, variante endogamica. E c'è la persistenza di una radicata filosofia della storia: il Gran Partito ha sempre ragione; dunque le medesime cose, anche la cancellazione dell'art. 18 e della democrazia parlamentare, cambiano di segno e sono buone se le fa il mio Partito e se poi comandiamo noi, mentre erano cattive finché le facevano gli altri.
Come e in che misura queste scelte incidano sui rapporti di forza politico-sociali è del tutto indifferente. E' semmai la società a doversi conformare alle decisioni della Segreteria Nazionale.
Qui perciò un attimo prima erano tutti con Bersani e D'Alema contro l'usurpatore, mentre un attimo dopo le stesse persone erano spudoratamente tutte con Renzi e contro i gufi fascisti o utili idioti dei fascio-pentastellati.
Stamattina i piddini (o quantomeno quelli che sono stati costretti a uscire dal lutto domestico per andare al lavoro) si dividevano in due: i rancorosi che prevedono l'invasione delle cavallette grilline o il ritorno di Berlusconi e quelli che sono andati di corsa all'anagrafe, per ridare al figlio il nome del nonno troppo precipitosamente mutato in Matteo.
Quelli che non sono del PD o alle loro immediate dipendenze, invece, respiravano. Fa freddo, ma c'è più serenità. [SGA].



D’Alema festeggia: “E’ finito rottamato lui” 

Andrea Carugati  Busiarda
Massimo D’Alema si concede persino il lusso di non brindare. «Oggi per me solo acqua minerale», svicola, ma sprizza gioia da tutti i pori mentre guarda i dati sul telefono: «Il disegno neocentrista del partito della Nazione è stato battuto. Era Renzi che voleva rottamare gli altri, spero che questa passione gli sia passata». Nel Loft sul Circo Massimo dove ha trovato casa il suo comitato per il No accorrono tutti i big della minoranza dem, tranne Bersani che è rimasto a Piacenza. Ci sono Miguel Gotor, Nico Stumpo che compulsa dati sul tablet, Davide Zoggia, Pietro Folena. E’ la resurrezione dei Ds, a pochi metri da un altro loft, quello che nel 2007 accolse i primi vagiti del Pd di Veltroni. Il leader Massimo è tornato, lo si capisce da mille segnali, dal boato che accoglie il suo arrivo attorno all’una. «Per me è stata una giornata meravigliosa, anche la Roma ha vinto il derby». Roberto Speranza lo raggiunge per l’incontro coi giornalisti, molto più serio. «Ora si può passare con serenità il testimone a una nuova generazione», spiega D’Alema, che ricorda come «i giovani hanno scelto il No più di tutti gli altri». Veleno distillato verso chi lo voleva rottamare. E lui che farà? «Abbiamo dimostrato che quando serve ci sono delle riserve ancora capaci di stare in campo». Su Renzi non vuole infierire: «Capisco la sua amarezza, con dignità il premier ha tratto le conclusioni politiche». E la guida del Pd? D’Alema sorride, il rottamatore di Firenze per lui è archiviato. «Faremo un congresso e lì si deciderà. Immagino che tanti che lo avevano seguito ora cercheranno di azzannarlo. Non io, che ho combattuto a viso aperto le sue scelte sbagliate e, al contrario di ciò che dice lui, senza rancore personale». 
Al Circo Massimo è la sua serata. D’Alema abbraccia Guido Calvi, che ha guidato il comitato. Speranza guarda al nuovo governo, «compito del Pd sarà assicurare governabilità e seguire le indicazioni di Mattarella, c’è da ricucire una frattura nel Paese, da approvare la legge di Bilancio». D’Alema è ancora più esplicito: «Non sarebbe responsabile precipitare il Paese a elezioni anticipate, ci sono da rifare le leggi elettorali. E il No può aprire una nuova stagione di dialogo tra le forze politiche, all’insegna del rispetto reciproco». Ma l’ex leader Ds ha nel mirino soprattutto il futuro del Pd e del centrosinistra: «Al voto oggi sono tornati molti nostri militanti che avevano smesso di votare, c’è la possibilità di riavvicinare questo popolo». La Ditta è tornata. E sembra intenzionata a togliersi parecchi sassolini dalle scarpe. 
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“Gli italiani non si fanno imbrogliare. Ci siamo liberati da uno spettro” 

L'intervista. La costituzionalista Lorenza Carlassare: sapevo che potevamo fidarci degli elettori, non si fanno prendere per il naso. È stato un voto in difesa della Costituzione, ma anche un voto legato alle difficili condizioni di vita 

Andrea Fabozzi Manifesto 5.12.2016, 1:36 
Lorenza Carlassare risponde al telefono da Padova, è a casa di amici, festeggiano.

È una bella sorpresa, professoressa?

Una bellissima notizia ma, adesso posso dirlo, per me non è una sorpresa. Me l’aspettavo, anzi ne ero sicura, scurissima. Lo sono sempre stata. Perché so che gli italiani quando arriva il momento della verità capiscono bene cosa è giusto fare. Lo posso dire perché nella mia vita ho già vissuto molte situazioni del genere, situazioni in cui le aspettative sembravano preoccupanti e invece alla fine il risultato è stato positivo. 

Lei ha girato molto per il comitato del No, traeva questa convinzione dai suoi incontri? 

Anche da quelli, sì. Effettivamente ho partecipato a tantissime assemblee per spiegare le ragioni del No, per mettere in evidenza tutti i difetti di questa riforma costituzionale. E specialmente in quest’ultimo periodo, anche qualche mese fa ma specialmente nelle ultime settimane, ho percepito il fastidio per l’atteggiamento del presidente del Consiglio. Renzi è stato in televisione praticamente ogni ora, ogni minuto. E negli ultimi tempi ha alzato i toni in maniera aggressiva verso gli esponenti del No, anzi verso tutti gli elettori intenzionati a votare No. 

Secondo lei ha perso per questo? 

Devo dire la verità, l’arroganza di Renzi mi è sembrata il quadro di quello che ci sarebbe potuto succedere se avesse vinto il Sì. Avremmo avuto ancora di più l’arroganza al potere. Anche per questo ero certissima che il No avrebbe vinto, perché gli italiani sono insofferenti verso questo tipo di atteggiamento. E capiscono quando c’è qualcuno che vuole prenderli per il naso. 

È stato un no in difesa della Costituzione? 

Sicuramente. Ma anche le sofferenze quotidiane della gente hanno pesato. Le persone conoscono bene le loro condizioni di vita, aveva un bel dire Renzi che tutto va bene e il bilancio è positivo, che l’Italia sta crescendo. Non è così, purtroppo, e la gente lo sa bene. Gli italiano non potevano credergli. 

Le sembra opportuno che si sia dimesso? 

Inevitabile, per come aveva impostato le cose. Ma a me interesserebbero di più le dimissioni da segretario del Pd. Mi farebbe piacere se quel partito, povero partito, riuscisse a trovare una strada diversa. O almeno che ci provasse, non so se può riuscirci. 

Secondo lei è indispensabile fare una nuova legge elettorale prima di sciogliere le camere? 

Se in parlamento si riuscisse a trovare un accordo per fare una nuova legge elettorale, una buona legge elettorale, sarebbe certo un fatto positivo. Ma questa non può diventare ancora una volta una scusa per tenere in vita un parlamento pesantemente delegittimato dalla Corte costituzionale. 

E quindi con quale legge si dovrebbe votare? 

La Corte costituzionale con la sentenza 1 del 2014 con la quale ha cancellato parti importanti del «Porcellum» ha lasciato in piedi un sistema – il cosiddetto Consultellum – con le parti residue della vecchia legge elettorale. È un sistema funzionante, può essere utilizzato 

Una specie di proporzionale. 

Una specie, sì, perché ci sono ancora soglie parecchio alte, ma è di certo assai meglio dell’Italicum. 

L’Italicum a questo punto è inservibile? 

Senza questa riforma costituzionale, l’Italicum che è un sistema applicabile alla sola camera elettiva non esiste. Oltre tutto è sotto il giudizio della Consulta e non si può certo utilizzare. È una legge incostituzionale che riprodurrebbe un parlamento incostituzionale. 

Come quello che ha fatto questa riforma. 

Renzi senza i seggi dichiarati illegittimi non avrebbe mai potuto farla. È stata una riforma nata male, meno male che è finita così. Tutta la conduzione della vicenda è stata anti democratica, ci siamo liberati da uno spettro, che meraviglia.


