giovedì 1 dicembre 2016

Un nuovo Reagan. Destra e sinistra sono tuttora le categorie fondamentali dello spazio politico


Ma oltre alla pace nel mondo multipolare, Donald Trump non sanciva quella fine della dicotomia destra/sinistra in direzione di una politica populista che era stata annunciata da Brexit e da Johnson e che avrebbe abbattuto l'establishment da Miami fino a San Pietroburgo, passando per una Parigi liberata dalla sinistra mondialista?
Cos'è questa storia di un giro di vite reaganiano?

Fermo restando che la colpa è in primo luogo della finta sinistra che dopo la fine della Guerra Fredda si è fatta destra, chi dice che destra e sinistra non esistono più vuole in realtà soltanto una destra più immediata, diretta e senza scrupoli.

Si consoli dunque Fukuyama, a cui il pregiudizio ideologico impedisce di comprendere di aver vinto [SGA].






Il ministro Lavrov: «La Russia è pronta a un nuovo disgelo con gli Stati ...





Boris Johnson: “Avanti con le sanzioni Putin smetta di provocare la Nato” 

Il ministro inglese: “Brexit? Saremo più forti ma l’Ue ci dia accesso al mercato unico” 
Alberto Simoni  Busiarda
Putin non può continuare a provocare la Nato e i suoi alleati, per questo le sanzioni devono continuare a mordere la Russia. Assad deve essere escluso da qualsiasi transizione in Siria, ha sulla coscienza 400 mila vittime in 5 anni di guerra. Il Regno Unito fuori dall’Unione europea sarà ancora più forte, «ma vorremmo piena libertà per le aziende britanniche di fare affari nella Ue in un sistema di mercato unico». A parlare è Boris Johnson, 52enne ex sindaco conservatore di Londra, volto della campagna per la Brexit - fu la sua discesa in campo a imprimere la svolta decisiva ai «brexiters» fino ad allora senza una figura carismatica da imporre come messaggero del sogno anti-Ue - e da quattro mesi ministro degli Esteri del governo di Theresa May. Il numero uno del Foreign Office è a Roma per i «Med Dialogues» e oggi sarà uno dei protagonisti del panel sulla sicurezza nel Mediterraneo. 
Ministro Johnson, le frizioni fra Cremlino e Nato sono sempre più frequenti. La Nato mobilita le truppe a Est lungo il confine russo e Mosca risponde mandando navi da guerra verso la Siria oltrepassando nel loro tragitto la Manica. Ha ancora senso continuare a implementare sanzioni visto che il Cremlino continua indefesso per la sua strada?
«Il sostegno della Russia ai separatisti nell’Ucraina dell’Est e le azioni in Siria a favore del regime di Assad hanno causato immense sofferenze umane. L’annessione illegale della Crimea non è stata dimenticata e le ripetute provocazioni verso la Nato e i suoi alleati non possono essere tollerate. Per questo è giusto continuare a respingere l’aggressione. Le sanzioni sono un’importante leva e comportano un costo per lo Stato russo. Noi tutti dobbiamo continuare a sostenerle».
Come si tratta con Putin?
«La Nato è principalmente un’organizzazione difensiva, è vitale per la sicurezza e la prosperità delle due sponde dell’Atlantico. Mentre è fondamentale restare forti dinanzi alle provocazioni; la Nato rimane aperta a un dialogo di sostanza con la Russia. Malgrado le divergenze, dobbiamo continuare a parlare con Mosca, incoraggiando cambiamenti laddove non vi è intesa e cercando la cooperazione ove è possibile. Ma questo approccio funzionerà solo se la Russia risponderà allo stesso modo».
