domenica 29 gennaio 2017

"Internazionale populista" un corno: rinasce l'Asse Atlantico. Intellettuali socialdemocratici e liberal lividi e spiazzati

Trump vieta l'ingresso agli immigrati provenienti da sette paesi islamici. Nel 2017 l'America accoglierà 50mila profughi: priorità a cristiani. Varato anche il rafforzamento dell'esercito 

Sergio Rame Giornale - Sab, 28/01/2017

DONALD IL NUOVO VECCHIO
NADIA URBINATI Rep
LA “NUOVA” America di Donald Trump, per rispondere alla provocazione di Roberto Saviano, si presenta al mondo con i connotati del vecchio rinnovato a nuovo: un populismo nazionalista che non nasconde il desidero autoritario. Il menu offerto dalla Casa Bianca in questa prima settimana assomiglia all’indice di un libro di storia della prima metà del Novecento. E in questo senso l’America di Trump è insieme vecchia e insieme espressione rappresentativa di un capitalismo globale che vuole rivedere il suo rapporto con la democrazia e il cosmopolitismo dei diritti umani. Di nuovo in questa America c’è la sepoltura senza esequie non solo dei Gloriosi Trenta ma anche dell’ideale che li aveva nutriti: politiche di eguali opportunità e ricerca di cooperazione internazionale.
L’America di Trump è un rinnovato vecchio: protezionismo economico in età di globalizzazione finanziaria che, per irrobustire l’industria nazionale, farà prima di tutto gli interessi delle multinazionali imprenditrici, promettendo ai molti (che hanno votato Trump) che questo sarà positivo soprattutto per loro. La stessa vetustà nel nuovo è rintracciabile nella propagandistica cancellazione per decreto di intenti della riforma sanitaria di Obama lasciando in sospeso il contenuto, ovvero come potrà rendere l’assicurazione altrettanto universale senza gravare sulla spesa pubblica. In questa cornice si inserisce l’obolo ai repubblicani: l’assalto rinnovato al diritto di interruzione di gravidanza. Vecchia e tradizionale è anche la politica antiambientalista che subito si afferma per decreto, dando via libera al passaggio dell’oleodotto anche nelle terre dove vivono gli Indiani d’America, e che rischiano l’inquinamento delle falde acquifere.
Vecchia politica di aggressione all’ambiente, dunque, cucinata insieme alla promessa di alleggerimento delle tasse agli imprenditori se promettono di investire in America. Una politica, faceva osservare un articolista del New York Times, che vende l’illusione ottocentesca di moralizzare il capitale, come se non sia realisticamente ovvio ( in primis a Trump, lui stesso un impresario che opera sul mercato globale) che esso segue la logica della convenienza, non della morale. Ma il protezionismo rinnovato in grande stile si avvale dell’armamentario della filosofia liberista che Ronald Reagan portò alla Casa Bianca: anche Trump prova a giocare con la favola del trickle- down, vendendo l’illusione per cui abbassare le tasse ai ricchi equivarrà a indurli ad investire con un po’ di convenienza per tutti. E la guerra ideologica contro il Messico, al quale Trump vorrebbe imperialmente fare pagare il muro anti-immigrazione che lui vuole finire di costruire, rischia di diventare un boomerang perché molti dei beni abbordabili per i consumatori americani sono importati proprio dal Messico, mano d’opera compresa.
Ma di nuovo zecchino, qualche cosa c’è. Prima di tutto, la pratica in grande stile e alla luce del sole del conflitto di interessi, di fronte al quale la più vecchia democrazia del mondo non ha, proprio come l’Italia di Berlusconi, nemmeno uno straccio di impedimento normativo. In secondo luogo l’attacco, anche violento nel linguaggio, verso chi critica il presidente e, soprattutto, verso la stampa. Trump rovescia la tradizione jeffersoniana per cui un Paese può reggersi senza un governo ma non senza una stampa libera e rispettata. La Casa Bianca inscena quotidianamente comunicati contro i giornalisti, e in aggiunta contro l’opinione democratica che gli ricorda che lui, il voto popolare non lo ha preso. Per questo, Trump sta facendo una crociata senza precedenti per contestare i “dati” veri nel nome di “dati alternativi” e quindi ricontare i voti. Il Presidente è in permanente campagna elettorale, come il populismo vuole.