La solitudine del premier “Sotto assedio io non ci sto piuttosto via dalla politica” 
A Palazzo Chigi sfogo con Lotti e Sensi: “Se così tanti votano significa che il Paese vuol mandarmi a casa”. Però i voti sono 2 milioni in più del 2014. “E allora potremmo ripartire da qui”

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
ROMA. La tentazione di mollare tutto, Palazzo Chigi e segreteria del Pd, tornare veramente a casa a Rignano, lasciare la politica come disse un anno fa nella conferenza stampa di fine anno lanciando la lunghissima campagna referendaria. Tensione al massimo, tutti pendono dalle labbra di Matteo Renzi. La parola tocca a lui, il resto della truppa ha il volto paonazzo di chi ha preso una brutta botta.
Renzi è chiuso nella sua stanza al primo piano della sede del governo. Ha rischiato e si è rotto l’osso del collo, come ama dire. L’aria è pesantissima e i dati sull’affluenza danno la reale dimensione di un capitombolo, lasciando intravedere la sentenza più inaspettata: «Se tante gente va a votare e vince il No, vuol dire che il Paese intende mandarmi a casa». Un responso elettorale, quindi, una rivolta contro di lui. E il Paese profondo non sta nelle condizioni sociali ed economiche immaginate dalla sua narrazione.
All’amico ritrovato Matteo Richetti, qualche giorno fa aveva confessato: «Sono stanco, stanchissimo ». Non solo del lungo viaggio per l’Italia, delle notti in bianco, delle maratone in tv. Ma del non essere stato compreso in uno sforzo, secondo Renzi, sovrumano. «Per riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e mondiale, al suo posto». Questo pensava di aver fatto nei mille giorni di governo. Parole confidenziali tra amici, che oggi assumono un altro significato: la resa e la consapevolezza di una sconfitta bruciante, una freccia conficcata nel cuore del renzismo. «Non posso fare finta di niente, davvero non sono come gli altri».
Il modello è il Prodi che torna a Bologna dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento. Ma lì c’erano i giochi di palazzo, i tradimenti, le coltellate alle spalle. Qui invece il voto degli elettori. Lo andranno a cercare fin su le colline del Valdarno sapendo che è l’unico leader della sinistra in grado di vincere le elezioni, presto o tardi che siano? Ma il suo orizzonte forse non è quello di David Cameron che dopo la Brexit è stato immortalato su una banchina a mangiare fish and chips. Ma non è ai precedenti che Renzi pensa chiuso nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Con Luca Lotti, il portavoce Filippo Sensi, il fotografo Tiberio Barchielli, la squadra instancabile della corsa al vertice. Altri ministri, compresi Maria Elena Boschi e Dario Franceschini, sono a Largo del Nazareno, nella sede del Partito democratico.
Il futuro della politica italiana è un rebus che il premier non risolve stanotte. Oggi pensa a sè e all’amaro della sconfitta. Con zero segnali positivi anche se nella war room renziana qualcuno mostra a “Matteo” alcuni dati. Se l’affluenza sfiora il 70 per cento anche con il 40 per cento di Sì, Renzi intercetta 13 milioni di voti. Sono due in più di quelli presi nel 2014 alle Europee quando il Pd conquistò mil 41 per cento. E con il 45 per cento i consensi sarebbero adirittura 15 milioni. «Ripartiamo da qui», suggerisce qualcuno nella stanza di Renzi.
Si può fare. Tenere la segreteria, dare le carte per un nuovo governo fotocopia che conduca in porto la legge di bilancio e i decreti di fine anno, pilotare la legge elettorale e sfidare subito i nemici interni convocando il congresso dem rimanendo in sella. Dipende dal dato finale. Con un Sì attestato al 45 per cento o sopra, Renzi organizzerà la rivincita, una nuova sfida combattendo «l’accozzaglia». Ma con il 40 per cento, sarà tutto più difficile. «Comincerà un assedio dentro il Pd, la minoranza e le correnti chiederanno di cambiare tutto, non solo il segretario. Basta primarie aperte, voto solo per gli iscritti, un’ offensiva rispetto al Partito della Nazione. Al grido: mai più gli elettori di Cosentino e Verdini ai gazebo del Pd. Li conosco».
Gli alleati per tenere almeno la segreteria non mancheranno. I franceschiniani, i giovani ì turchi, insomma una maggioranza solida per affrontare il congresso e rivincerlo. Ma a quali condizioni? Cedendo su cosa? Già nelle prossime ore, confida il presidente del Pd Matteo Orfini, verranno convocati gli organismi del partito, ovvero una direzione. Potrebbe partire subito il percorso congressuale, prima che si saldi un’asse tra la minoranza e altre componenti. Pier Luigi Bersani, qualche settimana fa, era stato chiarissimo: «Cambiamo le regole del congresso, apriamoci alle associazioni e immaginiano anche un segretario che non venga dal gruppo dirigente dem». Dario Franceschini è come al solito l’ago della bilancia. Ai suoi ha raccomandato: «Ricordatevi come si comportavano i vecchi democristiani. Non si fanno mosse azzardate, calmi con le dichiarazioni fino a quando la crisi non si manifesta nella sua pienezza». Il clima rischia di virare al brutto anche dentro il Pd. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Il dopo Renzi  Padoan in pole, ipotesi Grasso le carte in mano a Mattarella

TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. E adesso tocca all’arbitro. Da settimane ogni passo di Sergio Mattarella è orientato alla stabilità, ma lo schiaffo referendario sembra rendere impossibile un governo saldo con Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Intendiamoci: per il Colle è sempre l’attuale capo dell’esecutivo a dover decidere se restare in sella. Non sarebbe certo il Capo dello Stato, insomma, a non favorire un “Renzi bis”. Ma sono la politica, e lo stesso leader, ad essere già passati al piano B. Toccherà allora al Presidente gestire un passaggio così traumatico. A partire dalla scelta del nuovo premier, che potrebbe uscire da una terna di nomi capaci, per ragioni diverse, di sbrogliare questa matassa infernale: Pier Carlo Padoan, Piero Grasso e Graziano Delrio. Con il ministro dell’Economia in pole.
Il tonfo di Renzi è stato fragoroso, impossibile ignorarlo. E però, per Mattarella, ogni ragionamento parte da una considerazione che discende dal suo ruolo di garante: un referendum non può considerarsi alle stregua di elezioni politiche. Se Renzi volesse tentare la carta del reincarico, magari dopo giorni di gravi tensioni sui mercati, non troverebbe insomma ostacoli. Il problema è che proprio il leader ha deciso di trarre le conseguenze politiche di questa sonora bocciatura della riforma. Ed ecco allora che entra in campo il Colle. Discretamente, Mattarella ha già tessuto una tela fatta di moral suasion e appelli alla responsabilità. Ne servirà parecchia, soprattutto per dribblare lo scoglio di una crisi senza sbocchi.
Tutto sarà più chiaro al termine delle consultazioni al Quirinale, con un’unica stella polare a guidare il Capo dello Stato: nessun governo potrà nascere contro Renzi e contro il Pd, che resta comunque la forza di maggioranza relativa in Parlamento.
I nomi, si diceva. Molto dipenderà dai paletti di Renzi. E ancor di più, se possibile, influiranno il contesto e le priorità del nuovo esecutivo. Se ad esempio dovesse rivelarsi concreto il timore di molti — e cioè che la vittoria del No affossi le Borse, destabilizzando lo spread e influenzando negativamente la partita delle banche — lo sbocco naturale diventerebbe quello di un esecutivo Padoan. Il ministro dell’Economia, giudicato in Europa garanzia di continuità, prenderà parte già stamane alla prevista riunione dell’Eurogruppo. «Certo che prepariamo una rete di protezione finanziaria — spiegava alcune settimane fa ai militanti preoccupati dal No — Non a caso il 5 dicembre mattina sarò a Bruxelles».
C’è lo scenario Padoan, il più concreto. Se il sistema dovesse mostrarsi stabile, però, la battaglia della legge elettorale diventerebbe il cuore del risiko parlamentare. Ed è proprio con questo schema che una carta istituzionale come quella di Piero Grasso potrebbe affermarsi. Dalla sua, il Presidente del Senato vanta un buon rapporto con le opposizioni. E garantisce anche un vantaggio tattico all’attuale premier: non essendo renziano, consentirebbe al leader Pd di marcare una distanza da Palazzo Chigi, ottima per costruire la prossima campagna per le politiche.
E se invece dalla crisi uscisse un progetto di governo che ha come orizzonte la fine della legislatura? A quel punto Renzi potrebbe preferire una staffetta con un uomo di fiducia come Graziano Delrio. Renziano della prima ora, anzi “il primo dei renziani”, ha attraversato una fase complicata nei rapporti con il capo. Ultimamente, però, è tornato il sereno. Le altre due soluzioni politiche - meno probabili rispondono ai profili di Dario Franceschini e Paolo Gentiloni. Il primo resta uno degli azionisti di maggioranza del Pd e gode di un buon rapporto con il Colle. La sua ascesa, però, sarebbe mal digerita dai renziani. Il contrario del titolare della Farnesina, vicino a Renzi e per questo poco amato dal resto del partito.
Sullo sfondo emerge anche la figura di Romano Prodi. Nelle ultime ore settori crescenti del Partito democratico sono tornati a invocare a gran voce il suo nome. Una soluzione quotatissima tra le truppe dem, quindi, ma che si scontra con un dato di realtà: il Professore ha già fatto sapere di non essere interessato a un simile scenario. Suggestiva è anche la soluzione Emma Bonino. Curriculum internazionale, già commissaria europea negli anni Novanta, con un certo appeal nel mondo grillino. Complicato però che tra i dem si raggiunga un’intesa sul suo nome. Capitolo a parte, infine, per Giuliano Amato. Il suo identikit è in cima ai desideri del “partito dell’esperienza”, visto che il giudice della Corte costituzionale ha già guidato in due occasioni l’esecutivo. Ben visto anche nel centrodestra, meno da alcuni settori dell’opinione pubblica.
Se nessun nome dovesse conquistare una maggioranza, non si può escludere un rapido ritorno al voto con l’attuale premier ancora a Palazzo Chigi. La verità, comunque, è che il puzzle è appena saltato. E sembra terribilmente difficile ricomporlo, a maggior ragione senza Renzi.
Per il Colle la prima scelta era Renzi, ma è lo stesso premier ad essere passato al “piano B”. Che non potrà comunque prescindere dal Pd


