domenica 29 gennaio 2017

E' partita la corsa alle liste del nuovo Centrosinistra




Pd, la corsa al voto rianima la scissione D’Alema all’attacco 
Renzi mira a blindare le liste, la minoranza: “Ci caccia” L’ex leader Ds trasforma in movimento i comitati per il No 

GIOVANNA CASADIO Rep
Bastano gli appuntamenti del fine settimana a fotografare il Pd com’è. Il segretario Matteo Renzi sarà a Rimini oggi, all’assemblea dei mille amministratori dem. Dice che non parlerà di legge elettorale e data del voto, ma di ambiente, sicurezza, delle liste d’attesa nella sanità: per sentirsi sindaco tra i sindaci. Nelle stesse ore a Roma i comitati “Scelgo No” al referendum costituzionale di dicembre, capitanati da Massimo D’Alema, tutt’altro che disposti a sciogliersi, si riuniscono in un Movimento, che avrà un nuovo nome: per la Ricostruzione del centrosinistra. Qui il parterre sarà affollato di leader della minoranza del partito, ci saranno Roberto Speranza, candidato bersaniano alla segreteria, e Michele Emiliano, il governatore della Puglia anche lui in corsa nella sfida a Renzi, il bersaniano Stefano Di Traglia e sindacalisti della Cgil.
In un clima sempre più surriscaldato dalla volontà di Renzi di andare a elezioni a breve, in primavera, e con una blindatura delle liste, il Pd fa i conti con una fibrillazione continua. E la parola scissione non è più un tabù. Se il segretario si irrigidisse nella sua strategia di corsa al voto, di liste bloccate e volesse davvero portare il Pd verso un listone da Alfano alla sinistra di Pisapia, allora la strada «obbligata » non può che essere quella della separazione.
D’Alema l’ha spiegato a più di uno tra gli invitati alla sua kermesse: «Se Renzi pensa di scoraggiare la possibilità di una scissione con soglie di sbarramento alte, come l’8%previsto per il Senato, si sbaglia. Perché noi supereremmo quell’8%. E al Sud prenderemmo più voti di lui». Insomma con liste senza sinistra, la separazione sta nelle cose.
Bersani e i bersaniani si muovono con più cautela. Ripetono sempre più spesso che il Pd deve cambiare, altrimenti è difficile sentirsi a casa propria. Non vogliono neppure sentire nominare l’ipotesi di un listone. Smentita del resto dallo stesso vice segretario dem, Lorenzo Guerini: «Sono scenari fantasiosi, mai pensato a un listone con dentro tutto e il suo contrario». Ma molti sono giornate in cui si tastano tutte le possibilità. La battaglia per le candidature dentro il Pd sembra già cominciata. Ai bersaniani che contestano la “riserva” di candidature del segretario, i renziani rispondono: «Ma con la segreteria di Bersani ci furono i pre-assegnati e a noi toccò l’8%».
Renzi invita a restare sul concreto: «La gente vuole le nostre proposte, non le nostre polemiche ». A Rimini Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ha preparato una scaletta di interventi che va da gli amministratori in prima linea nel terremoto a quelli che hanno saputo investire. Il segretario del Pd dirà che da qui si riparte da «una nuova classe dirigente di giovani preparati e con un forte radicamento sul territorio». Dall’altra parte - è l’affondo di Renzi - ci sono i soliti con le «solite vecchie discussioni ». Alla convention con D’Alema andrà oggi anche il bersaniano Miguel Gotor, che assicura: «Non andiamo via dal Pd, ma sfideremo Renzi e possiamo batterlo. La corsa alle elezioni è un errore, il Pd non può fare cadere il terzo governo guidato da un suo esponente».
Però tutto è in movimento. Francesco Boccia pensa a una raccolta di firme per chiedere il congresso anticipato del Pd: «Metteremo un banchetto anche a Pontassieve, sotto casa di Renzi». A Firenze l’11 e il 12 febbraio riunione dem organizzata da Cecilia Carmassi: «Complicato reggere liste blindate e la strategia annunciata da Renzi ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Pisapia, Alfano e l’incubo listoni via al valzer delle alleanze forzate 
Tutti a caccia di intese prima e dopo il voto: da Di Maio-Salvini a Renzi-Berlusconi il sonno della politica e le notti (agitate) degli elettori

