domenica 29 gennaio 2017

Alle liste! Alle liste! Due versioni dello stesso Centrosinistra nelle assemblee parallele dei reduci di mille sconfitte



 Il nuovo Prodi non c’è, ma è tornato D’Alema: «Teniamoci pronti»
Democrack. Nasce Consenso e fa già il pieno di orfani del centrosinistra «Se si va al voto liberi tutti». Speranza: un Pd di servi non è Pd. L'ex premier: non si cambia politica senza cambio di rotta e, aggiungo con affetto, senza cambio di leadershipROMA29.1.2017, 23:59
Il centrosinistra stava cercando il suo nuovo Prodi, ma intanto ha ritrovato il suo caro vecchio D’Alema. Ma vecchio a chi? Per ascoltarlo nella sala dei Frentani, storica sede del Pci, si sono premuti in centinaia senzatetto della sinistra, orfani e vedove del Pd ante-Leopolda, cigiellini referendari, militanti della mitica base arrivati da mezza Italia in treno o con i pullman. C’è lo stato maggiore di Sinistra italiana, coté pro centrosinistra ma ci sono anche quelli a cui ormai la coalizione fa venire le bolle. Assemblea ordinata e old fashion, senza effetti speciali. Apre l’avvocato Guido Calvi, presidente dei comitati del No. Oratori pochi e scelti (Cgil, Arci, il giovane emergente Tommaso Sasso) chiamati sul palco dall’efficiente Piero Latino, giovane uomo-macchina ma vecchia scuola. Nelle prime file qualche antica conoscenza: Valdo Spini a cui l’ex premier fa un affettuoso omaggio (qui tutti si definiscono socialisti, un riconoscimento a chi era del Psi è il minimo), quel Cesare Salvi che nel ’98 D’Alema nominò ministro con l’indimenticabile «A’ Giospèn, facce vede».
D’Alema, al passato né a quello remoto dov’è indelebile il blairismo da cui pure si giura redento, né quello prossimo dell’impegno nel No al referendum: «Questa non è una celebrazione della vittoria, il dibattito lo hanno chiuso 20 milioni di persone». Anzi ora «il discrimine non è più fra Sì e No». Piuttosto fra Renzi sì e Renzi no. La scomposizione dell’«amalgama malriuscito». O meglio un fronte: l’Unione era contro il Cavaliere, oggi il Cavaliere è un’anziano signore malmesso ma ragionevole. E invece il giovane ex premier Renzi va in cerca della bella morte. O «dell’inciucione». D’Alema sfotte il suo ex allievo Orfini («Dice al voto al voto, come a Roma») e il capogruppo Ettore Rosato («La consulta ha confermato l’impianto dell’Italicum? Ci vorrebbe uno col camice bianco»).
«Questa è una riunione di lavoro», spiega il presidente di Italianieuropei, in cui i comitati del No si trasformano nell’associazione «Con-senso», scritta verde ma avrà in rosso il sottotitolo «per un nuovo centrosinistra». Nome temerario per una scissione (non ce n’è una andata bene a sinistra, a parte quella del ’21). Programma invece semplice e socialista: lotta alla diseguaglianza, crescita, diritti, lavoro. Zero merchandising, il vero brand è D’Alema. Che non lancia ancora un partito, cioè non apre il tesseramento – sarebbe tecnicamente la scissione dal Pd per molti dei presenti – ma invita significativamente alla raccolta fondi: «Dobbiamo essere pronti alle evenienze che potranno esserci». Manca la parola in codice dell’insurrezione. Ma non serve, perché è tutto alla luce del sole. Le evenienze infatti sono due e sono due piani A.
La prima è la «precipitazione» verso le elezioni con la legge elettorale uscita dalla Consulta che produce un altro parlamento di nominati. «Se ci troveremo di fronte alla sordità di un gruppo dirigente e prevarrà l’idea di andare ad elezioni senza un progetto politico e di governo, con l’obiettivo di normalizzare il Pd e ridurre i gruppi parlamentari all’obbedienza», avverte D’Alema, «allora deve essere chiaro: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero». No, non tutti, carica da consumato oratore: «Alcuni di noi, che ritengono di avere responsabilità nei confronti della sinistra italiana, non sarebbero neanche liberi di decidere. Avrebbero il dovere di agire».
