venerdì 20 gennaio 2017

Arriva Trump. Media liberal atterriti e inconsolabili per l'uscita di scena dell'idolo Obama











Corriere della Sera

l’anglosfera di may e trump 

Dassù Busiarda 20 1 2017
Si insedia oggi alla Casa Bianca un presidente americano che apparentemente non crede più nelle virtù della Pax Americana – l’ordine geopolitico di libero scambio e sicurezza condivisa creato dall’Occidente alla fine della seconda guerra mondiale. A essere onesti, quell’ordine era ormai più che traballante; e da qualche decennio. Ma Donald Trump ha deciso di dirlo apertamente; nel momento in cui l’ha fatto – in forme rapide e brutali - ha anche chiarito che gli Stati Uniti giocheranno la nuova partita globale con regole diverse dal passato. E nel proprio esclusivo interesse, più che per conto di altri, europei inclusi. Per l’Europa, abituata a dare per scontato il legame con Washington, è una sveglia di proporzioni notevoli. Anche perché la combinazione fra Trump e la crisi europea cambia parecchio le cose. Lo si vede con Brexit. Nell’epoca di Barack Obama, Londra è stata priva di una sponda americana; Obama, senza peraltro riuscire, ha cercato di favorire l’Unione, non la disgregazione europea. Donald Trump sta invece dando alla premier britannica, Theresa May, non una mano ma due: un appoggio politico esplicito e un contesto per evitare l’isolamento britannico. La combinazione fra amministrazione Trump e Brexit – Trexit, per usare il gergo della politica internazionale - potrebbe infatti creare le condizioni per un’anglosfera del secondo millennio. Senza rispondervi in modo strategico, l’Unione Europea rischia di farne le spese. 
Il legame tra le due anime del mondo anglosassone è destinato a rafforzarsi. Se Trump guarderà prima a Londra e poi a Berlino, Theresa May – che ieri ha cercato di tranquillizzare il mondo finanziario di Davos sugli effetti di Brexit – tenterà di utilizzare lo spazio atlantico per rafforzare la sua posizione negoziale con l’Europa. Deregolamentazione, controllo dell’immigrazione e piena sovranità nazionale sono i punti di una visione politica condivisa – per vera o illusoria che sia. E contano i dati tangibili. L’anglosfera della finanza, del commercio, della difesa e dell’intelligence esiste già. Rappresenta il 26% del Pil globale e quasi il 40% della spesa militare mondiale. Troppo, per potersene disinteressare. E per potere pensare che l’anglosfera non tenderà ad attrarre altri: storicamente, l’Olanda ne ha sempre subito il fascino. Guardando agli equilibri extra-europei, un paese come l’Australia tenderà a considerarla un punto di riferimento, almeno in alcuni settori.
Negli Anni Ottanta del secolo scorso, Margareth Thatcher e Ronald Reagan gettarono le basi per la rivoluzione mondiale basata sul libero mercato. Oggi, Trump e May sembrano rivendicare una nuova cesura sistemica, di segno diverso. Tuttavia, la storia deve ancora dimostrare se Trump riuscirà a diventare un secondo Reagan; e fino a che punto la nuova coppia atlantica – per definizione asimmetrica - sarà davvero coesa. Trump guarda a un ordine post-globale (oltre che post-europeo): stando alle posizioni di partenza, tenderà ad adottare un approccio liberista dentro i confini americani ma almeno parzialmente protezionista al di fuori. La Gran Bretagna deve invece scommettere sulla capacità di ritrovare la propria vocazione come potenza commerciale. Il Regno Unito, come media economia aperta, spingerà per l’abbattimento delle barriere commerciali a livello mondiale, così da creare quanti più sbocchi di mercato per beni e servizi britannici. Al tempo stesso, Londra tenderà a recuperare attrattività – rispetto all’Europa continentale - attraverso la concorrenza fiscale. Esiste insomma una potenziale tensione nella nuova anglosfera; ne sarà un indice interessante la posizione rispettiva sul problema Cina. Potrà aggiungersi, in materia di sicurezza, un atteggiamento diverso sulla Russia di Putin. La tentazione di Trump sarà la ricerca di compromesso diretto: senza l’Europa e probabilmente senza Londra.