STEFANO CAPPELLINI Rep
«SAREBBE un incubo un listone con il Pd, Alfano e me», scrive su Twitter l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. «Non esiste» risponde a stretto giro, sempre sul social network, lo stesso Angelino Alfano: «Non soffro di incubi. Ne ho avuti di peggiori e di migliori, ma mai uno uguale a questo». Anche se Pisapia e Alfano provano a garantirsi sonni sereni, allontanando lo spettro di un’ammucchiata elettorale, il tema delle alleanze innaturali, forzate o improvvisate è destinato ad agitare le notti di molti (elettori compresi). Troppo allettante la prospettiva di provare a conquistare il 40 per cento alla Camera, garantendosi un premio di maggioranza che, dopo l’eliminazione del ballottaggio da parte della Corte costituzionale, appare come un’oasi da raggiungere a ogni costo. Forse è solo un miraggio, ma poco importa: anche se la soglia restasse lontana per tutti, oggi guardarsi intorno a caccia di alleati è imperativo, dato che con quest’aria di proporzionale sarà il partito di maggioranza relativa a dare le carte. Una manciata di voti in più alla propria lista può essere decisiva per mettere il busto davanti agli altri sulla linea del traguardo elettorale e garantirsi di essere i primi a ricevere una telefonata dal Quirinale.
Nel Pd si pensa già a rispolverare i tempi degli indipendenti di sinistra, quando il Partito comunista infilava in lista intellettuali, artisti e scienziati per aggiungere al consenso ideologico quello più volatile dei ceti medi riflessivi, come allora si definivano gli elettori a caccia di una preferenza doc. Un ruolo che Matteo Renzi immagina perfetto proprio per un Pisapia, candidato ideale nel collegio di Milano, ma pure per una Laura Boldrini, altro nome che l’ex premier ospiterebbe volentieri per coprirsi a sinistra. A patto che, chiosa appunto Pisapia, le maglie delle liste dem non si allarghino per fare entrare pure centristi e post-berlusconiani vari. Perché la coperta delle alleanze è corta per definizione, e a tirare da una parte subito si scopre l’altra. «Ipotesi fantasiose », giura il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, spiegando che Angelino, alleato di governo, non sarà tale sulla scheda elettorale, almeno non sotto il tetto di un simbolo comune. Poi si vedrà.
Perché il risiko delle alleanze nella incipiente Terza Repubblica si dipana in due tempi, uno prima delle elezioni e l’altro dopo, quando chi avrà vinto le elezioni si ritroverà, quasi matematicamente, senza i voti che occorrono per governare da solo e dunque obbligato a rastrellarli in aula. Dice: ma forse, a sorpresa, i rapporti di forza nelle urne premieranno qualcuno più del previsto. E se Renzi sfonda di nuovo come alle europee del 2014? E se il M5S fa il botto? Ognuno immagini lo spariglio come crede, ma qualsiasi trionfo, per quanto possibile, resta comunque inutile. Se il Parlamento non vara una riforma nuova di zecca, al Senato si vota con il Consultellum: un proporzionale puro, su base regionale, che può esprimere una maggioranza chiara con le stesse probabilità che una slot truccata macini il jackpot. Se pure qualcuno si trovasse a governare saldamente la Camera, insomma, dovrebbe chiedere aiuto a Palazzo Madama.
Ecco perché nel M5S ci si agita tanto su un tema, quello delle alleanze post-elettorali, che a sentire i vertici è un’invenzione della stampa. Ma l’idea di escogitare formule d’intesa con la Lega è tutt’altro che fantasiosa e il primo a teorizzare possibili convergenze fu il consigliere comunale dell’Emilia Massimo Bugani, uno dei fedelissimi di Casaleggio. Un governo Di Maio-Salvini? Un incubo per molti grillini della prima fila («Dio ci scampi dalla Lega», ha pregato Roberto Fico prima di essere costretto a trangugiare l’olio di ricino del blog di Grillo) e della prima ora (come la pattuglia di pentastellati genovesi che hanno fatto fagotto: «Mai con la destra»).
Ma lo stesso problema ha in prospettiva Renzi, che a guardarsi in giro in cerca di sponde, rischia di trovare proteso solo il braccio di Silvio Berlusconi. Qualcuno, a microfoni spenti, spiega che l’intesa con Berlusconi è un prezzo ragionevole da pagare per evitare che il Paese sia governato a colpi di decreti sulla piattaforma Rousseau. Altri, con più velleità politologiche, si azzardano a teorizzare che, se i nemici giurati della Prima Repubblica- democristiani e comunisti - hanno fondato un partito insieme nella Seconda, qualche passo insieme nella Terza possono permetterselo pure quelli sinistra e berlusconiani - che hanno battagliato per vent’anni. Il gioco delle alleanze è appena agli inizi. E se il sonno della ragione genera mostri, quello del Parlamento sulla legge elettorale produce incubi per tutti i gusti.
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“Cerca la rivincita, è come un giocatore di poker disperato” 
Enrico Rossi: con me segretario, lui mai più premier E sul ritorno alle urne: “Drammatico votare adesso” 
Giuseppe Salvaggiulo Busiarda 28 1 2017
Toscano come Renzi eppure diversissimo, il mite Enrico Rossi, presidente della Regione e aspirante segretario del Pd, oggi parlerà all’assemblea convocata a Roma da D’Alema. «Vado ovunque si discuta. Anche Renzi mi ha invitato a Rimini, ma ho scoperto che dovrei parlare domani, quando lui se ne sarà già andato. Non mi pare un buon modo di discutere».