Parte l’operazione Di Maio candidato scontro sulle regole: “Primarie libere” 
I grillini divisi sul metodo per la selezione del nome per la premiership: voto aperto contro rosa ristretta decisa dal leader

ANNALISA CUZZOCREA Rep
ROMA. I 5 stelle andranno al Quirinale a chiedere che si voti subito, il prima possibile. Per questo, sul loro immediato futuro si spalanca la scelta più difficile. Quella su come scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio senza che le divisioni interne esplodano mettendo in pericolo gli equilibri del Movimento.
Il prescelto è da tempo il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che ha però degli avversari interni. Roberto Fico, Carla Ruocco, Carlo Sibilia (ex compagni di direttorio) non hanno gradito il modo in cui ha appoggiato Virginia Raggi nelle sue scelte romane. La parte più ortodossa dell’M5S non ha mai amato i suoi modi pragmatici e spererebbe in un “tradimento” di Di Battista, l’unico considerato in grado di batterlo. O in una revisione delle regole che permetta la corsa di Chiara Appendino, che dovrebber però interrompere il mandato da sindaca di Torino.
Beppe Grillo e Davide Casaleggio ne hanno parlato più volte. Hanno deciso che prima di tutto, on line, ci saranno le “primarie del programma”: un voto sulle proposte da portare alle prossime politiche. Poi toccherà alla selezione delle persone. Il modello su cui punta metà M5S è quello delle “Quirinarie”. Quando si trattò di scegliere il presidente della Repubblica, agli iscritti venne chiesto di proporre dei candidati liberamente. Da lì arrivarono i nomi di Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Milena Gabanelli. Si pensa a quel sistema, ma con alcuni paletti, in modo che siano indicate solo persone già candidate o elette nel Movimento.
È il modello preferito di chi non ritiene scontata l’incoronazione di Di Maio: nella spontaneità del voto degli iscritti - è il ragionamento - potrebbero nascondersi insidie per il vicepresidente della Camera. Ad esempio, una netta prevalenza del nome di Di Battista, la cui popolarità è cresciuta a dismisura non solo attraverso l’uso sapiente dei social, ma soprattutto grazie ai tour per il No alla Costituzione. Prima in moto, poi in treno, in pratica due giri d’Italia: «Ormai so tutto anche delle ferrovie - scherzava venerdì a Torino - le signore mi fermano e mi chiedono: “Scusi, la coincidenza per Cuneo?”».
Il pallino è interamente nelle mani del capo politico: da statuto, è Beppe Grillo che decide quando e come indire votazioni. Saranno lui e Davide Casaleggio a scegliere il metodo e la grande paura di molti dei parlamentari M5S è che alla fine propendano per il “modello probiviri”: una rosa di tre o cinque nomi tra cui scegliere, con buona pace di chi ha idee diverse (per i probiviri in realtà è andata peggio, perché la rete è stata chiamata solo a confermare i prescelti).
C’è però una terza via studiata al chiuso della Casaleggio Associati. Un metodo “tagliacorrenti” che avvantaggerebbe Luigi Di Maio consentendogli, in caso di vittoria, di far fuori i suoi avversari interni. Per testarlo, Grillo ha scelto Genova. Nella sua città si vota l’anno prossimo e il Movimento è spaccato in due: da una parte il gruppo storico, dall’altra i militanti vicini alla consigliera regionale Alice Salvatore, fedelissima di Di Maio. L’idea è quella di chiedere agli iscritti chi vuole candidarsi come consigliere e chi come sindaco. A quel punto si faranno liste contrapposte (gli aspiranti consiglieri dovranno scegliere quale sindaco sostenere). Passano i vincenti, gli altri vanno a casa. Se questa scelta funzionasse, e si ripetesse a livello nazionale, sarebbe esplosiva. Significherebbe che qualcuno dovrebbe proporsi come candidato premier sfidando Di Maio. E che in caso di sconfitta - lui e i suoi sostenitori perderebbero la chance di essere eletti. Un rischio che in pochi, nel Movimento, avrebbero il coraggio di prendersi. «La forza mediatica di Luigi è cresciuta troppo - ragionava già ieri un deputato - un voto di questo tipo adesso non potrebbe che cristallizzare la situazione». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Lo scontro nel Pd  La rivincita dei “rottamatf “Congresso e nuovo leader”

GIOVANNA CASADIO Rep
roma. «La vedete ora la mucca nel corridoio? Si è capito che c'era un problema nel governo e nel Pd?». Pierluigi Bersani è a Piacenza e ricorre alla vecchia metafora. Ha guardato in tv l'annuncio di dimissioni del premier. Per l'ex segretario che si è schierato con il No portandosi dietro una nutrita pattuglia di dem, la sconfitta del Sì e di Renzi non può non avere conseguenze anche nelPd.
Facile prevedere che la riconquista del partito da parte della minoranza partirà subito. Bersani e Massimo D'Alema, leader del No, giudicano di fatto la leadership di Renzi al capolinea. Ma lui forse giocherà d'anticipo. «Non sono escluse a priori anche le sue dimissioni da segretario del Pd». Conferma Graziano Deirio, già aH'arrivo dei primi risultati e benché l'incertezza regni sovrana. L'affluenza massiccia alle ur- ne dà del resto la dimensione di voto politico in cui si è trasformato il referendum costituzionale e reso definitiva la sconfitta di Renzi. Per il ministro delle Infrastrutture, renziano della prima ora, che ha archiviato nella sua rubrica telefonica Matteo alla voce Mosè, «quello che doveva succedere nel Pd è già successo, una parte del partito ha votato per il No».
La resa dei conti è arrivata. Si apre la battaglia nel Pd. Scontato un congresso anticipato. Si rafforza anche l'ipotesi di un 'reggente', come accadde dopo le dimissioni di Bersani, quando il partito fu affidato a Guglielmo Epifani. Intanto il vice segretario Lorenzo Guerini ha annunciato la convocazione della Direzione per domani. Se il Sì avesse vinto, per la minoranza schierata contro la riforma costituzionale, la scissione sarebbe stata dietro l'angolo. Ora la vittoria del No, fa saltare il tavolo renziano. Per D'Alema, il nemico dem del premier-segretario, è l'ora della rivincita. «Capisco l'amarezza della sconfitta e anche la dignità con la quale il presidente del Consiglio ha tratto le conclusioni », afferma. E aggiunge: «Sulle dimissioni di Renzi da segretario del Pd, deciderà il Pd. Io non competo, ma il Pd deve tornare a essere il Partito democratico non il partito di Renzi. Io non voglio togliere spazio a lui, era lui che voleva rottamare, spero questa passione gli sia passata. Comunque è stato sconfitto il disegno neo centrista del partito della Nazione».
Le grandi manovre dem sono cominciate. Con alcuni 'distinguo' e alleanze già in corso tra le correnti 'in sonno' . «Sul campo di questa battaglia referendaria resta un Pd disarmato». Bersani lo ha ribadito nei giorni scorsi. I bersaìs niani sono soddisfatti: «Per fortuna che noi sinistra dem abbiamo rappresentato quella parte del centrosinistra che ha votato No come l'Anpi, l'Arci, la Cgil».
Il congresso del Pd era previsto dallo statuto per novembre prossimo, ci sarà al più presto. Ma qui per la sinistra dem si aprono molti problemi. Non ancora pronto infatti è il campo della alternativa a Renzi. Chi si candida a sfidarlo, ammesso che il segretario di ricandidarsi abbia voglia?
Speranza è tentato dal farlo, ma ha ammesso che l'appoggio deve essere ampio e convinto. E in pole position tra gli sfidanti c'è l'attuale Guardasigilli, Andrea Orlando. La sua corrente, i 'giovani turchi' è diventata renziana in corso d'opera, dopo avere appoggiato alle primarie del 2013 Cuperlo contro Renzi. Ma soprattutto Orlando ha condotto la battaglia referendaria come 'Sinistra per il Sì'accanto a Maurizio Martina. E anche lui, il ministro dell'Agricoltura, è indicato come possibile candidato alla guida del Pd. Per ora l'unica candidatura formalizzata è quella di Enrico Rossi, governatore della Toscana. Nelle scorse settimane tante le riunioni delle correnti, da Areadem di Dario Franceschini ai 'turchi' di Matteo Orfini. Cuperlo - alla fine sul fronte del Sì dopo avere ottenuto l'impegno di Renzi a cambiare l'Italicum - parla del ritorno al centrosinistra. «Il partito della nazione con Verdini è archiviato »: rincarano i bersaniani. In serata accorrono nella sede del partito, al Nazareno, i vice segretari Guerini e Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda, i ministri Boschi, Franceschini, Pinotti: al capezzale del Pd.
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La legge elettorale  Ora salta anche l’Italicum Si fa strada il proporzionale
L’esito del voto impone di cambiare le regole al Senato, dove ora vige il Consultellum, per uniformare il sistema a quello in vigore per la Camera Prende corpo l’ipotesi di un premio fisso di soli trenta deputati La Corte costituzionale medita di riaprire il caso già a gennaio