La seconda  «evenienza» è che il governo Gentiloni vada avanti e che in novembre il Pd arrivi al suo congresso. E lì il fronte antirenzista se la dovrebbe giocare, ammesso che riesca a «fare sintesi». Non facile. Dal palco il candidato bersaniano Roberto Speranza si scaglia contro il «partito di servi» che si costruisce con le liste bloccate, «quello non sarebbe il Pd». La platea scafata sa bene che significa: decimazione delle minoranze nelle liste, Pd compiutamente renziano, scissione certa. E scatta l’ovazione. Ma parla anche Enrico Rossi, altro candidato alla segreteria Pd, anche lui vicino a D’Alema. E arriva il messaggio di Michele Emiliano, pure lui anti-renziano e pure lui tentato dalla corsa. È la sinistra, bellezza: uniti mai. D’Alema però non nutre fiducia nel buon esito del congresso: «Se alle elezioni si andasse con una lista che va oltre i confini…», ma sottolinea se. Si vedrà.
Per il momento raccoglie con pazienza tutto l’antirenzismo in circolazione a sinistra. Per tutta la mattinata resta seduto con il costituzionalista Alessandro Pace, presidente del comitato del No dei «professori». In sala c’è anche l’avvocato Felice Besostri, l’uomo che ha fatto saltare il Porcellum. Sul palco viene invitato a parlare il costituzionalista Roberto Zaccaria. D’Alema spende una buona parola persino per l’ex sindaco Pisapia che all’inizio aveva definito «fiancheggiatore di Renzi» mentre adesso – nota – «ha cambiato rotta». Fra «chi fa riferimento al centro sinistra» indica due partiti, «il Pd e Sinistra italiana». In realtà non è precisamente così. Dal palco parla Arturo Scotto, capogruppo e candidato a congresso, fan di un centrosinistra derenzizzato. Ma in platea circola Nicola Fratoianni, il candidato di Vendola il quale a sua volta in questi mesi ha criticato (autocriticato) praticamente tutto delle coalizioni a trazione prodiana, dalemiana e infine bersaniana. Ma questa sarà un’altra storia, quella del congresso del 17 febbraio.
Intanto la prossima settimana Consenso sceglierà un coordinamento. In attesa che Renzi faccia le sue mosse. Del resto così è andata la vittoria del No: ha fatto tutto Renzi. Ed è stato una benedizione. Per i suoi avversari.


Altra Europa: «Promuoviamo i comitati per il referendum sul lavoro» 
A sinistra. Promuovere la costituzione di comitati per il «Sì» al referendum Cgil per l'abolizione dei voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti e una lettera-appello per avviare un processo costituente rivolto alle sinistre e a chi si è impegnato per il «No» alla riforma costituzionale di Renzi. "La mobilitazione delle donne dell’8 marzo, del sindacato contro i voucher o quella contro l’austerità del 25 marzo pongono un problema: come intrecciare le istanze" 

Roberto Ciccarelli Manifesto ROMA 29.1.2017, 23:58 
Promuovere la costituzione di comitati per il «Sì» al referendum Cgil per l’abolizione dei voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti e una lettera-appello per avviare un processo costituente rivolto alle sinistre e a chi si è impegnato per il «No» alla riforma costituzionale di Renzi. Sono le iniziative emerse dall’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras ieri a Roma, mentre sullo sfondo ci sono le elezioni politiche. 
Le incognite sono tante, il paesaggio è caotico, e le prospettive nella sinistra politica – e non solo – sono tante e molto spesso divergenti. Dall’altra parte del mondo politico continuano a fiorire iniziative tra soggetti e piattaforme politiche diverse che porteranno, tra l’altro, alle manifestazioni di protesta contro l’austerità a Roma il 25 marzo, in occasione delle celebrazioni del sessantennale del trattato di Roma. 