Condivide la reazione del Pd alla sentenza della Consulta?

«Renzi si comporta come un pokerista disperato, che raddoppia la posta dopo ogni partita persa. Dopo le amministrative, dopo il 4 dicembre, dopo la sentenza sull’Italicum. Sempre una rivincita. Ricominciare a correre verso le urne è una scelta drammatica. Per il Pd e per il Paese».

Si dice che l’opinione pubblica voglia le elezioni.

«Forse. Ma siamo sicuri che in questa richiesta non ci sia anche la volontà di dare il colpo finale a Renzi?».

Come giudica l’atteggiamento del Pd verso il governo Gentiloni?

«Pare che serpeggi il desiderio di ammazzarlo in culla. Renzi potrebbe passare alla storia come il segretario che ha fatto cadere due premier del suo partito».

Non si può votare con questa legge?

«La legge di risulta dopo la sentenza della Consulta è inadeguata».

Qual è la sua proposta?

«Dare un’agenda al governo: povertà, voucher, giovani, Casa Italia che per ora è una scatola vuota. Il Parlamento riscrive la legge elettorale e il Pd fa il suo congresso. Elezioni nel 2018».

Dell’ipotesi listone Renzi-Alfano-Pisapia che pensa?

«I listoni non funzionano, dai tempi della bicicletta Psi-Psdi. Gli elettori non si identificano. Noi dobbiamo puntare a ricostruire una coalizione di centrosinistra. Difficile, il campo è stato desertificato».

Si riparla di nuovo Ulivo.

«Non mi affascina. Perché parla al passato e al moderatismo in un orizzonte blairiano. Il mondo è cambiato, serve un riformismo radicale».

Perché lei vuol fare il segretario del partito, mentre tutti aspirano alla premiership?

«So di sembrare démodé, ma da lì bisogna ricominciare. Contro la logica del rapporto diretto leader-popolo e niente in mezzo. Logica che produce populismo, non democrazia».

Lei è mediaticamente meno esposto degli altri aspiranti segretari. È un problema?

«Stiamo girando l’Italia presentando il mio libro, abbiamo creato un’associazione, una rete digitale di 4000 persone, siamo presenti in 60 province. Stiamo crescendo. Le televisioni arriveranno».

Serve un candidato unico anti Renzi?

«La cosa peggiore è la santa alleanza anti Renzi. Lui se lo augura, è il suo terreno ideale».

Il suo libro s’intitola «Rivoluzione socialista». Anche questo démodé.

«Mi è venuto in mente ascoltando Bernie Sanders. Il socialismo richiama concetti chiave: lotta alle disuguaglianze, lavoro per i giovani, mercato regolamentato».

Non basta l’aggettivo democratico?

«Non connota, infatti il Pd è scolorito».

Bisogna cambiare nome?

«Per carità! Questa storia dei nomi ha stufato».

I partiti socialisti non se la passano bene, in Europa.

«Sono schiacciati tra un capitalismo che produce dolore sociale e la rivolta dei ceti popolari. Siamo all’ultima chiamata. Poi saremo travolti».

Nel Pd dicono che lei è un falso oppositore di Renzi.

«Perché sono stato corretto e non ho verso di lui l’astio di alcuni compagni, peraltro refrattari all’autocritica».

Né con Renzi né contro?

«Giammai. Io mi candido contro Renzi. Per tirare una riga sul renzismo. Con me segretario, lui non sarà mai più premier».

Che cosa gli imputa?

«All’inizio pensavo che la sua campagna nauseante fosse un errore di comunicazione. Lettura superficiale: l’errore è aver trasformato il Pd nel partito dell’establishment».

E lei che partito vuole?

«Un partito partigiano. Dalla parte dei perdenti della globalizzazione».

Tassa e spendi?