LIANA MILELLA Rep 
E adesso, con il no, salta anche l’Italicum, la contestata legge elettorale per la sola Camera. Per mano della Consulta, dove la “pratica” è stata congelata il 19 settembre (lo decise il presidente Paolo Grossi per evitare sovrapposizioni con il referendum), ma molto più probabilmente per mano della stessa politica. Da tempo Renzi ha aperto alle richiesta della sinistra Pd di modificare l’Italicum, e in Parlamento sia i partiti attualmente al governo, Pd e Ncd, sia quelli all’opposizione, Fi e M5S, hanno presentato proposte per una modifica radicale. Se la commissione Affari costituzionali di Montecitorio dovesse aprire formalmente la discussione su una nuova legge elettorale la stessa Consulta si vedrebbe costretta a fare un passo indietro, com’è sempre accaduto quando un tema in discussione diventava contemporaneamente oggetto di una concreta modifica legislativa.
E adesso i presupposti per cambiare l’Italicum ci sono. L’ipotesi che prende corpo è quella di un ritorno al proporzionale con un solo turno, ma con un sistema uninominale, simile quindi alla legge in vigore durante la prima Repubblica per il Senato, senza la soglia alta prevista da quella legge. Ci si attesterebbe su una sbarramento al 4% con un premio fisso che andrebbe al partito, o alla coalizione di partiti, che conquista il primo posto alle elezioni. Il premio consisterebbe però “solo” nell’attribuzione di 30 deputati in più rispetto a quelli già aggiudicati, quindi un sistema che non implicherebbe automaticamente, come nel contestato Italicum, la conquista della maggioranza.
Ovviamente, con la vittoria dei no, s’imporrà anche di mettere mano in tempi stretti a una nuova legge per il Senato, per il quale oggi si dovrebbe votare con il Consultellum, cioè quello che resta del Porcellum dopo l’ intervento della Consulta che nel dicembre 2013 (ma la sentenza è del gennaio 2014) bocciò la legge del governo Berlusconi.
Chi cambierà prima l’Italicun? Il Parlamento o la Consulta? Inevitabilmente, da oggi, alla Corte costituzionale il dossier sull’Italicum si riapre. Soprattutto per decidere se e quando discutere i ricorsi degli ormai quattro tribunali, Messina e Torino – già da tempo giunti in piazza del Quirinale – Perugia e, da ultimo, Genova, annunciati, che contestano il premio di maggioranza, il ballottaggio senza soglia, i capilista bloccati. Il relatore Nicolò Zanon – il costituzionalista milanese scelto nel 2014 dall’allora presidente Napolitano dopo 4 anni al Csm – da tempo ha pronta la sua relazione. Testo top secret, in cui sarebbe contenuta più di una bocciatura dell’Italicum. Tocca al presidente Grossi decidere quando discutere. Nel calendario della Consulta, che arriva fino a marzo 2017, l’Italicum non è previsto. Ma già questa settimana Grossi potrebbe decidere una scadenza. Che sicuramente non potrebbe essere fissata prima di Natale, anche per dare tempo alle parti, a cominciare dall’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata, di presentare eventuali memorie aggiuntive. Realisticamente l’Italicum potrebbe essere affrontato dalla metà di gennaio in avanti. Due censure finali nel ricorso di Messina si prestano quasi a una lettura politica laddove sottolineano che la governabilità è in pericolo con due leggi elettorali, Italicum e Consultellum, talmente diverse da creare possibili maggioranze alternative. Anche se non dovesse accogliere i rilievi, la Consulta potrebbe comunque fornire utili indicazioni alla politica. Salvo che la politica non la batta sul tempo.
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La sfida perduta Dal Nazareno al Jobs act i mille giorni di un premier con troppi nemici
Un sentimento trasversale, l’antirenzismo, ha cementato destra e grillini, sindacati e insegnanti e anche una parte del Pd. Portando il governo alla sconfitta nella partita decisiva del referendum Nonostante la stabilizzazione di centomila insegnanti, la riforma della scuola è quella che ha forse danneggiato di più Renzi, alienandogli le simpatie di buona parte del mondo docente
LE UNIONI CIVILI Con la legge Cirinnà anche la parte più integralista del mondo cattolico ha finito per aggiungere le sue truppe all’armata dell’antirenzismo