In questo rebus, L’Altra Europa cerca una bussola e pratica la difficile politica delle relazioni. Parla di uno «spazio permanente» di consultazione tra reti, campagne e partiti alimentato dallo spirito del 4 dicembre. «Siamo ripiombati in un pantano democristiano – sostiene Massimo Torelli – È come se quel voto non ci sia mai stato. Per questo facciamo appello a chi si è mosso per difendere la costituzione». «La vittoria del No è stata popolare e non populista – aggiunge Alfonso Gianni – È stato sconfitto il populismo di Renzi. Nonostante l’assenza di rappresentanza, il 4 dicembre ha segnato un momento egemonico per la sinistra al punto che la costituzione antifascista è stata votata anche dalle destre». «Lo spazio della sinistra – ha aggiunto Anna Falcone, presidente dei comitati del No – è stato occupato da altri, ma nel referendum si è espresso. È stato un voto libero e non ideologico di persone che hanno capito che erano in gioco i loro diritti. Esiste un desiderio di partecipazione che va ben oltre la democrazia rappresentativa. Per non restare irrilevante, la sinistra può intercettarlo». Per Falcone la prospettiva è internazionale: «Le diseguaglianze non possono essere recuperate solo a livello nazionale». 
«La questione non sono gli accordi tra piccole forze o ceti politici, ma i problemi concreti delle persone. La sinistra non ne parla da anni, punta a rappresentare la sua identità piuttosto che parlare a quelli che dovrebbero votarla» sostiene Bia Sarasini. Più che cercarla all’interno di dinamiche asfittiche, la spinta si afferma fuori, ad esempio nel movimento delle donne che l’8 marzo organizzerà uno sciopero internazionale, tappa di un percorso iniziato il 26 novembre scorso contro la violenza sulle donne. In questa prospettiva, il referendum Cgil, quando sarà convocato, potrebbe rilanciare anche un discorso comune.«È un momento interessante perché la mobilitazione delle donne e quella del sindacato pone un problema generale: non ci si può occupare del lavoro o delle donne separatamente, ma bisogna intrecciare le istanze. L’8 marzo nasce da questa idea. E la Cgil ha bisogno di una spinta diversa da quella interna». «Il movimento femminista è la novità nel mondo che è cambiato con Trump – sostiene Eleonora Forenza (Rifondazione, deputata europea dell’Altra Europa – È un errore rinchiudere lo spirito del 4 dicembre nel problema dell’unità a sinistra. La priorità è l’agenda europea a partire dalla giornata del 25 marzo a Roma».

La scissione di D’Alema: “Congresso o liberi tutti” 

L’ex premier lancia Consenso e inizia a raccogliere adesioni e fondi “Se Renzi sarà sordo ciascuno si renderà pronto per ogni evenienza” 
Ugo Magri Busiarda
Nasce un movimento a sinistra che per adesso non vuole definirsi partito, però cerca adesioni e finanziamenti, apre sedi sul territorio, ha già un nome («Consenso»), un simbolo elettorale (a caratteri bianchi sul fondo verde) e soprattutto un volto: quello che si ama, o si detesta, di Massimo D’Alema. In un’ora di discorso, davanti a 600 supporter arrivati con i pullman, l’ex leader Pds-Ds non pronuncia la parola «scissione» perché l’ultimo strappo sapientemente spera che sia Renzi a provocarlo; tuttavia riduce al massimo la fatica dell’avversario. Gli serve il divorzio quasi su un piatto d’argento, formalizzarlo sarà una liberazione per tutti. Quel momento sembra vicinissimo. «State pronti alle evenienze che potranno esserci», avverte ammiccante. Se Renzi tirerà diritto, e precipiterà l’Italia verso nuove elezioni come scusa per fare pulizia etnica dentro il Pd, in quel caso «si renderebbe ciascuno libero». Non una semplice possibilità ma addirittura un dovere «per alcuni di noi che hanno avuto», segnala con la consueta modestia, «qualche responsabilità nella storia della sinistra italiana».