«Veramente quello che ha speso, e molto, è Renzi. Ma male. Incentivi non selettivi alle imprese, bonus a pioggia a fini di consenso».

E se Renzi svoltasse?

«Impossibile. Correva a tutta velocità, è caduto. A chi lo soccorre e gli consiglia di andare al pronto soccorso risponde risalendo sulla bici e pedalando ancora più forte. È l’immutabilità della natura umana, direbbe Machiavelli». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

La strategia Renzi per il voto attacca l’Europa e arruola i sindaci 

Oggi prima uscita pubblica dopo la sconfitta del leader Pd, convinto che il 40% sia raggiungibile A Rimini kermesse con messaggi su fisco più leggero e lotta alla povertà. Pronto un nuovo libro 

Carlo Bertini Busiarda 28 1 2017
È il giorno del ritorno in campo, quello fisico. E politico. Dopo il colpo del referendum, Matteo Renzi era tornato a mostrarsi all’assemblea del Pd del 18 dicembre, ma poi più nulla. Quella di oggi è la prima occasione per incanalare un progetto nuovo che rafforzi la sua leadership indebolita. Tutti si aspettano il colpo d’ala. Il corpo a corpo a Rimini con il suo esercito, sindaci, ministri, parlamentari e dirigenti del suo partito, con l’apparato locale più radicato, è la prima uscita che coincide con il fischio di inizio della campagna elettorale. Certo, questo evento di Rimini serve a Renzi per dire che si tenta la rivincita delle urne, ripartendo dai territori. Con la convinzione che il 40% non sia una chimera, che il Pd può farcela, come dimostrerebbero i voti incassati al referendum. Ma di date ed elezioni non farà cenno. 
Liste piene di sindaci
Non c’è solo la certezza che parlando unicamente di legge elettorale «si muore», per dirla con un suo stratega, ma c’è pure il tentativo di mostrarsi senza paramenti di Palazzo, di tenersi fuori dal Circo Barnum della politica. Dunque non parlerà delle polemiche romane e di partito, non parlerà di voto anticipato, alleanze e tatticismi. Anche per evitare un tema che comporta la fatica di dover staccare la spina ad un governo scaturito da una costola del Pd. Piuttosto vorrà dare l’idea di avere una strategia, di avere proposte precise per il Paese. La bussola per orientarsi in quello che sarà il canovaccio di Renzi sono i temi trattati in questa due giorni: ambiente, sicurezza, sanità, investimenti, lotta alla burocrazia. Storie concrete di amministratori con l’idea che dai territori può venire una nuova classe dirigente. Che guarda più ai problemi del Paese che alla durata della legislatura e ai vitalizi. Per questo la nuova squadra di candidati per il Parlamento sarà piena di sindaci: qualcuno, come il sindaco di Mantova Mattia Palazzi, entrerà in segreteria per dare il segnale.
La nuova segreteria
Del nuovo corso del Pd. Dove la pax delle correnti sul voto a giugno va cercata ogni giorno. Nella nuova squadra Renzi darà soddisfazione a tutti, Franceschini, «giovani turchi», sinistra di Martina. La squadra rinnovata ormai da giorni è decisa, ma per qualche casella non ancora al suo posto stenta a vedere la luce: di sicuro per ora c’è Nannicini al Programma, Fassino con la delega agli Esteri, Ermini alla Giustizia, Puglisi, all’Istruzione, Rotta alla Comunicazione, l’emiliano Andrea Rosso all’Organizzazione, Matteo Ricci agli enti locali. Tra i vari confermati, dovrebbe restare Emanuele Fiano ed entrare Matteo Richetti, ma non si sa.
Le tasse da tagliare
Di sicuro nella fase due del renzismo quella di Tommaso Nannicini emerge come figura emergente: l’economista, già sottosegretario a Palazzo Chigi, sta diventando più di un consigliere politico, una sorta di ideologo, «un po’ quello che fu Peter Mandelson per Blair», è l’esempio che risuona nel cerchio magico. Sarà lui a dare l’impressione di un profilo riformista del Pd, un Pd più attento al tema delle nuove povertà e dell’impoverimento della classe media, con un profilo sociale più affilato, per fare tesoro degli errori del passato. Saranno il taglio delle tasse e l’evasione fiscale però i temi centrali, oggetto di due appuntamenti cui parteciperà Renzi, organizzati da Nannicini.