SEBASTIANO MESSINA Rep
MAI NESSUN governo aveva fatto tante riforme in così poco tempo, poco più di mille giorni. Mai nessun premier, dal 1948 in poi, aveva fatto sfondare al suo partito il tetto del 40 per cento. Eppure la secca sconfitta di Matteo Renzi al referendum non si spiegherebbe senza ricordare il suo terzo primato: mai un uomo politico era riuscito così rapidamente a far nascere un sentimento trasversale, profondo e multicolore, dall’estrema destra all’estrema sinistra, un sentimento che ha finito per tagliare in due persino il suo stesso partito: l’antirenzismo.
Per capirne le radici, bisogna ripercorre la storia di questi 1015 giorni, e osservare la parabola di un toscano non ancora quarantenne – ne aveva 39 quando giurò al Quirinale – che entrò con la Smart a Palazzo Chigi per fare le riforme, e proprio sulle riforme – anzi, sulla più importante delle riforme – ha perso la sua partita decisiva.
Tre anni fa, Renzi usciva da trionfatore dalle primarie per la segreteria del partito. Preceduto da una mossa a sorpresa che lasciò tutti a bocca aperta – il Patto del Nazareno con Berlusconi, irriducibile avversario del Pd – e preparato da un fallo che gli procurò le prime antipatie - lo sgambetto al compagno di partito Enrico Letta dopo il celebre tweet #Enricostaisereno - il suo governo nacque dopo una crisi di appena otto giorni, il 22 febbraio 2014.
Renzi partì sgommando, con trenta giorni di fuoco. Depositò subito l’Italicum alla Camera. Promise un aumento di 80 euro a chi guadagnava meno di 1500 euro al mese. Diede il via all’abolizione delle Province. Annunciò la riforma della Pubblica amministrazione. E varò il Jobs Act, la legge che avrebbe dovuto rivoluzionare il mercato del lavoro.
L’iperattivismo del giovane premier piaceva agli italiani, che alle europee del 25 maggio lo premiarono – dando uno schiaffo a Grillo che già cantava vittoria - con una percentuale mai raggiunta dalla sinistra: 40,8 per cento. E lui accelerò ancora di più. Spingendo il Parlamento ad approvare rapidamente il divorzio breve. Varando il decreto “Sblocca Italia” per velocizzare le opere pubbliche. E incaricando la fidatissima e instancabile Maria Elena Boschi di portare presto al voto la riforma costituzionale.
La feroce battaglia che arroventò per settimane Palazzo Madama, fino al voto dell’8 agosto in un clima da resa dei conti, invece di frenarlo lo gasò ancora di più. Eppure fu forse in quel preciso momento che nacque l’antirenzismo, fino ad allora rimasto sottotraccia nei mugugni interni del Pd e nelle schermaglie parlamentari. Davanti ai due perni del Patto del Nazareno - l’Itali-cum che dava la maggioranza al partito vincente e la riforma Costituzionale che aboliva il vecchio Senato accelerando l’iter delle leggi - si trovarono sulla stessa trincea grillini, vendoliani e dissidenti di Pd e Forza Italia: uniti dal no a Renzi e alle sue riforme. Paradossalmente, l’ipotesi di un monocolore Pd al governo invece di placare il Pd lo mise in subbuglio, anche perché molti parlamentari messi in lista da Bersani temevano di non essere più ricandidati nel 2018.
Poi toccò al sindacato, al quale il Jobs Act non andava proprio giù, perché vi leggeva la demolizione delle tutele per i nuovi assunti: Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, intimò a Renzi di «abbassare i manganelli », e il 12 dicembre un milione e mezzo di persone scesero in piazza. Un’altra frattura si stava aprendo, ma il premier non sembrava impensierito: «Avremo contro i sindacati? Ce ne faremo una ragione».
Fino a quel momento, almeno sulle riforme istituzionali, il presidente del Consiglio poteva contare sui voti di Forza Italia, preziosissimi soprattutto al Senato. Ma quando, il 31 gennaio 2015, Renzi ignorò il veto di Berlusconi su Sergio Mattarella, facendolo eleggere presidente al primo tentativo, l’idillio con l’ex Cavaliere finì. Addio Patto del Nazareno, addio “soccorso azzurro”.
Lui però continuava ad andare a mille. Mise la fiducia sull’Italicum e mandò in porto anche la riorganizzazione della Rai, assegnando pieni poteri al direttore generale, il renziano Antonio Campo Dall’Orto. E sarà stato per la fretta, sarà stato per la voglia di far passare un’idea giusta senza preoccuparsi troppo delle reazioni degli interessati, ma fu proprio allora che Renzi commise l’errore di cui forse si è pentito: varare una riforma della Buona Scuola che non piaceva alla maggioranza dei professori. Lui pensava che bastassero i 100 mila posti di ruolo in più a convincerli, ma loro vedevano nel rafforzamento del potere dei presidi e nelle assunzioni per chiamata diretta due attacchi inaccettabili alla libertà di insegnamento. Protestarono, scioperarono, scesero in piazza, ma Renzi andò avanti lo stesso: e si mise contro, consegnandoli all’antirenzismo permanente effettivo, gran parte di quei professori che negli anni del berlusconismo erano stati sul campo l’anima culturale dell’opposizione ai governi che scrivevano le leggi ad personam per il Cavaliere.
Certo, a Palazzo Chigi le luci rimanevano accese fino a tardi. Bisognava affrontare gli sbarchi degli immigrati, gli avvertimenti dell’Unione europea sullo sforamento dei conti e anche l’emergenza terremoto, mentre Renzi cercava nuove misure per tirar su il morale agli italiani: il bonus bebè, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e di quella agricola, l’aumento delle quattordicesime per i pensionati.
E forse sperava di recuperare i voti perduti a sinistra, quando è riuscito a mandare in porto la legge sulle unioni civili, che finalmente metteva fine a una discriminazione secolare. Ma anche in quel caso c’è stato qualcuno che ha giurato di fargliela pagare: «Renzi ha tradito la morale cattolica, ce ne ricorderemo al referendum sulle riforme» aveva detto il portavoce del Family Day.
Evidentemente non diceva così per dire, e così anche i cattolici più integralisti si sono aggiunti all’armata dell’antirenzismo. Raggiungendo i grillini in cerca di rivincita, la sinistra che lo ritiene un corpo estraneo, i leghisti che vogliono buttarlo giù, gli avversari interni che aspettavano da tre anni lo scivolone, i sindacalisti offesi dal Jobs Act, i professori incavolati per la Buona Scuola, il popolo dei vouchers che gli imputa la sua infinita precarietà e quegli elettori ai quali quel giovanotto spavaldo che governa con i tweet, i post e le slide non è mai piaciuto. Insomma quella parte dell’Italia che oggi, purtroppo per Renzi, si è rivelata maggioritaria.
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LO SHOCK DI ROMA SI ABBATTE SULLA UE 

ANDREA BONANNI Rep 
È DURATO poco il sospiro di sollievo che l’Europa ha potuto tirare per la vittoria del candidato verde Alexander Van der Bellen alle presidenziali austriache contro il populista di estrema destra Norbert Hofer. Il risultato del referendum italiano è piombato sugli entusiasmi delle capitali comunitarie con la sua carica dirompente di incertezze e destabilizzazione. «L’Austria ha votato con la testa, l’Italia con la pancia», commenta a tarda notte con amarezza un alto funzionario di Bruxelles. E nessuno si illude che la sconfitta dei populisti in un Paese di otto milioni di abitanti possa compensare la destabilizzazione di un gigante come l’Italia con i suoi sessanta milioni di abitanti e soprattutto con il suo mostruoso debito pubblico, che ora grava come una minaccia sul futuro dell’intero sistema finanziario europeo.
Tra l’altro, la campagna elettorale austriaca si è svolta in un clima sereno e civile, nonostante si trattasse di una seconda votazione dopo quella annullata per presunte irregolarità amministrative. E lo stesso Hofer ha prontamente riconosciuto la vittoria del suo rivale invitando tutti a salvaguardare l’unità nazionale. Lo scontro tra il Sì e il No in Italia lascia invece dietro di sé l’immagine di un Paese profondamente diviso, attraversato da un malessere sordo e minaccioso. E apre le porte a una serie di regolamenti di conti politici che sicuramente indeboliscono la posizione di Roma in una Europa già destabilizzata, che avrebbe invece bisogno di poter contare sulla tenuta dei grandi Paesi che ne costituiscono la spina dorsale.
Anche se un referendum costituzionale e una elezione presidenziale sono difficilmente comparabili per il loro valore formale e per gli effetti legali che comportano, non c’è dubbio che tutta l’Europa abbia guardato al doppio voto di ieri con in mente un solo interrogativo: dopo la vittoria della Brexit in Gran Bretagna, dopo il trionfo di Trump negli Stati Uniti, è ancora possibile fermare l’ondata populista che minaccia di sommergere gli assetti politici tradizionali e di scardinare la Ue e i suoi principi di solidarietà e di cooperazione? A questa domanda, dall’Austria è venuta una risposta chiara. Il neo-eletto Van der Bellen ha impostato tutta la sua campagna elettorale proprio sulla questione europea. «Sono a favore di un’Austria europeista, da questo voto viene un segnale di speranza per l’Europa », ha dichiarato commentando la propria vittoria.
Dall’esito del referendum italiano arriva invece un segnale ancora una volta confuso. Non solo l’Europa, che pure tifava apertamente per il Sì, è stata tenuta quasi completamente al di fuori del dibattito elettorale. Ma gli stessi toni usati da Renzi nel corso della campagna referendaria sono spesso stati di aperta polemica con l’Europa, con le sue regole, con i suoi governi e con le sue istituzioni.
I cittadini austriaci che sono andati a votare avevano estremamente chiaro che dietro la scelta tra Van der Bellen e Hofer c’era in realtà una scelta pro o contro l’Europa. E infatti il candidato dei Verdi, proprio in nome dell’Europa, ha ottenuto il sostegno massiccio sia degli elettori socialisti sia di quelli democristiani. I cittadini italiani sono invece stati chiamati a un voto che era in larga misura anche un pronunciamento pro o contro Renzi. Ma, a causa delle molte ambiguità del presidente del Consiglio, non hanno potuto capire bene in quale misura la scelta tra il Sì e il No fosse anche una scelta in favore o contro l’Europa.
Non c’è dubbio che questa ambiguità sia stata una decisione consapevole da parte del governo italiano e di Matteo Renzi, che nei suoi interventi non ha esitato a rincorrere anche una parte dell’opinione pubblica populista e anti- europea. I risultati delle urne stanno a testimoniare che si è trattato di una decisione sbagliata e di una ambiguità controproducente. Insistere su questa strada, nella difficile fase che adesso si aprirà per la politica italiana, potrebbe rivelarsi disastroso. Che lo si voglia o no, l’Europa è e sarà lo spartiacque di tutti i grandi appuntamenti politici dei prossimi mesi, dal voto austriaco alle elezioni olandesi, francesi e tedesche. Nel referendum italiano si è cercato di ignorarla. Con esiti a dir poco destabilizzanti. Van der Bellen si è presentato davanti agli elettori impugnando la bandiera europea. E ha vinto. Renzi in campagna elettorale ha tolto la bandiera europea dal posto che occupava accanto a quella italiana. E ha perso. Ma adesso toccherà comunque all’Europa cercare di contenere, per quanto possibile, l’effetto potenzialmente dirompente del voto italiano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il passo indietro studiato per “rimettersi in cammino”

verso le elezioni politiche 
Nel discorso della sconfitta il leader ha ritrovato un tocco umano che aveva perduto. Ma ora la sfida più difficile è dentro il Pd 