Il governo britannico ha detto che fino a quando sarà parte della Ue non ci sarà spazio per una difesa europea alternativa alla Nato. Viste le sfide nuove del terrorismo jihadista, non crede sarebbe una buona idea che gli europei condividessero le capacità militari?
«È un’ottima idea, e peraltro già lo facciamo in ambito Nato. Per il Regno Unito e per i 22 membri della Ue che sono anche parte dell’Alleanza atlantica, questo organismo è, e resterà, il fondamento della nostra difesa collettiva. Concordo sul fatto che la Ue fronteggia numerose minacce comuni. È per questo che ho sempre dichiarato che il Regno Unito manterrà il suo impegno per la difesa e la sicurezza europea in collaborazione con i nostri alleati. Tra queste ultime vi sono gli sforzi comuni per migliorare le capacità operative e il coordinamento fra l’Ue e la Nato. Tuttavia, per poter davvero fare la differenza un maggior numero di Paesi europei deve raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil per la spesa militare, e spero che l’Italia si impegni a farlo».
Bruxelles non intende consentire a Londra l’accesso al mercato unico senza la libera circolazione delle persone. Vede spazi per un compromesso nei negoziati su Brexit?
«Non ho alcun dubbio che il Regno Unito prospererà una volta lasciata la Ue. Ma voglio anche una Unione europea forte, è negli interessi di entrambi. Come detto dal Primo ministro, vorremmo che le aziende britanniche avessero la massima libertà di fare affari e operare in un mercato unico consentendo alle imprese europee di avere reciprocamente lo stesso trattamento qui nel Regno Unito. Ma non rinunceremo al controllo dell’immigrazione e non accetteremo la giurisdizione della Corte europea di Giustizia. Questo è un negoziato che richiede concessioni reciproche ma ci sarà un accordo che riflette la relazione matura e collaborativa che si ha tra stretti alleati e amici».
L’uscita dalla Ue avrà ripercussioni anche sui rapporti con l’Italia? Come sono le relazioni bilaterali?
«I rapporti fra Regno Unito e Italia sono eccellenti, l’Italia è uno dei maggiori alleati internazionali e voglio rendere omaggio agli sforzi italiani per la pace e i temi della sicurezza. La cooperazione bilaterale e le affinità che ci accomunano hanno radici profonde e sono sicuro continueranno a rafforzarsi nel tempo. La decisione di lasciare l’Unione europea non cambierà questa realtà. Continuiamo a collaborare strettamente su una vasta gamma di temi, dalla politica estera, alla difesa alla sicurezza. Saremo felici di intensificare la cooperazione quando l’Italia occuperà il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e presiederà il G7 nel 2017».
Lei ha sempre espresso l’idea che Assad deve lasciare il potere. Nella loro prima telefonata, Trump e Putin hanno invece enfatizzato che gli sforzi congiunti contro Isis non possono fare a meno, almeno all’inizio, di Assad al potere. Può funzionare?
«La permanenza al potere di Assad è costata la vita a 400.000 siriani; il regime è responsabile per l’85%-90% delle vittime civili. La brutalità del regime - il ricorso a barili bomba, gli attentati con il gas-cloro, l’uso tattico dell’assedio per portare la gente alla fame - sono ripugnanti e incoraggiano la crescita di gruppi estremisti come l’Isis. Assad non è capace di unire il Paese e di riportare la stabilità. Una transizione politica senza Assad è l’unico modo per costruire un futuro stabile per la Siria».
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Il temibile squalo della finanza scelto per rilanciare la crescita 