Un colpo a Bruxelles
Renzi comunque oggi vuole suonare la riscossa: partendo dalle recenti sconfitte, proverà a rilanciare la richiesta di riforme nel Paese. E che sia il calcio di inizio della campagna elettorale lo si vedrà pure dal salto di qualità impresso nella dialettica con l’Europa: il tweet di Orfini dell’altra sera sulla «richiesta irricevibile» di Bruxelles rispecchia l’irritazione di Renzi contro l’Europa che ci chiede soldi in questo frangente.
Il blog e un Pd più social
Certo la scelta di circondarsi di sindaci e amministratori per la «rinascita» svela il tentativo di avviare se pur a fatica la stagione del «noi al posto di quella dell’io». Anche il suo nuovo blog con quella grafica vintage che suscita ironie pure tra i suoi, è la ricerca di piazze virtuali dove rimetter fuori la testa con ragionamenti più meditati e meno urlati, con toni non più arroganti e sempre ossessivamente vincenti. Pure il suo libro in uscita vuol essere un testo sui mille giorni di governo con una parte dedicata agli errori ed una alla ripartenza.
Vocazione maggioritaria
E la corsa a negare che sia possibile la nascita di un listone alle urne del Pd con Alfano e Pisapia muove dalla voglia di provare a vendere un Pd capace di rincorrere ancora una vocazione maggioritaria. Renzi batterà su questo tasto d’ora in poi. Ognuno va per conto suo alle urne e poi se ne riparla.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il congresso e il partito della sinistra comune   
La destra non vince perché il centrosinistra è diviso, ma perché la sinistra di governo ha fatto politiche di destra. Costruire l’alternativa non è una prospettiva minoritaria
Nicola Fratojanni Manifesto 28.1.2017, 23:59
Siamo ormai alla vigilia del Congresso fondativo di Sinistra Italiana. Sono convinto che si tratti di un appuntamento importante, per chi vi parteciperà direttamente e, spero, per un mondo più largo convinto che sia necessario in questo Paese dare nuova forza a una proposta della sinistra. Penso che, come in molti abbiamo detto all’indomani del voto del 4 dicembre, con la sconfitta della riforma Renzi-Boschi vada archiviata la stagione del governo del capo, frutto della lunga fase maggioritaria. Per questo sono convinto che Sinistra Italiana debba, prima che sui nomi, decidere quale strada intraprendere, quale sia la sua ragione fondativa, in quale modo dare gambe e corpo a un progetto collettivo e condiviso.
Da troppo tempo infatti, anche a sinistra, alla crisi dei partiti si è risposto con la scorciatoia dei leader, del marketing, dei comitati elettorali fondati magari su modalità discutibili di tesseramento. Occorre, innanzitutto su questo terreno, una svolta radicale. Tra di noi c’è chi dice che il problema da cui dobbiamo guardarci è l’autosufficienza identitaria e, se capisco, la conseguente composizione di cartelli elettorali fatti da sigle e siglette. Sono d’accordo. L’autosufficienza non è mai una risposta.
Ma credo che il nostro problema, il problema numero uno della sinistra in Italia e fuori dai nostri confini, sia un altro: lo svuotamento, se non il rovesciamento, delle parole che compongono il nostro lessico politico. Che vuol dire, per chi vive in questo paese, «centrosinistra»?
Che significa «riformismo», una parola che provoca ormai nei più la ricerca istintiva di un riparo contro una nuova espropriazione di diritti, di reddito, di dignità? Bisogna tornare a scrivere le parole del cambiamento, ridare credibilità a ciò che l’ha persa. Alla «politica» stessa, alla «sinistra» in particolare.