Fabio Martini  Busiarda
Il corposo voto di “sfiducia” degli italiani lo ha spinto fuori da palazzo Chigi e ora il piano di Matteo Renzi è quello di trasformare la sconfitta al referendum nella sua vittoria alla prossime elezioni Politiche. Certo, non sarà facile, ma il progetto è lineare: anzitutto indicare al Capo dello Stato il candidato più gradito per palazzo Chigi e subito dopo, fatto il nuovo governo, Renzi intende «rimettersi in cammino», come ha detto ieri sera nel suo commosso commiato, Questo significa restare alla guida del Pd, provare ad anticipare il congresso, vincere le Primarie e proiettarsi verso le prossime elezioni come leader del Pd. Certo, non sarà una passeggiata, ora nel Pd il boccino passa al nuovo “centro”, formato dagli ex Ppi di Dario Franceschini e gli ex Ds di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Matteo Orfini. Proveranno a spodestare il segretario?
Operazione non semplice quella di Renzi, ma proprio a questo tragitto prelude l’uscita da “statista” del premier: mollando senza indugio la sua poltrona, il segretario del Pd intende ricostruirsi una sua “verginità”. Esattamente come fece nel 2012, quando fu sconfitto da Pier Luigi Bersani alle Primarie del Partito democratico. E proprio sul discorso di “accettazione della sconfitta”, Renzi costruì la sua rivincita alle Primarie poi vinte contro Gianni Cuperlo. Ecco, perché ieri notte Renzi ha risparmiato qualsiasi recriminazione nei confronti dei suoi avversari, a cominciare dai suoi compagni di partito. 
E alla costruzione del “nuovo” Renzi può contribuire anche quel frammento di commozione che il premier uscente ha manifestato, mentre ringraziava e salutava moglie e figli. Commozione sicuramente autentica, ma che colma uno dei deficit di immagine di Matteo Renzi, leader senza anima, che in questi mesi ha provato ad affettare emozione in circostanze drammatiche. Ma senza mai riuscire a restituire l’immagine di leader “umano”, come invece gli suggerivano i suoi consiglieri.
Matteo Renzi questo pomeriggio si dimetterà e probabilmente indicherà al Capo dello Stato le preferenze sue e del Pd per il prossimo inquilino di palazzo Chigi. Quando Renzi vedrà Mattarella, i mercati si saranno già espressi e in caso di reazione molto “aggressiva” e speculativa, la bilancia potrebbe pendere verso un governo affidato alla guida del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma senza terremoti finanziari, il favorito resta il presidente del Senato Pietro Grasso, soluzione “naturale” in quanto seconda carica dello Stato. 
Un’altra incognita riguarda la squadra di governo. Un esecutivo-fotocopia verrebbe vissuto da Renzi come un affronto: ecco perché è possibile che si vada verso qualche ricambio: Dario Franceschini potrebbe assumere il decisivo dicastero delle Riforme, mentre un avvicendamento potrebbe investire il ministero dell’Interno e dell’Università.
Certo, ad un addio così brusco, Matteo Renzi non aveva mai voluto credere. Ma quando la sconfitta è diventata batosta, a mezzanotte e un quarto del 5 dicembre, si presentato davanti alle telecamere, con la moglie Agnese a pochi passi e lui - sempre così granitico - si è commosso, la voce si è incrinata quando ha dovuto annunciare l’addio. E, per una volta leggendo dagli appunti che aveva preparato nelle ore precedenti, Matteo Renzi si è congedato da statista: «Si può perdere un referendum, ma non si perde il buon umore. Io ho perso e lo dico a voce alta, nella politica italiana non perde mai nessuno, andiamo via senza rimorsi». E ha annunciato che oggi pomeriggio sarà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. E ha fatto capire di restare in politica: «Questi mille giorni sono volati, ora per me è tempo di rimettersi in cammino».

Il leader rottamatore rimasto solo al potere 

Dal Jobs Act alle unioni civili, cronaca di un consenso via via perduto 

Federico Geremicca  SBUsiarda
Milioni e milioni di italiani letteralmente corsi alle urne per dire No prima di tutto a lui, poi alla sua riforma e quindi a quel fuoco d’artificio fatto di slide e di ottimismo, di battute taglienti e atteggiamenti sprezzanti con i quali il più giovane premier della storia repubblicana ha cercato, per mille giorni, di affascinare e sedurre il Paese. 
Un voto di protesta - forse di pancia, come chiesto da Beppe Grillo - sotto il quale Renzi è rimasto letteralmente sepolto, vittima di un eccesso d’azzardo da lui stesso tenacemente perseguito.
Hanno votato 70 italiani su 100, una cosa mai vista prima in un referendum costituzionale: e non è stato certo l’appeal dei quesiti ad aver spinto gli italiani alle urne. Rabbia e insoddisfazione, infatti, ormai tracimano da ogni argine: che si tratti dell’elezione del nuovo sindaco della capitale o della fine del bicameralismo. Stavolta, però, occorre dirlo, le dimensioni della protesta hanno avuto dimensioni tali da andare oltre l’immaginabile, per assumere il profilo di un vero e proprio rigetto: una sentenza, insomma, che oggi appare senza appello.
Ieri notte, Matteo Renzi l’ha capito osservando il primo exit poll, ammesso che ne avesse bisogno. E come aveva annunciato, ne ha tratto le conseguenze: «Andiamo via senza rimorsi... L’esperienza del mio governo finisce qui». Poche parole e un solo momento di commozione, quando ha citato i figli. Quindi il prevedibile passaggio di testimone ai vincitori: «Ai leader del No, onore e oneri: spetta a loro una proposta, prima di tutto in materia di riforma della legge elettorale». 
Brindano i consiglieri regionali, le cui indennità non saranno ridotte; si festeggia al Cnel, che non sarà cancellato; e tirano un sospiro di sollievo i senatori, che resteranno tali a dispetto di ogni riforma. Ma per il Paese si apre una fase di grandissima incertezza, col presidente del Consiglio dimissionario, il partito di maggioranza relativa in frantumi e il fronte dei vincitori - da Grillo a Berlusconi, da Salvini alla minoranza Pd - diviso, in disaccordo sul che fare e incerto sulla via da imboccare. Non si preannunciano giorni facili, e restano imperscrutabili le reali intenzioni di Matteo Renzi, che resta - per il momento - comunque segretario del Pd: partito senza il quale nessun futuro governo sarà possibile.
Si discuterà a lungo degli errori commessi dal premier nell’impostazione di questa campagna referendaria. Il più grave, forse, è aver personalizzato lo scontro, mettendo la testa su un ceppo che era lì, già ad attenderlo. Ma la sconfitta sembra venire da assai più lontano: e questo richiederà un’analisi dell’accaduto capace di andar oltre - ben oltre - l’accusa di personalizzazione di queste ultime, durissime settimane. 
Sono stati, infatti, 1017 giorni sulle montagne russe, con picchi altissimi - il quasi 41% alle europee del maggio 2014 - e vertiginose cadute di popolarità, come dopo l’approvazione del Jobs Act (dicembre 2014) o la riforma della scuola (luglio 2015). Ma tra una salita e una discesa, intanto, la popolarità del premier-segretario andava lentamente svaporando, portandolo - per la prima volta - a dolorosissime sconfitte. L’immagine del “rottamatore”, per metà sbarazzino e per metà cattivissimo, comincia a trasfigurare nel profilo di un leader che sembra sempre più solo contro tutti.
Nelle elezioni amministrative del 2015 arriva il primo allarmante segnale: il Pd perde la guida della Regione Liguria e della città di Venezia; e l’anno successivo - è storia di ieri - è sconfitto al ballottaggio dalle donne di Beppe Grillo (Raggi e Appendino) che conquistano Torino e addirittura Roma, notizia che fa in un baleno il giro del mondo. In tutta evidenza, qualcosa non funziona più nel racconto che Matteo Renzi fa del Paese e perfino di se stesso. E nel cuore della campagna referendaria, è lo stesso nocciolo duro del mondo renziano che lancia l’allarme e solleva un tema che pare banale e che forse - invece - è decisivo.
È Oscar Farinetti a strappare il velo di una certa, ossequiosa omertà: «Stiamo diventando antipatici - dice di fronte al popolo della Leopolda -. Dobbiamo tornare a essere simpatici e ammettere, qualche volta, di avere anche noi paura». È l’invito ad una correzione di rotta - di toni, prima di tutto - che però arriva troppo tardi. Mille e passa giorni a irridere gufi e pessimisti, professoroni e professionisti della tartina, hanno aperto un solco tra Renzi e mondi diventati ostili: ostili e pronti a presentargli il conto.
Si comincia a intuire che la spinta propulsiva del premier più giovane della storia repubblicana è ormai al lumicino: e la campagna referendaria, in fondo, è la cartina di tornasole del deserto che Matteo Renzi ha fatto intorno a sè. Dai sindacati ai partigiani, dai magistrati a pezzi importanti della cosiddetta intellettualità di sinistra, è un piccolo universo - un universo che lui considera «vecchia sinistra» - a sbarrargli la strada. Il premier-segretario prova a correggere la rotta: spersonalizza, sdrammatizza, tenta di ricucire dove è possibile. Ma ormai è tardi.
La grande campagna della “rottamazione” e il successivo attacco ai “privilegi” - da quelli dei dipendenti pubblici alle ferie dei magistrati, fino all’attacco frontale alla “casta” - si sono spinti troppo avanti in un Paese che intanto non vedeva migliorare la propria condizione e che da sempre - storicamente - guarda ai cambiamenti (soprattutto se radicali) con grandissimo sospetto. La valanga di No - no alla riforma, ma no anche a Renzi, alla sua politica, alla sua idea di Paese e perfino al suo stile - viene da molto lontano ma nasce da lì.
È la conclusione - definitiva o temporanea si vedrà - di una parabola che aveva acceso speranze e suscitato emozioni, in Italia e non solo. 
Da stamane si apre una pagina nuova, o forse antica: di certo, purtroppo, imprevedibile. E a Renzi, a notte fonda, non restava che riflettere sugli errori compiuti, passeggiando nei corridoi di palazzo Chigi sui mille cocci dei suoi sogni infranti.
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Il rompicapo di Mattarella Nessun esecutivo senza il Pd l’alternativa è andare al voto 