Profondo rosso
Già la «location» ha un che di nostalgico. Per quanto rimesso a nuovo, il Centro congressi Frentani era una volta la casa del Pci romano; sfidare proprio da quel pulpito l’eresia del rottamatore fiorentino sa tanto di viaggio nel tempo, quasi un ritorno al futuro. Inoltre D’Alema ha il vezzo di sfoderare chiavi di lettura modernamente marxiane, purgate dalla lotta di classe ma con l’occhio attento ai disastri della globalizzazione e alle diseguaglianze che il Pd, colpevole, ha perduto di vista: quanto basta insomma per mandare in estasi una platea dove i giovani sono rari come le mosche bianche, in compenso abbondano combattenti e reduci di mille battaglie, ex parlamentari (Livia Turco, Pietro Folena, Paolo Cento meglio noto come «Er Piotta»), altri che lo sono ancora ma figurarsi se Renzi li rimetterebbe in lista: da Roberto Speranza a Davide Zoggia, da Nico Stumpo al «maître à penser» bersaniano Miguel Gotor. E poi rappresentanze del sindacato, di quella che era una volta la vasta rete dell’associazionismo «rosso», mescolate ai comitati referendari «Scelgo No» che saranno la spina dorsale del nuovo «rassemblement». Perché D’Alema non mira a mettere su il solito partitino. Ambizioso com’è, si propone quale federatore della sinistra che non ci sta a snaturarsi; e prima di farsi cacciare dal Pd vuole pescare con le reti a strascico tutti i delusi, i marginalizzati, gli scontenti. Dopo, soltanto dopo lancerà un vero tesseramento perché le urgenze sono altre, «dobbiamo prepararci e organizzarci in ogni provincia, nelle città e nei paesi». Servono soldi per la campagna elettorale, bisogna trovarli, appositi comitati andranno costituiti in fretta. Una chiamata alle armi.
Tra Leopardi e Orazio
Di Matteo, Massimo non salva nulla, giusto le unioni civili e la legge anti-povertà che però «non è finanziata». Lo presenta come un Pulcinella che strappa all’Europa 5 miliardi per il terremoto e poi ne impiega solo 1,6; un dilettante che sfida Bruxelles ma fa solo il gioco dei Grillo e dei Salvini; che rischia di consegnare l’Italia a quei due, mentre «noi abbiamo rotto col nostro popolo». Invoca un cambio di politica e di leadership prima dell’ultimatum finale: Renzi la smetta di correre verso le urne e si tenga un congresso vero, aperto. Se invece «ci troveremo di fronte alla sordità», allora le strade si dividerebbero. Una minaccia condita dai sarcasmi taglienti che hanno reso celebre «Baffino». Prima umilia il presidente Pd Matteo Orfini, poi sberleffa il capogruppo Ettore Rosato: «Non so se il riso o la pietà prevale, come diceva il poeta». Non è l’unica citazione colta, perché ne sfodera una latina di Orazio. Però invece di pronunciare il verso esatto dell’«Ars poetica» («Quandoque bonus dormitat Homerus»), declama una variante meno nobile e di uso comune («Quandoquidem dormitat Homerus, ogni tanto anche Omero inciampa»). Con l’aggiunta compiaciuta: «Mi sfogo qui perché nel Pd non si può più parlare in latino». Che ignoranti.
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Il patto con i bersaniani “Se Matteo evita le primarie andiamo per conto nostro” 

Già pronti Emiliano o Bianca Berlinguer 
Carlo Bertini Busiarda
«Oh mi raccomando, acqua in bocca», sussurra Miguel Gotor nell’orecchio di Alfredo D’Attorre prima di sgattaiolare via. Il consigliere di Bersani saluta l’ex compagno di partito con un’ammiccante pacca sulla spalla e nel clima carbonaro di questa mattinata invernale nel tempio dei dibattiti a sinistra, confessa il motivo di tanta segretezza. Centro congressi Frentani, già sede per decenni della federazione romana del Pci. Si consuma qui un evento che nella liturgia comunista sarebbe stato impensabile e che riporta idealmente insieme due rivali come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. 