Quale sarà l’effetto di questa vecchia-nuova politica populista e nazionalista fuori dagli Stati Uniti? Questa domanda mette in luce l’altra grande novità del governo Trump: la sua presidenza è un messaggio eloquente di sostegno ai populisti d’Europa, a partire dagli eredi della Brexit, ma soprattutto a quelli emergenti nel vecchio Continente che a Coblenza si sono riuniti in internazionale populista con un solo obiettivo: atterrare questa Unione per fare una nuova Europa, tanto populista, bianca e cristiana quanto l’America che Trump vuole. La novità straordinaria che sta sotto i nostri occhi è che, oggi, il maggiore concorrente dell’Europa democratica viene proprio dall’America.
La storia ha ricorsi mai identici perché avvengono in un nuovo contesto. Ritorna con l’elezione di Trump la reazione contro la democrazia tollerante e la voglia del nazionalismo geloso delle frontiere, e che però deve alzare muri fisici poiché mezzo secolo di libertà di movimento non si cancella per decreto. Ritorna il senso di fallimento degli ordini liberali degli anni del primo dopoguerra, quando dalle disfunzioni dei partiti tradizionali emersero nuovi leader autoritari che si scagliarono contro l’umanitarismo democratico e la Lega delle Nazioni. Così Trump arringa contro l’Onu e dichiara che la tortura può essere buona strategia nella lotta contro l’Isis, ignorando che anche il suo Paese ha firmato una convenzione internazionale contro la tortura, che la pratica in silenzio e senza fanfara presumendone l’illegittimità. La grande differenza è che nel Primo dopoguerra, in alternativa ai regimi totalitari che quei “nuovi” leader misero in scena, negli Stati Uniti si stava sperimentando una risposta democratica alla crisi economica, a guida Frank Delano Roosevelt. La nuova America è, al contrario omologa alla voglia di populismo che c’è in Europa. E questa novità è una cattiva notizia per tutti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

CARO ORWELL, ADESSO TI CHIEDO SCUSA 
ADAM GOPNIK Rep
TEMO di dover fare una confessione terribile: non sono mai stato un grande entusiasta di 1984 di George Orwell. Nelle sue proiezioni dal presente al futuro, mi è sempre sembrato troppo perfetto e studiato, un po’ carente rispetto a quelle rappresentazioni irreali che cerchiamo nella letteratura distopica. Come fece notare tanto tempo fa lo scrittore britannico Anthony Burgess, l’inferno moderno di Orwell in sostanza era una riproduzione della miseria in Gran Bretagna negli anni di razionamento del dopoguerra. Con l’aggiunta di una malvagità da stato di polizia stalinista.
L’altro classico che si legge al primo anno delle superiori, Il mondo nuovo di Aldous Huxley — nel quale in una società ferocemente e profondamente non egualitaria persiste un’attività ininterrotta legata al sesso e alle sostanze stupefacenti —, mi sembrava di gran lunga più profetico, come pure ogni opera di Philip K. Dick che proiettava le nostre bizzarre ossessioni americane per l’intrattenimento molto più in là, in un futuro ancora più bestiale, nel quale Ken e Barbie sarebbero stati adorati alla stregua di divinità. Al confronto, quando immaginava il rapporto tra stato autoritario e cittadini indifesi, 1984 sembrava troppo disumano, troppo atavico, troppo limitato. Le scuse affiorano spontanee alle labbra, tenuto conto che il libro di Orwell continua a scalare, come è opportuno che avvenga, le classifiche di Amazon: era di gran lunga meglio e più brillante di quanto i bei tempi in passato ci permettessero di supporre. A farmi cambiare opinione, naturalmente, è stata la presidenza di Donald Trump. E questo perché ciò che in assoluto colpisce di più della sua impareggiabile prima stravagante settimana è quanto primitivo, atavico, esplicitamente brutale si sia rivelato essere l’autoritarismo targato Trump. Per saggiarne la qualità dobbiamo ritornare a 1984 perché, in verità, dobbiamo tornare al 1948.