Una vita di successi dalla Goldman Sachs a Hollywood 
Busiarda 1 12 2016
Uno squalo di Wall Street, che è riuscito a strizzare soldi dalla crisi economica del 2008, arricchendosi pure a Hollywood. Così gli avversari di Donald Trump descrivono Steven Mnuchin, l’uomo che lui ha scelto come segretario al Tesoro. Il presidente eletto però risponde che si tratta di una persona preparata, esperta di mercati, che sa come rilanciare la crescita e l’occupazione, e su questi obiettivi dovrà essere giudicato.
Mnuchin, 53 anni, si era laureato alla prestigiosa Yale University, quella dove Bill Clinton aveva conosciuto Hillary, e subito dopo era entrato nella Goldman Sachs. Per 17 anni aveva lavorato nella banca di investimenti, che durante la campagna elettorale Trump aveva definito la personificazione dell’elite finanziaria che «ha rapinato la nostra classe lavoratrice», diventando chief information officer. Sarà il terzo dipendente della Goldman Sachs a fare il ministro del Tesoro, dopo Robert Rubin con Clinton ed Henry Paulson con Bush, e questo non sembra presentarlo come il candidato migliore per «prosciugare la palude» della corruzione a Washington, come aveva promesso Donald durante la campagna elettorale.
Chiusa l’esperienza a Wall Street, infatti, Mnuchin si era trasferito in California, dove aveva acquistato dallo Stato per pochi spiccioli la IndyMac, una compagnia fallita che forniva mutui. L’aveva ristrutturata, aveva cambiato il nome in OneWest, e poi l’aveva rivenduta al Cit Group per 3,4 miliardi di dollari, incassando un notevole profitto. Nel frattempo era stato anche accusato di discriminazioni razziali, perché la sua azienda ostacolava neri, ispanici e asiatici in cerca di mutui.
In California Mnuchin si era concentrato poi sull’industria del cinema, finanziando progetti di grande successo come «Avatar», «X Men», e «Suicide Squad». Chiusa l’esperienza sulla costa occidentale, Steven era tornato a New York, dove oggi ricopre il ruolo di Chief Executive Officer dell’hedge fund Dune Capital.
Con un curriculum così, sembrava difficile puntare a gestire il Tesoro nell’anno elettorale caratterizzato dalla rivolta contro Wall Street, tanto fra i democratici con Sanders, quanto tra i repubblicani con Trump. Il suo profilo pareva più adatto a una candidata dell’establishment, come Hillary Clinton, con la quale infatti aveva avuto contatti. Quando Donald ha vinto le primarie di New York, però, Mnuchin lo ha appoggiato, e lui in cambio lo ha nominato direttore finanziario della sua campagna. Così si è sviluppato uno stretto rapporto di collaborazione e stima, che lo ha fatto prevalere su candidati al Tesoro come il Ceo di JP Morgan Jamie Dimon. 
Trump lo ha scelto, alla faccia del risentimento verso Wall Street che ha dominato l’umore degli elettori, perché lo considera la persona giusta per centrare i suoi obiettivi, cioé ridurre le tasse, eliminare le regole che frenano l’economia, favorire crescita e occupazione, e rinegoziare i trattati commerciali internazionali. Mnuchin pensa che la legge Dodd-Frank, approvata dopo la crisi del 2008, debba essere rivista, eliminando ad esempio la Volker Rule che frena le attività delle istituzioni finanziarie. Pensa che sia necessario tagliare le tasse, ma soprattutto alla classe media. I ricchi invece dovrebbero ricevere benefici dalla semplificazione del sistema, la riduzione delle aliquote da 7 a 3, e l’eliminazione delle complicazioni per le deduzioni. Lui viene dalla finanza mondiale, e quindi capisce l’importanza dei commerci internazionali, nonostante l’ondata anti globalista che ha spinto Trump alla Casa Bianca. Però condivide l’obiettivo di rivedere i trattati sugli scambi, come il Nafta, per renderli più favorevoli agli Usa e alle loro aziende.
La scelta di Mnuchin appare come un tradimento delle promesse fatte da Trump in campagna elettorale, ma il nuovo ministro del Tesoro ha detto che gli Usa possono crescere al ritmo del 3 o 4% annuo. Se ci riuscirà, ogni altro dubbio verrà cancellato.
[p. mas.]