La data del 28 gennaio 2017 forse sarà ricordata come quella della ennesima scissione a sinistra e si può immaginare che il motivo di tanta segretezza invocato da Gotor sia il piano di esfiltrazione dal Pd preparato in ogni sua mossa. Si perché ormai i renziani di stretta osservanza parlano di Bersani e compagni come se fossero degli infiltrati al servizio del nemico e quindi il termine si addice a chi sta per mollare gli ormeggi verso la rive gauche della politica italiana. Anche se questa veleggiata andrà fatta passare come una cacciata dalla madre patria ad opera di Renzi. Bersani è rimasto a casa sua a Piacenza ma si fa sentire via Facebook con un post che suona come «ci siamo». Quando avverte con un salto logico che senza buttar giù i capilista bloccati si passa all’avventurismo, il segnale per chi deve intendere è chiaro.
Il piano è semplice, diviso in due mosse, come rivela Gotor. «Se Renzi farà prima del voto una sua “gazebata” cercando la legittimazione popolare, allora lo sfidiamo con un candidato premier che può batterlo». E qui Gotor si chiude a riccio, ma a sentire i meno riservati tra i colonnelli di Bersani assiepati in ogni angolo della sala, i nomi di Michele Emiliano e Bianca Berlinguer come possibili competitori vanno per la maggiore. «Se invece, come crediamo, Renzi non farà neanche le primarie per la premiership correndo dritto alle urne, allora ce ne andiamo con il popolo della sinistra, perché vuol dire che prevale l’avventura e la sovversione». Questo si apprestano a fare l’ex segretario e le sue truppe alla vigilia di una campagna elettorale infuocata, dove il cantiere della sinistra alternativa a Renzi conta di poter strappare anche un dieci per cento di voti con una formazione larga che proverà a coinvolgere anche figure come Pisapia. Un cantiere che andrà costruito con Sinistra Italiana («è un buon segno che qui oggi ci siano pure Fratoianni e la De Petris», sostiene D’Attorre nel ruolo di facilitatore della riunificazione) e con movimenti civici di varia natura, oltre che con lo zoccolo duro della «ditta» che sul territorio ancora vanta qualche postazione.
La bandiera sarà quella della battaglia contro i nominati, cioè contro i capilista che in realtà lasciano in mano a Renzi lo scettro del potere sulle candidature. Lo si capisce dall’ovazione che esplode fragorosa quando prima Massimo Paolucci, europarlamentare e poi Roberto Speranza, denunciano lo scandalo. «Attento Renzi, se il Pd diventa il partito dell’avventura non è più il Pd», ripete Speranza facendo il verso a Bersani nel refrain che incolpa Renzi di «snaturare il partito». «Noi siamo per combattere dentro il Pd», premette Davide Zoggia, «ma se ogni giorno gli spazi di democrazia interna si riducono, se non fa neanche il congresso, se non vuole modificare la legge elettorale per votare subito allora è chiaro che non c’è più il Pd». E allora? «Allora proviamo a farlo da un’altra parte». E quale sarebbe la linea di questo soggetto politico? Una linea più radicale sui temi del lavoro e dell’Europa, perché come si vede dall’affermazione in Francia e Gran Bretagna di leader più radicali, «con una politica troppo indistinta che prova a tenere dentro tutto non si battono i populismi». E quando sarà varato il nuovo vascello elettorale? «A marzo si decide».

La convivenza impossibile delle sinistre 

Francesco Bei Busiarda
Siamo dunque alla vigilia dell’ennesima scissione a sinistra? Un cittadino, interessato alla politica, che ieri avesse seguito (grazie Radio radicale!) la riunione romana organizzata da Massimo D’Alema non potrebbe che rispondere affermativamente. Come documentano i servizi nel giornale che avete in mano, l’ipotesi stavolta è tutt’altro che una forzatura giornalistica. Perché quando si invitano i militanti a «raccogliere adesioni», se non vere e proprie tessere, a creare «fondi», a tenersi «pronti alle evenienze che potrebbero esserci», il messaggio è sufficientemente chiaro. Con la minaccia esplicita che, se il Pd dovesse insistere per andare a votare prima della fine della legislatura, «renderebbe ciascuno libero». 