Non vi è nulla di inafferrabile nel comportamento di Trump: egli mente, ripete la balla, e chi l’ascolta o si accuccia spaventato, balbettando incredulo, oppure cerca di capire in che modo ribaltare la menzogna per il proprio tornaconto. Le menzogne di Trump, e il suo impulso a dirle, sono rozzezza da Grande Fratello allo stato puro, a prescindere da quanto siano zoticamente articolate. Non sono trabocchetti e tentazioni post-moderne: sono soltanto primitivi sfottò e sopraffazioni da cortile di scuola.
Il cieco e palese disprezzo della verità ci è offerto senza neppure una sottile patina glassata di facciata, senza l’edulcorante di una certa gradevolezza di temperamento o di moderazione o di rappresentanza — non con il bagliore di un consenso arrendevole, ma con il timbro arcaico della rabbia, dell’arroganza, e della rivalsa. Trump è l’essere rabbioso autoritario allo stato puro.
Di conseguenza, rileggendo Orwell, ci viene rammentato quello che l’autore aveva correttamente presagito riguardo all’autoritarismo bestiale — in sostanza il fatto che esso si basa su menzogne dette spesso e a tal punto ripetute che combatterle diventa non soltanto più pericoloso, ma addirittura più logorante che ripeterle. Orwell vide, e va a suo merito, che distorcere la realtà è solo in un secondo tempo un modo per cambiarne la percezione: distorcere la realtà è prima di ogni altra cosa un modo per affermare il proprio potere.
Quando ripete la ridicola storia dei tre milioni di elettori clandestini — faccenda di cui nessuno è a conoscenza tra chi sa queste cose, e nella quale non credono neppure uno degli impiegati della Casa Bianca e nemmeno uno dei rappresentanti repubblicani al Congresso — , a Trump non interessa affatto se qualcuno ci crede, anche se, a un certo livello di follia, lui ci crede. Più o meno. Non è previsto che la gente debba crederci, ma che ne sia intimidita. La menzogna non è una dichiarazione su fatti specifici; la follia è una sfida deliberata all’idea più generale di sanità mentale stessa. Una volta che una bugia così grossa inizia a circolare, cercare di riportare il dibattito nell’ambito della logica diventa irrealizzabile.
Nel frattempo, i repubblicani al Congresso, del tutto intimoriti e in soggezione, con gli occhi che sprizzano lucida paura da un lato e avidità dall’altro, sfrutteranno la “questione” dei brogli elettorali per perseguire politiche che soffochino gli elettori delle minoranze. È risaputo che Caligola, l’imperatore pazzo di Roma, nominò senatore il suo cavallo Incitatus, gesto che da millenni a questa parte è diventato per antonomasia il simbolo di un’azione dispotica da squilibrati. Adesso, però, sappiamo che cosa accadrebbe qualora Caligola nominasse il suo cavallo senatore se al Senato la maggioranza fosse formata dal moderno partito repubblicano: i repubblicani prima direbbero di non aver voluto interferire ed essere coinvolti nelle discussioni sulle scelte personali dell’Imperatore, e in un secondo tempo passerebbero subito a prendere in considerazione in che modo la presenza del cavallo potrebbe aiutarli a legittimare lo smantellamento delle regolamentazioni nel settore dei trasporti con calessi trainati da cavalli. La follia dell’Imperatore e il ladrocinio dei senatori sono un’accoppiata perfetta.
A cominciare da questa settimana, dunque, è di vitale importanza che chiunque voglia mantenere la propria salute mentale capisca che le cose stanno così — che si tratta di una falsa credenza che la ragione, come è normalmente intesa, possa influire su questo processo, o che possano farlo le “conseguenze”, così come sono anch’esse normalmente intese. Ogni volta che in un’ideologia irragionevole è radicata una svolta autoritaria, le persone benintenzionate sosterranno che quella situazione non potrà durare a lungo, perché i risultati saranno palesemente negativi per le persone che credono in essa, che si tratti della rivoluzione teocratica in Iran o della prima Amministrazione veramente assolutista in America. È tragico, è terribile, ma non accade mai che le cose vadano così.