Serve dunque una cesura. Netta: il coraggio di mettere in discussione l’ordine del discorso. Occorre disertare dalla “sinistra” che ha scelto di misurare la propria utilità sul terreno della compatibilità di sistema. Occorre elaborare una proposta politica che abbia l’ambizione di delineare una alternativa di società. È una prospettiva minoritaria? È una rinuncia all’ambizione di governo? Non credo. Non è minoritario mettere in discussione un mondo in cui poche persone detengono la ricchezza della metà della popolazione, non è velleitario tornare a porre la questione della riduzione dell’orario di lavoro in un mondo in cui pochi lavorano sempre di più e in condizioni sempre peggiori e una stragrande maggioranza arranca tra la precarietà e l’esclusione. Redistribuire reddito, puntare sulla lotta ai cambiamenti climatici e a un modello di sviluppo incompatibile con la vita del pianeta, sono oggi proposte realiste, non promesse tanto belle quanto irrealizzabili come ci viene detto anche in quello che alcuni chiamano «campo progressista». Lo stesso vale per la scuola e per gli apparati formativi ridotti alla parodia di una azienda poco competitiva. Vale per quella che Arturo Scotto ha chiamato la rivoluzione delle donne, curiosamente associata alle imponenti marce contro Trump ma non alla splendida manifestazione del 26 novembre a Roma. Vale per il nostro continente, dove la retorica europeista non ci salva dalla regressione sovranista dei protagonisti del vertice delle destre europee che tanto ci spaventa.
Di fronte a questa paura non c’è nostalgia che tenga. Non ci protegge la riedizione di qualche formula antica. La destra non vince perché il centrosinistra si è diviso. Vince perché la cosiddetta sinistra di governo ha fatto politiche di destra. Vince perché il riformismo si è arenato nell’esaurimento dei margini di mediazione sociale causato dalla crisi e dalle scelte che ne hanno aggravato gli effetti. Vince perché l’ansia di esorcizzare lo spettro del populismo prevale, anche tra di noi, sulla necessità di interpretare e indirizzare le domande, pure ambivalenti, di un popolo provato e frammentato da quattro decenni di neoliberalismo.
Dunque occorre scartare. Il nostro congresso sia un passaggio: l’apertura e non la chiusura di un processo. Aprirsi è una necessità, non una concessione. Dovremo guardare con attenzione e curiosità a tutto ciò che vive fuori di noi. Prima di tutto, però, a chi con noi ha condiviso una scelta, un prendere parte – facciamo un partito, per l’appunto. Il 4 dicembre ha cambiato tutto: se lo pensiamo davvero, guardiamo innanzitutto a chi il 4 dicembre ha contribuito a questo cambiamento. Alle mille sinistre, come dice Montanari, che vivono e crescono lungo la penisola, alle sinistre politiche, a quelle civiche, e quelle sociali. Con loro dobbiamo formulare un progetto, per cambiare i rapporti di forza. Non per esistere. Non per uno spazio nel “panino” dei telegiornali.
E poi cura. Cura del partito. Tornare a immaginare l’organizzazione come una dimensione non burocratica ma vitale. Il partito come un mezzo, uno strumento collettivo. I gruppi dirigenti tornino a misurarsi col consenso degli iscritti, dei militanti. Abbiamo bisogno di imparare, nuovamente, il senso della verifica. Sulle grandi scelte, quelle che segnano il destino di una comunità si torni a chiedere alla nostra comunità di esprimersi, prima e non dopo, in modo vincolante. È una cosa semplice, ma allo stesso tempo difficilissima, dopo anni passati a fare il contrario. Ci pone il problema della legittimazione continua delle scelte. Gli eletti tornino, tutti, a contribuire economicamente alla vita del partito. Mettiamo le risorse a fattor comune, non solo per finanziare la nostra attività ma anche per dare gambe a forme di nuovo mutualismo. Lì c’è l’ossigeno per una sinistra utile. Vorrei un partito impegnato a riconquistare la società prima della società politica. Questo viene prima dei nomi, dei ruoli, degli incarichi. Certo le persone contano. Siano le compagne e i compagni a decidere chi sia più indicato/a a svolgere una determinata funzione. Ma sia il che fare, come farlo e con chi farlo a venire prima.