Libero, va da sé, di fondare un nuovo partito e provare a conquistare quel «Consenso» (questo il titolo della manifestazione di ieri e, forse, del nuovo soggetto politico) fuori dal partito democratico. 
Ora si può anche ironizzare sull’eterna coazione a ripetere della sinistra, su quel giorno della marmotta che è il ritorno dell’uguale, come nel celebre film con Bill Murray: perdi il congresso, minacci una scissione, cacci il leader che non ti garba. Ieri su Twitter era, come si dice, trend topic il nome di D’Alema. E molti dei commenti rammentavano appunto la storia del picconamento dell’Ulivo ai tempi di Prodi, della guerra a Walter Veltroni sfociata nella creazione dell’associazione Red, con tanto di tesseramento parallelo. Ma sarebbe sbagliato ridurre la giornata di ieri a un episodio di rancore personale fra D’Alema e Renzi. Se i due certamente non si sopportano, la verità è che il primo ha iniziato a tratteggiare ieri il profilo di una sinistra molto diversa da quella del fiorentino. Una sinistra lontana dal mito della terza via, che torna a «un pensiero progressista e neokeynesiano», una sinistra che guarda a pensatori molto critici sulle sorti del capitalismo e della globalizzazione, dal francese Piketty con la sua tassa globale sulla ricchezza, allo scomparso Anthony Atkinson, che oltre a più tasse per i ricchi (un evergreen che, dove è stato applicato in maniera significativa ha sempre portato alla fuga dei ricchi… o delle ricchezze) nei suoi libri suggerisce di dare più poteri ai sindacati e trasformare lo Stato in un «employer of last resort», offrendo «lavoro pubblico garantito». Questa è la sinistra che D’Alema ha in mente, si potrebbe anche definirla neomarxiana, un progetto «critico» che si ponga in Europa in maniera fortemente dialettica, costringendo in qualche modo l’Ue «a cambiare le regole, ad esempio dicendo che gli investimenti non si calcolano nel patto di stabilità». Ora, posto che sono passati almeno quattro governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) a tentare di convincere Berlino a cambiare questa regola, è legittimo sperare che un governo più «critico» e di sinistra possa riuscire dove gli altri hanno finora fallito. Di sicuro quella ipotizzata ieri è una traiettoria che non interseca più quella lib-lab del Pd. E forse è un bene se a sinistra, complice anche la legge proporzionale, i simili ritrovino i simili e si metta fine a questa convivenza forzata sotto lo stesso tetto.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


IL PERSONAGGIO. PRIMO INTERVENTO PUBBLICO DOPO LA SCONFITTA
Matteo, ritorno (quasi) zen così il leader Maximo diventa l’Innominato 

EMILIO MARRESE Rep
Cinquantasei minuti di discorso senza mai nominare D’Alema. Dev’essere più o meno un record, per Matteo Renzi tornato in pubblico da ex premier per la prima volta all’Assemblea nazionale degli amministratori locali del Pd. I riferimenti impliciti non sono mancati, all’avversario interno, ma si è rivolto quasi subito ironico alle decine di giornalisti sotto il palco: «Lo so che vi aspettate una risposta, peccato, v’è andata male». Il segretario ha ricevuto un’accoglienza calorosa nel Palacongressi stipato (oltre 1500 delegati) con 70 secondi di standing ovation al suo ingresso, puntuale alle 18 dopo esser rimasto rintanato nel backstage dalle 16.15, e trentotto applausi a punteggiare le sue parole e le sue battute prima di balzare giù dal palco alla fine, come il Ligabue scelto da colonna sonora della “leopoldina” romagnola, tra i sindaci fan a distribuire baci e abbracci.