Dal punto di vista politico, a Trump non costa nulla essere considerato incompetente, impulsivo, superficiale, inconsistente e sdegnoso della verità e della ragione. Sono queste le sue politiche. È così che è arrivato al potere. La sua base ama la sventatezza, l’incompetenza e il disprezzo della ragione perché la sanità di mente, la competenza e la paziente raccolta di prove sono cose che permettono alla gente istruita di fingere di essere superiore. Il risentimento arriva prima della ragione. Ora ci rendiamo conto che gli intellettuali conservatori condividono questi rancori più profondamente di quanto valutino le prassi razionali. E se fossero costretti a scegliere, anteporrebbero sempre il demagogo ai dimostranti.
Sul versante positivo, beh, ci sono state le marce delle donne dello scorso fine-settimana, che hanno riempito di speranza il cuore di chiunque abbia un briciolo di senno. Le nostre menti si sentono ispirate da slogan semplici, che non spiegano le cose in modo semplicistico. L’unione è l’unica cura contro la catastrofe. L’azione è l’unico antidoto alla rabbia. Se vi sembrano un po’ simili alle esternazioni sommesse di Winston in 1984 — quando scrive di nascosto, per esempio, che la sanità mentale non è statistica — almeno per il momento si tratta ancora di verità intimamente universali. Preghiamo che così continuino a essere.


Donald e Theresa, un asse per tenere a battesimo l’Internazionale populista 

Stavolta la relazione preferenziale tra Washington e Londra è all’insegna di nazionalismo e anti-europeismo. Ma non è chiaro a quali trattati bilaterali porterà questa “globalizzazione diversa”

FEDERICO RAMPINI Rep
È nata la nuova Internazionale populista. Ha la sua Dottrina: nazionalista, anti- europea, perfino… “operaista”. La visita di Theresa May alla Casa Bianca è il battesimo ufficiale. Occasione solenne, test precoce per Donald Trump: primo summit con un leader straniero, a sette giorni dall’Inauguration Day. L’intesa funziona, l’affiatamento c’è. Prove generali per ricostruire la leggendaria coppia Reagan-Thatcher. Dai quali Trump-May ereditano l’atteggiamento pro-business, antistatalista, anti-tasse. Si discostano su un aspetto importante dal liberismo degli anni Ottanta: soprattutto Trump, abbraccia un protezionismo che non è nella tradizione della destra classica, né dell’establishment capitalista.
La nuova Dottrina la espone il neopresidente americano, stabilisce il legame tra Brexit e il Muro: «I nostri popoli vogliono decidere chi entra nel proprio Paese». Aggiunge la comune volontà di «governare rispondendo ai lavoratori ». Mentre rilancia la «relazione privilegiata», lo fa martellando su un aggettivo: sovranità nazionale, identità nazionale, interesse nazionale. È diverso dallo storico asse angloamericano Roosevelt-Churchill che difese i valori delle liberaldemocrazie contro i nazifascismi; è diverso anche da Reagan-Thatcher che insieme al capitalismo credevano in una cosa chiamata Occidente contro “l’Impero del Male” (Urss). Stavolta la relazione preferenziale Washington- Londra è all’insegna del nazionalismo. È destinata a diventare il faro per i populismi del momento, da Marine Le Pen a Beppe Grillo, da Orban a Salvini. La venatura anti-europeista è potente; Trump esalta Brexit come «un anticipo di quello che accadrà»: la prima crepa in un edificio destinato a crollare. Per sottolineare come sia bello lo Stato-nazione, in contrapposizione a tutto ciò che è sovranazionale, lui evoca una vicenda dei suoi affari privati; senza scendere nei dettagli — siamo sul terreno scivoloso dei suoi conflitti d’interessi — ricorda che in Europa riuscì ad avere un “permesso” velocemente da un’autorità nazionale, mentre i tempi si allungarono per il via libera di Bruxelles. Conia un neologismo spregiativo, l’Unione europea diventa “Il Consorzio”.