Fra convergenze e possibili vulnerabilità, l’anglosfera metterà in ogni caso alla prova l’Ue. Non solo sul piano economico ma strategico: per l’Europa continentale, una collocazione atlantica è ormai tutto meno che scontata. Questo significa, guardando alle scelte contingenti, che il negoziato con Londra non può essere ridotto alla gestione tecnica dell’articolo 50 sull’uscita dall’Ue. O all’idea che l’Europa debba comunque adottare l’approccio più duro possibile verso Londra, così da scoraggiare passi simili di altri paesi. Avendo il coraggio di guardare in faccia la realtà, il problema è anzitutto europeo: la perdita rapida della propria capacità di attrazione, sia all’interno che all’esterno. L’Unione europea, che è stata a lungo considerata una soluzione, è ormai parte maggiore del problema. Le debolezze strutturali della moneta unica sono ormai diventate debolezze politiche nazionali. Se l’Ue continuerà a negare l’evidenza, e se la Germania non sarà in grado di esercitare una vera leadership continentale, Brexit sarà solo l’inizio della disgregazione europea. 
Nata nel mondo atlantico del passato, l’Europa reagisce con troppa lentezza a cambiamenti drammatici e rapidi: fra nuove pulsioni dell’America di Trump, nuove ambizioni economiche della Cina di Xi Jinping e risorgenti ambizioni geopolitiche della Russia di Putin, l’Ue senza leadership rischia di restare ai margini di un mondo “senza ordine”- ma che un nuovo ordine se lo darà, in modo più o meno traumatico. Dal punto di vista europeo, mantenere i legami con l’anglosfera è preferibile alle alternative euro-asiatiche. Al tempo stesso, una vera disgregazione dell’Europa non conviene né agli Stati Uniti né alla Gran Bretagna. Theresa May lo ha ammesso in modo esplicito. Donald Trump appare molto più scettico sulle sorti europee; ma le sue posizioni, insegna la storia, tenderanno ad evolvere. Dipenderà largamente da quello che l’Europa sarà in grado di fare e non solo di dire. Più che accantonare la Pax Americana, è interesse condiviso ripensarla. 
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OBAMA, IL PASSO D’ADDIO CHE È GIÀ NOSTALGIA 

VITTORIO ZUCCONI Rep 20 1 2017
WE WILL be ok ». Ce la faremo. È con queste sue ultime parole, dette come il chirurgo che rassicura i parenti, come il genitore che conforta i figli davanti alla casa crollata, che Barack Hussein Obama ha salutato per l’ultima volta da presidente l’America.
UN’AMERICA che vive ore di vertigine, quasi di panico, di fronte all’inizio della “Era Trump”, oggi al mezzogiorno di Washington. Ora, improvvisamente, inaspettatamente, una nazione che lo aveva tanto odiato, un popolo che per anni gli aveva negato la legittimità costituzionale per quella sua storia famigliare e per il colore della pelle, che lo aveva demolito nelle elezioni parlamentari riducendolo all’impotenza dell’anatra senza le ali, si scopre angosciato al pensiero di averlo perduto. La popolarità di Obama, che aveva faticosamente galleggiato nella mediocrità, è schizzata ad altezze dove neppure Reagan e Clinton avevano volato al momento di andarsene, in proporzione inversa a quella del successore Trump, che stamani entra alla Casa Bianca con il peggiore indice di gradimento di ogni nuovo presidente da quando esistono i sondaggi. Sembra che dal grande, inquieto corpaccione della nazione divisa emerga quello che nel linguaggio del commercio si chiama il buyer’s remorse, il rimorso del consumatore che dopo una spesa folle, all’uscita dal negozio, si chiede, troppo tardi: «Ma che ho fatto? ».
In una democrazia costituzionale, in una nazione che sa di esistere non per unità di razza e neppure di lingua, ma per rispetto della legge costituzionale, non ci sono rimborsi o restituzione di merci avventatamente acquistate. Trump ha vinto, secondo le regole convenzionali di un codice elettorale anacronistico costruito per una nazione ben diversa, ma ancora perfettamente valido e Trump governerà, lasciando a quel 60 per cento di persone che oggi provano “il rimorso del voto” la amara e un po’ nevrotica consolazione di aggrapparsi alla nostalgia del passato, come esorcismo contro la paura del futuro.
Troppo tardi, con la sabbia della clessidra di otto anni ridotta agli ultimi granelli di poche ore, in molti scoprono di avere amato questo dignitoso, riflessivo, moderato, esitante professore di Diritto Costituzionale che passa la mano a una Star da Reality Show, un uomo che ha mantenuto la promessa della dignità ed è riuscito a riportare nel massimo ufficio della repubblica il rispetto sul quale ogni istituzione civile dovrebbe fondarsi. Duemila e 920 giorni sono trascorsi dal gelido 20 gennaio 2008 nel quale giurò di difendere la Costituzione «da tutti i nemici esterni e interni» e neppure un minuto di scandalo o un soffio di gossip lo ha sfiorato. Nessun sospetto di interessi personali o famigliari in conflitto con l’interesse pubblico ha toccato lui o Michelle e la sua dichiarazione dei redditi, quel documento che ancora Trump tiene incredibilmente nascosto al pubblico, mostra come la famiglia Obama abbia vissuto dell’appannaggio presidenziale, i 400 mila dollari lordi previsti dal Parlamento, e di diritti d’autore, pagando le tasse e rinunciando a parte del salario per beneficenza, non per esibizionismo politico.