Qualche chilo in più celato da un look marchionnico (jeans e pulloverino neri sui mocassini) e qualche livido ancora visibile, dopo la batosta del referendum: «La botta fa male – ha ammesso –: abbiamo perso una battaglia, ma i modi di reagire sono diversi. Qualcuno se l’è cavata con un Maalox dopo aver perso le Europee… ». Meno aggressivo e spavaldo della sua versione Chigi («Ho sbagliato per primo a presentarmi in quel modo» il picco autocritico con mano destra sul cuore), più ecumenico verso la sua base («Ripartiamo da voi, dalle città, dalle buone pratiche») e più autoironico: «Vado a fare la spesa e la gente si stupisce, poi chiacchieriamo un po’ e salta fuori che hanno votato no: eh, ecco perché son qui a far la spesa…».
Man mano Renzi ci ripiglia gusto e un po’ di cosette che gli erano rimaste di traverso non le trattiene. Contro i suoi detrattori, soprattutto il M5S e Grillo, «un salto nel buio che ti porta direttamente nel tunnel delle scie chimiche»: «Quelli che dicevano no alle Olimpiadi per il rischio corruzione e invece dicevano sì a Marra». La lista di “quelli che” è lunga: «Gli sciacalli che dopo una slavina, mentre io non riuscivo a smettere di piangere davanti alle immagini di quei bambini estratti dalle macerie dai vigili del fuoco, pensano di risolvere le cose cinque minuti dopo facendo tweet contro la protezione civile, anziché essere fieri di questi eroi comuni»; «quelli che si lamentano dei voucher e poi li usano per pagare i lavoratori». Anche al mai evocato D’Alema fischiano le orecchie invece quando parla di «quelli che prima temevano il rischio autoritario e ora le larghe intese: mettetevi d’accordo, no?».
Un’ora di discorso senza mai nominare il rivale. Nuova linea: meno spavalderie e più partito E spunta il golf alla Marchionne
Il tentativo è volare alto, in modo sprezzante e irridente, quasi dalemiano si sarebbe detto anni fa: «E’ in atto un gigantesco cambiamento radicale, basta vedere il potente giuramento di Trump o il presidente cinese che parla di libero mercato a Davos e quello americano di protezionismo: cose più importanti di qualche convegno a poche centinaia di chilometri da qui».
Attacca anche, grillizzandosi , l’ordine dei giornalisti: «Dov’è quando un giornalista in tv dice che un deputato va scuoiato?» (un fuorionda di Belpietro ndr). E scatena uno dei boati più fragorosi dalla platea.
Renzi si appende anche qualche medaglia a battaglia finita: «Nel 2016, tra poco avrete i dati, abbiamo recuperato più di 17 miliardi di euro dalla lotta all’evasione fiscale, un record, e nel 2015 14,9 miliardi, alla faccia di quelli che accusavano il governo di favorire gli evasori ». E poi le unioni civili, ricordando la mail che gli scrisse Franco – da poco scomparso - nel 2014 e che sei mesi fa si era sposato a Torino col compagno Gianni. Insomma, sì «potevo fare meglio» però, «però il compito di chi fa politica non è enunciare problemi ma risolverli e quando uno fa politica non risolverà mai tutte le cose. Ma io non mi iscriverò mai al partito dei catastrofisti e dei rassegnati, ma di chi vive per cambiarle le cose, spaccandosi la schiena per la propria comunità ». Chiude citando “Il Napoleone di Notting Hill” di Gilbert Chesterton: «Sapete, ora ho tempo per leggere…».