Oggi il Presidente vorrà capire le vere intenzioni del premier 

Ugo Magri  Busiarda
Per Mattarella si annuncia la prima vera prova del fuoco, una sfida da far tremare i polsi. Dovrà individuare in fretta il successore di Renzi, per evitare che sull’Italia si scateni la furia dei mercati. C’è una legge elettorale da rifare, un sistema bancario da mettere in sicurezza, un negoziato vitale con l’Europa da condurre in porto. Ma il Presidente non potrà contare sul concorso dell’opposizione, che anzi si scatenerà chiedendo di tornare al voto il più in fretta possibile. Tirerà la giacca del Presidente, lo sottoporrà a un pressing che già si annuncia sguaiato. È in fondo il destino di tutti gli inquilini del Colle nei momenti difficili: trovarsi da soli con la propria coscienza. Mattarella la seguirà senza protagonismi, chi lo conosce non ha il minimo dubbio.
Nessun «piano B»
Quando questo pomeriggio si troveranno di fronte, il Presidente chiederà a Renzi di scoprire fino in fondo le carte. La telefonata di ieri notte è stata troppo breve per capire se l’addio del premier è definitivo e irrevocabile, oppure a certe ipotetiche condizioni Matteo sarebbe disposto a tornare sui suoi passi: per esempio, al termine di un dibattito parlamentare che gli rinnovasse la fiducia della maggioranza tanto alla Camera quanto al Senato. Magari dopo avere accertato l’impossibilità di soluzioni diverse, con una squadra governativa tutta nuova, liberata dai pesi morti e dalle personalità più divisive. Mattarella chiederà a Renzi di mettere le carte in tavola perché può sembrare incredibile, vista la cordialità dei rapporti, eppure le reali intenzioni del premier sul Colle non sono note. Non lo sono in quanto l’ipotesi della sconfitta al referendum era rimasta finora sullo sfondo; mai che nei colloqui quasi quotidiani col Presidente fosse stato ipotizzato un «piano B». Renzi aveva sempre trasmesso l’impressione di potercela fare, e perfino negli ultimi giorni la narrazione di Palazzo Chigi aveva ruotato intorno alla rimonta straordinaria del SI, per cui la vittoria era fuori discussione. Al Quirinale ne avevano preso atto, né avrebbero potuto fare diversamente.
Il filo del Colle
Se per caso Renzi fosse disponibile a riprovarci, Mattarella ripartirebbe proprio da lui per una ragione precisa: sebbene sconfitto, il premier dimissionario resta pur sempre segretario Pd. Cioè leader del partito che da solo controlla un ramo del Parlamento, la Camera dei deputati. Non è una questione di preferenze ma di aritmetica: senza l’apporto renziano nessun governo potrebbe nascere. Dunque inutile girarci intorno. Le opposizioni griderebbe allo scandalo e contro un ipotetico Renzi-bis metterebbero in campo azioni di protesta; però sarebbe un percorso coerente con 70 anni di prassi costituzionale. Qualora invece Renzi se ne tirasse fuori, confermando fino in fondo le sue intenzioni, il Presidente sceglierebbe il successore sulla base delle indicazioni Pd. Ma cosa succederebbe se nemmeno il Pd gli desse una mano? A quel punto torneremmo inevitabilmente al voto. Sembra escluso che Mattarella voglia mettere in campo governi «tecnici», oppure «del Presidente», che non abbiano un chiaro ancoraggio nella maggioranza parlamentare. Il referendum ha detto NO alla riforma costituzionale e, indirettamente, ha travolto il premier; ma non ha fatto venir meno l’alleanza tra Pd e centristi. Quella c’è ancora ed è potenzialmente in grado di esprimere un governo. Ma come estremo atto prima di sciogliere le Camere, il Capo dello Stato pretenderebbe dal Pd una dichiarazione esplicita che dovrebbe suonare più o meno in questi termini: «Non siamo disposti a sostenere nessun governo, e ce ne assumiamo la responsabilità». Solo a quel punto Mattarella convocherebbe i comizi.
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L'Italia che ha detto No

È stato un voto anti-establishment, ha vinto la gente che non si fida più Sarà difficile per qualunque leader trasformare la protesta in consenso 