come fermare l’avanzata dei populisti
Franco Bruni  Busiarda 1 12 2016
La vittoria di Trump stimola riflessioni sul populismo: di che cosa si tratti davvero, quali le cause e le reazioni più opportune. L’idea più diffusa è che globalizzazione e tecnologia, inadeguatamente governati, portino nel mondo vantaggi economici e culturali ma anche costi di cambiamento, generando vincenti e perdenti. I perdenti sono impoveriti e protestano. I politici populisti catturano la loro protesta e la scagliano semplicisticamente contro le élite e gli «stranieri», promettendo l’impossibile (quando non l’insensato) e guadagnando voti. Per rimediare occorre «compensare i perdenti», ridistribuendo reddito e ricchezza a loro favore, con tasse, trasferimenti (anche internazionali) e nuovo welfare, così da farli smettere di svendere i loro voti a chi li usa in modo opportunistico, inconcludente, a volte pericoloso. Diagnosi e ricetta sono state fatte proprie ufficialmente anche dal Fmi.
Circolano però altre idee, non incompatibili con questa. In un bell’articolo su Project Syndicate, il Nobel Robert Shiller dice che in Usa lo spostamento dei voti determinante non è stato quello dei poveri, per i quali una ridistribuzione di redditi potrebbe essere soluzione accettabile, ma quello «di chi si considera classe media e vuole che le sia restituito potere economico», di chi non vuole ridistribuzioni caritatevoli, ma «tornare a controllare la propria vita economica». Shiller arriva a fare un parallelo col marxismo, che metteva in primo piano una rivoluzione di potere. Conclude un po’ sconsolato perché è molto più difficile ridistribuire potere che denaro. 
Il mancato buon governo della globalizzazione e della tecnologia ha causato incertezza e un disorientamento che non colpisce solo gli ultimi. Il mondo si complica e l’elettore medio teme di perdere il controllo di ciò che conta nella sua vita. Non si fida delle indispensabili deleghe che deve concedere a chi decide lontano da lui. Perché mai, per suo conto, in sedi remote, qualcuno può fare accordi sugli ogm, sulla possibilità che falliscano le banche o che il lavoro sia sostituito da robot? Meglio non fidarsi, puntare sulla politica km zero e su forme di democrazia diretta. L’invidia dell’America più rurale per i privilegiati delle grandi città emerge dalle ricerche sul voto Usa e traduce la sfiducia nelle élite. Sfiducia che si ritrova in Europa, in forme diverse, nei populismi anti-Bruxelles. 
In parte i comportamenti spesso sprovveduti, ipocriti, autoreferenziali, eticamente riprovevoli delle élite pubbliche e private, politiche e finanziarie, professionali e intellettuali, meritano sfiducia e rottamazioni. Ma la crescente complessità del mondo è inevitabile. Cercare chiusure difensive non può che peggiorarne l’esito, per tutti. Governare la complessità richiede deleghe, a volte molto indirette, esercitate, con indipendenza, lontano dai deleganti di base. 
Le deleghe dovrebbero essere di qualità e con severo rendiconto, a scadenza, di come sono state usate. Dovrebbero perseguire quella cosa difficile da interpretare che è l’interesse collettivo; con i delegati che avvertono su di sé l’occhio dell’elettore medio, al quale il mondo moderno offre nuove opportunità ma sottrae potere diretto sulle condizioni della propria vita. Occorrerebbe riconquistare la sua fiducia nell’intelaiatura sempre più complessa del potere economico e politico.
Gli sgravi fiscali per i ricchi del programma Trump non rispondono al bisogno di ridistribuzione. Ma ancor più grave sarà la delusione di chi ha interpretato il suo «rifare l’America grande» come una promessa di tornar grande lui stesso, con più controllo su ciò che gli sfugge. Dovremmo comunque tutti impegnarci a non curare solo la povertà economica ma anche i complessi di inferiorità politica che rendono il nostro mondo sfiduciato circa virtù e capacità di chi lo guida. Il ridisegno delle forme di «governance» è compito urgente e congiunto di politologi, sociologi ed economisti, stimolati da cittadini capaci di guardare con più sincerità e profondità ai propri disagi. 
franco.bruni@unibocconi.it
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