Tocci: la sfida a Renzi oggi si può vincere, ma il campo non è solo il Pd 
Democrack. La proposta: «Apriamo il partito, no un congresso chiuso in se stesso» Oggi la rentrée del segretari. D’Alema a Roma riunisce i suoi. La babele antirenziana. L’ex premier tesse la tela per avvicinare gli sfidanti Ma non è esclusa la nascita di un partito di orfani della sinistra e del Pd ante-Leopolda 

Daniela Preziosi Manifesto 28.1.2017, 23:59 
«La leadership di Renzi oggi può essere battuta. Un’alternativa ci può essere. Ma non è una partita che si gioca tutta all’interno del Pd così com’è oggi. Questa sfida la si può vincere soltanto se si allarga il campo di gioco». La proposta è del senatore Walter Tocci, uomo «del No» e critico rigoroso della stagione renziana. Rimbalza da qualche giorno, in versione di bozza di ragionamento, nelle mail dei «compagni» in via informale. È venuta allo scoperto giovedì a Roma durante la presentazione del libro «Rivoluzione socialista» di Enrico Rossi davanti a un folto gruppo di democratici romani. Tutti ormai convintamente antirenziani. 
Un passo indietro: il libro è il programma con cui il presidente toscano si candida a segretario del Pd; ma se la situazione precipitasse verso il voto «correrò anche da candidato premier», ha spiegato senza giri di parole. Nell’occasione Tocci ha pronunciato grandi elogi alla proposta di ritorno al socialismo di Rossi. E ha esposto con discrezione la sua proposta, sulla falsa riga della «coalizione civica» che aveva lanciato a Roma per il Campidoglio, ricevendo una porta in faccia dal Pd romano. Stavolta la scala è nazionale. Si parte da un programma politico decisamente declinato al sociale e alle redistribuzione, «non un discorso da minoranza ma da grande forza di governo». «Dopo una sconfitta ci stiamo preparando a un voto decisivo che può avere esiti molto preoccupanti», è l’incipit, «Al punto di difficoltà in cui siamo, piuttosto che arrenderci a questa coazione alla sconfitta, neppure noi che abbiamo svolto una critica possiamo dire ’avevamo ragione’. Anche noi dobbiamo metterci in gioco». In concreto: «Dobbiamo uscire dalla contrapposizione Renzi-minoranze, dobbiamo riportare il dibattito alle questioni di fondo. Uscire dall’isolamento che Renzi ha costruito intorno al Pd, politico e sociale; e anche empatico. Lavorare tutti insieme non a una conta congressuale, ma a allargare il campo per riconciliare il Pd con quello che c’è intorno al centrosinistra. Qui si può costruire una sfida alla leadership». 
L’ottimo sarebbe «ripetere con un segno diverso l’operazione che ha fatto Renzi nel 2013, quando ha vinto la leadership aprendo il Pd, chiamando nell’agone aspettative, ambienti, elettori che non erano nel Pd. Ma questo», è l’avviso finale, « richiede una messa in discussione di tutti noi». 
E qui arrivano i dolori. Le minoranze democratiche si preparando ai prossimi appuntamenti in confusa e disordinata separatezza, Ed è chiaro che in assenza di una regia comune, qualsiasi sfida a Renzi è velleitaria. Roberto Speranza prosegue il suo giro per l’Italia in vista del congresso. Altrettanto fa Enrico Rossi. Entrambi oggi – ma non Tocci – saranno all’assemblea dei comitati del No di Massimo D’Alema, che stamattina nella storica sede del Pci romano di via dei Frentani (ora è un centro congressi) si trasformeranno in «comitati del nuovo centrosinistra» e partiranno lancia in resta per battere Renzi. L’ex premier, che farà le conclusioni, sente spesso Speranza. Ma anche Rossi è della sua «famiglia» di ex Pd. Così come il quotatissimo ministro Andrea Orlando, vicino a sua volta anche all’ex presidente della Repubblica Napolitano. Orlando è papabile per le primarie, anzi è l’unico che potrebbe ricevere il risolutivo appoggio dei centristi del Pd.
Riuscirà l’ex premier a mettere insieme le anime concorrenti contro l’avversario comune? Pietro Folena, vicino a Rossi ma soprattutto tornato a fianco di D’Alema nei comitati del No, è sicuro che si può fare. «Dobbiamo creare un network aperto che incroci la ricerca di una nuova identità socialista, un neosocialismo lontano dal moderatismo di questi anni,il campo di chi è convinto che il lavoro, la giustizia sociale e l’inclusione siano il nuovo glossario democratico. 
Per scendere dalla teoria al ground zero della manovra politca, tutto dipende dalla data del voto e dalla legge elettorale con cui si andrà a votare. Qualcosa di più si capirà dai toni della rentrée di Matteo Renzi oggi pomeriggio a Rimini all’assemblea degli amministratori. Quella dalemiana per ora è una centrale di iniziativa antirenziana. Ma in caso di legge proporzionale potrebbe sfociare in un partito che raduni gli orfani del centrosinistra e del Pd ante-Leopolda. O viceversa trasformarsi in una «massa critica» che entri a gamba tesa nelle primarie del Pd, quelle per la premiership in caso di voto anticipato, quelle per la segreteria in caso contrario. 