Mattia Feltri  Busiarda
La vittoria c’è ma i vittoriosi dove sono? Li si è cercati per tutto il giorno a Roma, e per il semplice gusto della conferma: non li si sarebbe trovati. Non fino a notte, in nessuna piazza, non c’era una sede di comitato o di partito, non c’erano luoghi di fermento al Testaccio o alla Garbatella né tantomeno in centro, già festival di luminarie ed esultanze per il derby che uscivano dalle birrerie. 
E invece - e non è nemmeno un paradosso - di sconfitti se ne trovavano, qua e là, dentro le loro trincee novecentesche, le stanze del Partito democratico al Nazareno, quelle del Comitato per il Sì a piazza Santi Apostoli, dove erano stati costruiti il successo e la breve vita dell’Unione di Romano Prodi; posti di attesa classica, dove a sera sarebbero arrivati i leader per i commenti all’impiedi a beneficio di questa o quella emittente televisiva, e il distacco è lì che appare in tutta evidenza. È una rivoluzione - piccola o grande lo dirà il tempo - senza manifestazioni oceaniche, senza popolo dietro a capopopolo, senza casematte attorno a cui radunarsi: e quanto aveva ragione Beppe Grillo quando anni fa, all’inizio dell’avventura a cinque stelle, lo chiamavano a casa cercando il segretario del Movimento e lui gli passava il figlioletto Ciro. È la sostanza stessa che non è richiesta: ieri Roma e il resto d’Italia sono state percorse e scosse dal complotto delle matite, sequel del complotto delle lavatrici denunciato dal sindaco Virginia Raggi, e di tanti altri complotti delle banche, delle lobby, della finanza, della Nasa, di grandi mostri calati sulle nostre teste ad avvelenare i pozzi. 
Le notizie infatti ci spingevano verso Castelnuovo di Porto, dove si tiene lo spoglio dei voti degli italiani all’estero, e dove quelli del Comitato per il No erano rimasti fuori, intanto che all’interno - spiegavano - si stavano consumando irregolarità fino al broglio; e poi alla scuola Garrone di Ostia, dove un insegnante denunciava, centesimo o millesimo di giornata, la truffa delle matite copiative, i cui segni su un foglio bianco venivano via con una gomma. E non c’era verso di spiegare che le matite copiative funzionano indelebilmente soltanto sulla carta delle schede elettorali. Erano piccoli epicentri della grande rivolta dove, quando li si raggiungeva, non c’era più niente perché intanto si erano spostati in un altro seggio, o in un altra città. E l’imprevedibile ed effimero leader di giornata è diventato Piero Pelù, il cantante dei Litfiba che ai tempi d’oro cantava «dittatura e religione / fanno l’orgia sul balcone». Perfetto inno per i sentimenti di oggi: il post su Facebook di Piero Pelù sulla frode di Stato ha avuto 62 mila like, 10 mila commenti, più di 100 mila condivisioni, e quella è stata l’unica vera grande manifestazione fisica del popolo degli infuriati, diretto ai seggi armato di gomma e foglietto bianco per verificare che anche il loro voto fosse falsificabile dalla planetaria associazione per delinquere.
Inutile farci sopra dell’ironia. Ha vinto la gente, il mare di gente che non si fida più, molto ben disposta verso l’inverosimile e diffidente verso il verosimile, per intima ed esasperante convinzione che là fuori c’è qualcuno che lavora alla sua infelicità, perché manca il lavoro, perché si indeboliscono le garanzie, per invidia sociale, perché l’investimento in banca è andato storto, perché ci sono i poteri forti, perché c’è l’Europa, perché c’è una classe dirigente che in quanto tale campa sulla pelle delle periferie, fisiche o esistenziali. Ognuno è partecipe di quella massa per una ragione diversa, e col minimo comune denominatore del rifiuto feroce dell’establishment farabutto, una condizione che non riguarda soltanto l’Italia, come raccontano di recente la Brexit e Donald Trump. 
Gli ultimi messaggi dell’unico vero tempio della rivolta - Internet - spiegavano le ragioni del No, e cioè per «mandare a casa il c... Renzi», perché se Napolitano vota Sì io voto No», perché «voglio un lavoro dopo anni di studio», perché «mio marito è precario», perché «le banche ricominceranno a essere dalla parte della gente», perché la dittatura e il fascismo eccetera. E tutto questo non ha bisogno di comitati e sale da trasformare in sale da ballo, non di leader perché è difficile immaginare che alla sommità della montagna siedano Massimo D’Alema o Pierluigi Bersani, o pure i più giovani e puri, come Matteo Salvini o Giorgia Meloni. Sarà probabilmente la vittoria di Beppe Grillo, il non capo del non partito che non ha sedi e nemmeno una struttura certa. E non c’è niente di più lontano dal senso di questa ribellione del raduno del Comitato per il No romano a San Lorenzo, il comitato dell’Anpi, di Gustavo Zagrebelsky, di Stefano Rodotà, della Cgil, del residuo più cospicuo e pensoso del Novecento, dove alle 23 di ieri sera si vedeva, finalmente, la prima parvenza di raduno in attesa che si ufficializzassero le indiscrezioni di trionfo del pomeriggio. C’erano Giovanni Russo Spena e Alfonso Gianni, volti che ai cornisti parlamentari raccontano di antiche stagioni dell’altro millennio. Ecco, la storia di oggi sembra avere molto più a che fare con il sito del Consiglio regionale della Toscana, colpito ieri mattina dagli hacker di Anonymous: sulla home page è comparso un manifesto con la scritta Sì, e sullo sfondo Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Denis Verdini, e con la scritta No, e sullo sfondo un’immagine di partigiani della guerra civile. Il volto della vittoria di oggi non è altro che il volto anonimo e digrignante di un uomo senza capi.
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una crisi senza precedenti 
Marcello Sorgi  SBusiarda
La crisi di governo che s’è aperta a tarda sera in diretta, man mano che affluivano i dati della vittoria del «No» al referendum costituzionale, è senza precedenti, perché, pur essendo chiaro il risultato delle urne, il Capo dello Stato si trova davanti due schieramenti, uno sconfitto ma all’interno del quale c’è ancora una maggioranza parlamentare e potenzialmente un governo, e uno vincitore ma non in grado di esprimere un’alternativa. Teoricamente, ma solo teoricamente, il presidente Mattarella, esaurito un giro formale di consultazioni, potrebbe chiedere a Renzi di tornare in Parlamento e verificare se ha ancora l’appoggio dei partiti che sostenevano il suo governo.
Ma questo cozzerebbe, prima di tutto, con la volontà di Renzi di accettare la sconfitta e farsi da parte, e poi con il senso esplicito del voto referendario: un «No» rivolto, non solo alla riforma, ma al premier che se l’era intestata e l’aveva difesa fino all’ultimo in una campagna forsennata e solitaria. Inoltre Mattarella dovrà tener conto che Grillo e il Movimento 5 stelle, cioè i veri vincitori di questa tornata, chiedono che si vada subito alle elezioni, senza formare un nuovo governo, ma lasciando in carica per gli affari correnti quello battuto nelle urne. Toccherebbe al Parlamento, in tempi brevissimi, varare una nuova legge elettorale per Camera e Senato, partendo dal minimo comune denominatore del proporzionale, il filo rosso che unisce gli alleati del «No», divisi su tutto il resto. Così, garantiti dal vecchio sistema della Prima Repubblica, che consente a tutti di andare di fronte agli elettori con le proprie posizioni e senza vincoli di accordi di coalizione, i partiti potrebbero ripresentarsi, ciascuno per conto proprio, nella prossima primavera, previo uno scioglimento delle Camere che il Capo dello Stato dovrebbe garantire non appena approvata la nuova legge.
Ma a raffreddare gli ardori dei vincitori, che non vedono l’ora di seppellire una volta e per tutte l’era renziana, stamane potrebbe essere l’apertura dei mercati finanziari, che già alla vigilia del voto avevano dato segni di inquietudine e potrebbero oggi manifestarli con maggiore intensità. La caduta del governo, infatti, non è solo un affare italiano e rischia di ripercuotersi in Europa con un allarme di cui il Quirinale non potrà non tener conto. Con la conseguenza che, difficile se non impossibile a un primo esame della situazione, la formazione di un nuovo governo potrebbe rivelarsi indispensabile, per evitare che il Paese precipiti nel baratro di una crisi economica, oltre che politica, dagli effetti devastanti.
Sul tavolo di Mattarella in questo caso potrebbero allinearsi tre ipotesi da verificare in tempi rapidi. La prima, calibrata sulla necessità di arginare i rovesci dell’economia, sarebbe di affidare la guida del governo al ministro Padoan, che avrebbe dalla sua la solidità dei rapporti intessuti con le autorità di Bruxelles e l’appoggio di Renzi, disponibile, sebbene non ufficialmente, a questa possibilità. Ma è inutile nascondersi che un governo Padoan in diretta continuità con quello uscente, senza novità di rilievo nella composizione, non verrebbe accettato dal fronte del «No», la collaborazione del quale serve per definire la nuova legge elettorale.
Di qui la possibilità che il Presidente della Repubblica, capovolgendo questa impostazione, cerchi innanzitutto di far cadere i veti alla nascita del nuovo governo scegliendo, com’è avvenuto altre volte, una personalità al di sopra delle parti, di rilievo istituzionale e in condizioni di gestire il difficile negoziato sul sistema con cui si dovrà andare al voto. In questo quadro, Padoan potrebbe anche restare all’Economia per garantire la continuità dei rapporti con l’Unione europea. Ma occorrerebbe stabilire chi, appunto, potrebbe guidare questa sorta di «governo del Presidente» che Mattarella invierebbe in Parlamento con il compito di stabilire prima di ogni altra cosa una tregua. Paradossalmente, lo schieramento del «No» è pieno di personalità istituzionali, basti solo pensare al drappello di ex-presidenti della Corte Costituzionale - Onida, Cheli, De Siervo, Zagrebelsky, Flick -, impegnati contro la riforma; ma è impensabile che Renzi, richiesto di dare a un governo come questo l’appoggio del Pd, per consentirgli di prendere il largo, possa rassegnarsi a uno sbocco del genere, che oltre a sottolineare la sua sconfitta gli farebbe carico di tutte le divisioni emerse durante la campagna referendaria.
Così, malgrado l’interessato abbia già allontanato altre volte da sé l’amaro calice, nella confusione della notte ieri tornava a circolare il nome del presidente del (redivivo) Senato Pietro Grasso. I suoi rapporti con Renzi, si sa, non sono idilliaci, ma Grasso ha alcune frecce al suo arco: ha condotto con equilibrio, portandola all’approvazione finale, la riforma che per i senatori significava tagliare il ramo sul quale erano seduti; ha alle spalle una quarantennale carriera di magistrato e una preparazione giuridica completa che gli consentirebbe di districarsi tra le pieghe complicate dei sistemi elettorali; ha un antico e solido rapporto con Mattarella, che data dai giorni tragici dell’assassinio mafioso del fratello del Capo dello Stato. E infine è stato eletto sullo scranno più alto di Palazzo Madama con pochi, ma significativi, voti del Movimento 5 stelle, che avrebbe qualche difficoltà a dirgli di no.
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La spallata del popolo della rivolta
Maurizio Molinari  Busiarda
Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di «No» l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro Paese di un popolo della rivolta che ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo.
Il quesito referendario ha coagulato attorno a sé il movimento di protesta che si era già manifestato in occasione delle elezioni amministrative ed ora si presenta maggioritario nel Paese. Tentare di ridurre tale espressione di scontento collettivo - presente in ogni area geografica - a sostegno di questa o quella forza politica sarebbe l’errore più grande.
A votare «No» sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti. Sono stati i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più. E’ un popolo della rivolta espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit, negli Stati Uniti ha portato alla Casa Bianca Donald J. Trump ed ora coglie un successo nell’Europa continentale che fa cadere il governo di uno Stato fondatore dell’Ue. Le dimissioni di Matteo Renzi e del suo esecutivo evidenziano la necessità da parte dei successori di dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio. Serve un nuovo welfare per le famiglie in difficoltà, una ricetta per rimettere in moto la crescita ed una formula per integrare i migranti: più tarderanno, più il movimento di protesta crescerà innescando un domino di conseguenze imprevedibili. Per far ripartire l’Italia non basta un nuovo governo: bisogna rispettare il popolo della rivolta e rispondere alle sue istanze.

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