Ma proprio perché il comportamento di quest’uomo, un politico nel senso più alto e rispettabile della parola oggi spesso strumentalmente insudiciata, è stato impeccabile, il pensiero di chi oggi gli succederà nel “Mezzogiorno di Trump” ha alzato un’ondata di nostalgia e di rimpianti inattesi e facili. L’Obama sbiadito e umano, imbiancato dalla neve del tempo che la mostruosa responsabilità di quell’ufficio accelera come gli anni dei cani, non è più, oggi 20 gennaio dell’addio, un leader politico, un presidente arrivato alla fine, un capo di governo che tanto ha cercato di fare e non poco ha fatto alla luce del disastro strategico ed economico ereditato otto anni or sono. L’Obama che cerca di calmare le ansie della famiglia americana (nell’ultima lettera di ringraziamento scrive «la parola più potente della nostra democrazia è we, noi. Come in We the People, We shall overcome e Yes, we can), di frenare la tentazione dell’angoscia che tanti sta afferrando di fronte al salto in un buio chiamato Trump, è un amico. È il compagno di viaggio che è stato con noi nel momento degli errori e dei successi e che oggi sentiamo di perdere, perché la sua avventura, come quella di tutti i predecessori, è finita. Il protagonismo degli ex, da oggi ben cinque, Carter, i due Bush, Clinton, ora Obama, è sempre velleitario, se non controproducente come dimostrò Bill, ingombrante sponsor di Hillary.
Mai, nelle transizioni presidenziali alle quali ho avuto il privilegio di assistere, dal passaggio fra Gerald Ford e Jimmy Carter nel 1977, l’ansia di vincitori e vinti, di predecessori e successori, era stata così acuta. E dunque così forte, un po’ nevrotico, era stato il sentimento di perdere qualcosa di conosciuto, qualcuno di familiare, in cambio di un tuffo nell’ignoto non di ideologie o filosofie politiche diverse, che sono la fisiologia dell’alternanza, ma di personaggi imprevedibili. Questo frenetico abbraccio che il pubblico ha offerto all’amico riscoperto che se ne va e questo abbraccio di ricambio che Obama ha dato parlando fino all’ultimo secondo con impeccabile dignità e con rispettosa umanità sono la sua ultima iniziativa politica, degna di un Costituzionalista qual è, per ricordare all’America che non sono gli uomini — un giorno le donne — a fare la nazione, ma è il rispetto della legge fondamentale della pacifica transizione. Chiunque sia il successore.
L’ultimo regalo dell’Amico Barack alla nazione che lo ha visto nascere come figlio di una donna single e di un africano di passaggio e lo ha portato alla massima magistratura, è in quelle quattro parole: « We will be ok ». Ce la faremo, l’America sopravviverà, non è “la fine del mondo”. Come avrebbe detto un altro grande leader del nostro tempo, «non abbiate paure». Tutto andrà bene. Speriamo. Grazie, amico Obama. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL CAMBIO ALLA CASA BIANCA TRUMP, L’ESORDIO DEL PRESIDENTE FRAGILE 

FEDERICO RAMPINI Rep
MR TRUMP, da oggi a tutti gli effetti President Trump. Ma quando comincerà davvero a “fare” il presidente degli Stati Uniti? Questa è la domanda di fondo che incombe sull’Inauguration Day. Gliela rivolgono l’America e il mondo.
È RESA più pressante e perfino drammatica dal clima isterico dei due mesi trascorsi dal voto dell’8 novembre. Il resto è dettaglio, sia pure suggestivo, rivelatore: la coreografia della cerimonia, il body-language, i volti e gli atteggiamenti del “popolo di Trump” venuto qui a celebrare l’insediamento del suo eroe. Per noi testimoni oculari sarà un bagno di folla in mezzo a tanti elettori “responsabili” di questa svolta inaudita. Ma perfino la folla trumpiana passa in secondo piano, nella giornata che gli appartiene. E per uno che sa qualcosa di palcoscenico, di reality-tv, c’è poco da dubitare: Trump farà di tutto per monopolizzare l’attenzione.