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L’ex premier offre una tregua a Bersani “Ma servono le urne sennò è la palude” 
Direzione il 13 febbraio, poi via alla campagna elettorale Telefonata a Speranza per dividere l’opposizione interna ed evitare il big bang

TOMMASO CIRIACO Rep
C’è un tempo buono per la pace e uno giusto per la guerra. E così, mentre Massimo D’Alema lancia l’opa sulla scissione della sinistra dem, Matteo Renzi torna a confrontarsi con Roberto Speranza. Una telefonata inaspettata, una “linea rossa” a un passo dal baratro. «Ciao Matteo », «ciao Roby», è l’esordio imbarazzato dopo mesi di gelo assoluto. C’è molta pretattica, naturalmente. Ma prevale un interesse comune: limitare gli effetti della scissione dalemiana. Ed evitare l’esplosione del Pd.
Il palco di Rimini dista 339 chilometri dal centro congresso Frentani di Roma. Lì, nel cuore di molte delle separazioni della sinistra comunista, D’Alema ha appena reclutato per una nuova battaglia i comitati del No al referendum. È pronto, raccoglie fondi per arrivare prima di Giuliano Pisapia a un nuovo partito alla sinistra del Pd. «Non abbiamo bisogno di richiamare i riservisti – picchia durissimo Debora Serracchiani - c’è chi lavora sempre alla scissione dell’atomo, senza produrre energia».
Quando le agenzie battono la minaccia dalemiana all’unità dem, Renzi è ancora lontano dal palacongressi della riviera romagnola. Chiama subito i fedelissimi e fissa la linea. «Non lo attacco, anzi neanche lo nomino », promette. E mantiene l’impegno, deciso piuttosto a incunearsi nelle divisioni della minoranza puntando tutto sul dialogo con i bersaniani, i più tiepidi sull’ipotesi di una scissione.
A metà pomeriggio Speranza mette piede nell’enorme emiciclo del palacongressi. L’accoglienza è sorprendente. Neanche un fischio, alla faccia della Leopolda pre-referendaria. Assieme a Nico Stumpo, l’ex capogruppo si arrampica fino in cima alla platea, quasi a voler restare in disparte. Ma a metà del cammino l’organizzazione li richiama e li fa accomodare in prima fila, perché così ha raccomandato il capo. Segnali, preparati con cura anche dal vicesegretario Lorenzo Guerini.
I rapporti tra Renzi e la minoranza restano pessimi, naturalmente. La fiducia reciproca è esaurita da tempo. E nel giorno della sentenza della Consulta, Renzi aveva riservato proprio a Speranza e Bersani i concetti più ruvidi: «Ora non sanno cosa fare – aveva confidato - sono in un angolo. Se vanno via, non raggiungono certo l’otto per cento al Senato…». Se invece restano, il sottinteso, dovranno bere l’amaro calice della minoranza e accontentarsi di pochissimi posti – meno di dieci - da capolista bloccati. Il quadro, però, è mutato in fretta. Per ottenere le elezioni di cui ha tanto bisogno, il leader di Rignano ha capito che è necessario tenere assieme proprio il Pd. Ed è pronto, per questo, a garantire anche la storia della minoranza bersaniana.
Si vedrà. Di elezioni Renzi parla pochissimo, dal palco di Rimini. Si concentra soprattutto sullo schema di campagna elettorale che ha in mente. Picchia duro su Grillo, attacca l’euroburocrazia e spinge al massimo sul voto utile. Tra le righe, però, attiva anche il timer elettorale, convocando per il 13 febbraio la direzione del partito. «Sarà allora – spiega in privato – che faremo capire di non essere disposti ad accettare la palude ». Sarà allora, soprattutto, che fisserà i paletti per tornare alle urne: un ritocco elettorale in tempi brevi, oppure elezioni. «La linea non cambia», sussurra il capogruppo Ettore Rosato.
Ecco il nodo delle prossime settimane, allora, quello su cui si giocherà la trattativa con la minoranza bersaniana. Elezioni in cambio di rappresentanza. In fondo, è quello che si lascia sfuggire a sera anche Speranza: «D’Alema e Renzi? Io lavoro perché non diventino due partiti diversi, ma Matteo deve evitare l’avventura elettorale a giugno. Sarebbe folle, ma se commettesse questo errore dovrebbe almeno convocare prima un congresso, oppure primarie per la premiership ». La partita per la sopravvivenza è appena cominciata.
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