“Non andrò contro Renzi” Il premier sceglie il partito e si prepara alle elezioni 
Il presidente del Consiglio, nonostante alcune perplessità, ha deciso di non opporsi alla linea che punta al voto e rivendica l’azione del suo governo in continuità con il precedente

CARMELO LOPAPA Rep
«Io tutto posso fare, tranne che mettermi contro il mio partito». Il Consiglio dei ministri lampo è terminato da pochi minuti, Paolo Gentiloni sta lasciando Palazzo Chigi per volare a Madri, per il bilaterale col collega Mariano Rajoy, e rassegna questa considerazione secca a chi nel governo lo avvicina per chiedere lumi. Perché lo scontro aperto coi gendarmi dei conti di Bruxelles ormai non consente neutralità: o si cede sulla manovra correttiva da 3,4 miliardi che la Commissione vuole imporre o ci si mette in trincea e si indossa l’elmetto della resistenza ai rigoristi. Come ha già fatto il segretario Matteo Renzi, virtualmente in campagna elettorale.
Ecco, il presidente del Consiglio ha deciso di stare col suo leader. Nonostante qualche perplessità e la maggiore cautela del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ha cercato di tenere il punto all’Ecofin di ieri. Una nuova manovra sarebbe «depressiva », come Gentiloni l’ha poi bollata nella conferenza stampa al fianco di Rajoy. Al massimo, nell’ottica di Palazzo Chigi, si può ricavare qualche soldo intervenendo su voci di bilancio inutilizzate o marginali, ma nulla che possa richiedere un intervento legislativo in piena regola. Figurarsi una manovra bis. È la “linea Maginot” tracciata da Renzi e che sul piano politico segna una spinta ulteriore verso il voto anticipato, alla quale l’ex ministro degli Esteri ha deciso di non opporsi. La battuta con la quale ha chiuso il Consiglio dei ministri del mattino del resto è destinata a diventare un po’ lo slogan del suo esecutivo: «Noi qui non facciamo politica, ci occupiamo delle cose da fare», ha tagliato corto a chi tra i ministri gli chiedeva che fare dopo il pronunciamento della Consulta sulla legge elettorale. La parola passa al Parlamento e ai partiti, è la posizione dalla quale Gentiloni non intende recedere.
Nessuna forzatura, ma la bussola del segretario del suo, di partito, segna ormai voto a giugno. «Adesso dobbiamo stare attenti a non trascorrere questo periodo lasciando a Beppe Grillo la possibilità di dettare l’agenda politica — va ripetendo Renzi alla cerchia ristretta che lo affianca alla convention di Rimini — dal referendum in poi sono stati sempre loro a imporre i temi. Dobbiamo ricominciare a farlo noi». E il braccio di ferro contro l’Europa rigorista e contabile è un argomento ghiottissimo per la campagna elettorale che ha in mente. Contro Bruxelles che non è disposta a riconoscere nemmeno l’eccezionalità del terremoto, che si ricorda a giorni alterni del lavoro compiuto sull’immigrazione. Pierre Moscovici, il commissario responsabile del controllo sui bilanci, e gli altri rigoristi da questo punto di vista diventano “bersagli” perfetti. E la risposta che il governo italiano ha garantito a Bruxelles entro il primo febbraio segnerà proprio la linea della resistenza rispetto a una manovra da 0,2 per cento del Pil che — verrà spiegato da Padoan — non avrebbe a Roma nemmeno i numeri per essere sostenuta in Parlamento.
Già, perché in un gioco di sponda tutt’altro che casuale, al termine di un giro rapido di telefonate, il ministro degli Esteri Angelino Alfano in piena intesa ormai con Renzi ha fatto alzare la voce ai suoi uomini contro qualsiasi ipotesi di ritocco ai conti. «Un’ipotetica manovra chiesta dall’Europa potrebbe pure essere portata in Parlamento, ma noi non la voteremmo mai e senza di noi non c’è maggioranza», annuncia con schiettezza il capogruppo Ncd alla Camera, Maurizio Lupi. Niente manovra e ventre a terra per aiutare le popolazioni colpite dal sisma. Sembrano le parole d’ordine di Renzi, le pronuncia l’alfaniano Lupi. Come un gioco di squadra. La squadra del voto anticipato.
Certo non basterà opporre un no ai “burocrati” della Commissione per risolvere i problemi in un quadro che per Roma resta complesso. L’Italia che perde anche l’ultima “A” delle agenzie di rating, la Bce che inizia a stringere i cordoni degli aiuti, lo spread sui Bund tedeschi tornato a crescere. Come se si fosse ripiombati in un clima di instabilità politica della quale invece il premier Gentiloni non vuole sentire parlare. È l’unica risposta quasi piccata che dà a chi la ventila in conferenza stampa a Madrid: «In Italia non c’è alcuna instabilità, c’è un governo passato purtroppo attraverso la sconfitta del referendum, che lavora in continuità» con chi l’ha preceduto. Intanto, ed è quello che sta tentando di fare il ministro Padoan, ci sarà da evitare la procedura di infrazione. Un passo — ed è quello in cui confida il dicastero di via XX Settembre — che non solo l’Italia ma anche Bruxelles non potrebbe permettersi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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