All’istinto dello showman saprà unire una lucidità politica adeguata, sulla sfida enorme che lo attende?
Non bisogna perdere di vista un dato essenziale. Per quanto dirompente, “rivoluzionaria” o “sovversiva” che ci appaia la sua figura, Trump arriva al suo insediamento in condizioni di debolezza estreme. Mai nella storia un presidente eletto aveva avuto tre milioni di voti in meno della rivale. Mai la sua legittimità era stata così contestata (neppure Bush nel 2000), con oltre cinquanta parlamentari dell’opposizione che disertano la cerimonia del giuramento. Mai l’ombra di una potenza straniera ne aveva macchiato l’elezione. Mai i sondaggi lo davano così poco popolare nel primo giorno, con segnali di ripensamento perfino tra i suoi. Mai così tante manifestazioni di protesta furono indette già prima o durante il passaggio delle consegne. Eppure, Trump durante la lunga e accidentata transizione dal 9 novembre ad oggi non ha fatto praticamente nulla per tendere un ramoscello d’ulivo a quella (più di) metà dell’America che non ha fiducia in lui o addirittura lo detesta, lo teme e lo disprezza. Quando comincerà, se mai la comincerà, quest’opera di riconciliazione nazionale che ogni presidente ha dovuto quantomeno tentare? Oggi, o mai più? Questo è il nodo che deve sciogliere in queste ore di cui sarà il protagonista assoluto. Altri presidenti recenti, Clinton, Bush, Obama, in quell’opera di riconciliazione ebbero risultati modesti o fallimentari. Ma dovettero provarci, almeno all’inizio dei loro mandati.
Si può obiettare — come fanno molti a destra — che i democratici stanno commettendo un errore strategico nell’intestardirsi sulla “illegittimità” di Trump: battaglia di retroguardia, quel che è stato è stato, Barack Obama ha autorevolmente riconosciuto il verdetto dell’8 novembre. Ma in questo momento non è l’opposizione a dover passare un esame. Alle accuse sul ruolo della Russia nell’elezione, o sui suoi conflitti d’interessi, o sulla vittoria “nonostante” i pochi voti, Trump ha reagito fin qui con toni permalosi, rancorosi, vendicativi. Non da presidente ma da narcisista ferito nell’amor proprio.
La vanità è una debolezza che ha rovinato altri leader prima di lui. La sua mania di twittare all’alba, per lo più insulti ai nemici, è divertente per chi si occupa di sociologia dei social media; ma rischia di logorare anche la sua fama di genio della comunicazione. Gli affari mondiali gestiti a colpi di tweet, con sterzate improvvise, effetti-annuncio poi rimangiati, docce fredde su alleati e rivali, capovolgimenti di schieramenti geostrategici? Bisogna vedere quali contromisure prenderanno gli altri, da Xi Jinping a Vladimir Putin. Trump rischia di apprendere la stessa lezione che ha incassato Hillary Clinton: nel mondo dei social media è più forte chi non ha un’opinione pubblica a cui rendere conto.
Dello stile Trump tutti dovremo imparare a prendere le misure. Alcune provocazioni, da parte sua, sono inevitabili. Un presidente voluto dagli operai del Michigan per difenderli dalle delocalizzazioni in Cina, ha il diritto di calpestare il Vangelo della globalizzazione. Poi dovrà pure disegnare un sistema alternativo, ma “questa” globalizzazione è una costruzione che ha un quarto di secolo, non sta scritto che sia irreversibile.
Un presidente eletto dai bianchi per restituire a loro un senso di controllo su chi entra negli Stati Uniti, sull’identità nazionale, sulle regole e i valori che devono governare la società multietnica, ha il diritto-dovere di proporre politiche dell’immigrazione diverse dal predecessore. Facendo astrazione dal folclore sul Muro e sugli “stupratori messicani”, Trump si riallaccia a tradizioni di controllo sui migranti che prevalsero fino agli anni Sessanta.
Un presidente isolazionista, che promette di ricostruire l’America anziché fare il poliziotto globale, è anch’esso nel solco di una certa tradizione di destra o di estrema sinistra (quella che avrebbe evitato di entrare sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale).
Ma Trump deve dire fin da oggi qualcosa per rassicurare ben oltre metà degli americani, fra cui una maggioranza di giovani e di neo-cittadini venuti dal resto del mondo, sul fatto che questa nazione resterà anche casa loro. Obama gli ha consegnato avvertimenti e consigli. Tra cui uno molto prosaico: «Fatti aiutare. Fai lavoro di squadra. La presidenza non è un mestiere solitario». C’è dietro quelle parole il vago presentimento che il President Trump potrebbe essere rovinato dalla presunzione di Mr Trump. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“Correggere la globalizzazione” La Brexit di May sfida la finanza 

La premier britannica a Davos traduce il modello del neoleader Usa Pronti accordi commerciali con dodici Paesi dall’America alla Cina 

Alessandro Barbera Busiarda 20 1 2017
La cena di mercoledì sera all’Hotel Belvedere le ha ricordato una regola aurea della politica: mai maltrattare chi potrebbe tornarti utile in futuro. Una volta per lei Davos era il regno dei «nowhere citizens», un modo per sfottere le élite globali che ogni anno si riuniscono sulle Alpi svizzere a discutere dei destini del mondo. Ieri Theresa May ha dovuto attraversare la Manica, venire nei luoghi dove venne a svernare Arthur Conan Doyle e spiegare le sue intenzioni ai banchieri più importanti del mondo, quelli che minacciano di lasciare Londra. Downing Street non commenta, ma nei corridoi di Davos nel giro di poche ore ha incontrato tutti o quasi: Goldman Sachs e Morgan Stanley, Barclays, il numero uno di Jp Morgan Jamie Dimon.
Il discorso di fronte alla platea del World Economic Forum si può riassumere così: la Gran Bretagna avrà un futuro globale anche fuori dall’Ue. Il discorso aveva due obiettivi. Il primo: alzare una palla dall’altra parte dell’Atlantico, dove oggi Donald Trump giura fedeltà alla Costituzione fra lo scetticismo di mezzo mondo. Il secondo era la City: convincerla che la Brexit può essere un affare.
Il discorso pronunciato al centro congressi di Davos è ben scritto ma carico di punti interrogativi. «Saremo il sostenitore più forte ed energico del libero mercato ovunque nel mondo». Dopo la Brexit avremo «un Paese coraggioso, fiducioso ed aperto». La May promette una Gran Bretagna globale «oltre l’Unione», ma non spiega come sia possibile allo stesso tempo chiudere le frontiere doganali ed essere paladini del free trade. «Il mondo sta sperimentando un livello senza precedenti di ricchezza» ma anche di diseguaglianze. «Se la causa è la globalizzazione, allora le élite devono affrontare il problema». Colei che molti definiscono la «nuova Thatcher» dice di voler restituire agli inglesi lavoro e dignità, ma non si mostra onesta quanto Trump nel gridare «Britons first».
L’accoglienza della City è piuttosto fredda. Il numero uno di Ubs Axel Weber fa sapere che in caso di «hard Brexit» la sua banca sposterà da Londra mille persone. Weber non è uno dalle minacce facili: quando capì che la Merkel avrebbe appoggiato Draghi per la guida alla Bce si dimise da governatore della Bundesbank. Annuncio fotocopia l’ha fatto l’amministratore delegato di Hsbc Stuart Gulliver, pronto ad allargarsi a Parigi. I Lloyds puntano a Francoforte, Goldman Sachs ha un piano per dimezzare i seimila dipendenti della City. Per non trasformare la «hard Brexit» in una «disaster Brexit» la May ha bisogno di un accordo onorevole con Bruxelles e di non perdere il passaporto comunitario per il mondo della finanza.
Wolfgang Schauble l’accusa di bluffare: «In Germania abbiamo un detto: il cibo che mangi non è mai caldo come quello che cuoci. Non credo possiamo iniziare un negoziato con le minacce». Quel «senza accordo con Bruxelles diventeremo un paradiso fiscale» sibilato dalla May a Westminster martedì ha fatto infuriare lui e la Merkel. «Le ho sentito dire che la Gran Bretagna vuole diventare una grande economia mondiale. Ma questo significa rispettare gli impegni contro l’evasione presi globalmente, ad esempio nel G20, altrimenti c’è una contraddizione. Noi non vogliamo punire Londra ma è ovvio che in questo caso il passaporto non sta più in piedi».
Il problema per Berlino e Bruxelles è che la May guarda oltre, ad un asse privilegiato con Trump e ad accordi bilaterali che potrebbero marginalizzare anche il G20. Il ministro del Commercio Liam Fox fa sapere di avere già contatti per la firma di 12 accordi bilaterali con Cina, India, Australia, Corea del Sud, Arabia Saudita, Oman e ovviamente Stati Uniti: né più né meno lo schema al quale pensa Trump. L’asse Londra-Washington potrebbe tornare solido come quello che governò il mondo alla fine della Seconda guerra mondiale. Twitter @alexbarbera BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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