Nei primi passi della relazione con la May, che gli consegna un invito a Londra dalla Regina, ci sta pure una sorta di apprendistato. Trump sembra disponibile a lasciarsi moderare o forse perfino guidare, cosa rara per il temperamento dell’individuo. Uno sprazzo di umiltà — incredibile — fa capolino anche quando lui accetta di dare al generale Mattis l’ultima parola sulla tortura: si fida dell’esperto. Che sia capace di fare un passo indietro, su temi scottanti? In conferenza stampa lui lascia che sia la premier britannica ad attribuirgli un «sostegno al 100% verso la Nato», non la smentisce.
È una posizione congeniale alla Gran Bretagna che non può sognarsi una difesa senza gli Stati Uniti; ma è una correzione vistosa rispetto alle dichiarazioni precedenti di Trump che aveva definito la Nato “obsoleta”. La scena è analoga sulle sanzioni alla Russia, dove la May rimane legata alla solidarietà europea, «le sanzioni rimangono finché la Russia non rispetta gli accordi» (sulla sovranità dell’Ucraina). Questo è un altolà, a poche ore dalla prima telefonata Trump-Putin fissata per oggi. E il leader americano diventa più cauto: «Con Putin non so se avrò una relazione buona o cattiva. Vedremo. Di certo io rappresenterò con forza gli interessi del popolo americano. E’ troppo presto per parlare di sanzioni». Nel dubbio, sapendo quanti sospetti si addensano su di lui dopo le interferenze degli hacker russi in campagna elettorale, Trump non deve poter apparire come “The Manchurian Candidate”, eletto con l’aiuto di una potenza straniera. Si rifugia in una posizione che gli è congeniale: il businessman, l’autore de “L’arte degli affari”, si siede al tavolo di ogni negoziato senza scoprire in anticipo le sue carte, pronto alle giravolte tattiche che gli possono servire. Manca, nel disegnare un percorso delle nuove relazioni internazionali, ogni riferimento a un quadro di valori, di principi. È tutto negoziabile, l’unico criterio è portare a casa il massimo risultato «per la nazione, il popolo, i lavoratori».
Così lui si cava d’impiccio anche sull’altro tema scottante del momento, il Muro col Messico. C’è stata una telefonata distensiva col presidente Nieto, ma il vero problema restano «i 60 miliardi di deficit Usa col Messico, i milioni di posti di lavoro perduti» per colpa dei «presidenti precedenti che negoziarono male i trattati ». Trasferito ai rapporti con l’Europa, l’approccio di Trump può creare problemi soprattutto alla Germania, grande esportatrice. Già Barack Obama si era scontrato con una Merkel che non fa la sua parte per rilanciare la crescita mondiale, accumula avanzi commerciali col resto del mondo con effetto “depressivo” sulla domanda.
Nella Dottrina nazionalpopolare Trump-May, rimane lacunosa la parte costruttiva. Quale tipo di trattato bilaterale tra Washington e Londra può aprire la strada a una “globalizzazione diversa”? La May cita i «mille miliardi di investimenti bilaterali» a conferma della densità di rapporti economici già esistenti. Appunto: ma in futuro sono destinati a crescere? E seguendo quali nuove regole? Il vortice degli ordini esecutivi mitragliati da Trump nei primi sette giorni, dà le vertigini. Quando il polverone si abbasserà, si vorranno vedere i dettagli.
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May vola da Trump, l’asse commerciale contro l’Europa
Usa/Gran Bretagna. Prima visita di Stato per il neo-presidente: poli opposti su Mosca e tortura, ma il punto di incontro è l’isolazionismo anti-Ue: all’orizzonte un accordo economico a due per contrastare l’effetto Brexit
NEW YORK28.1.2017, 23:58
Il giorno dell’incontro è arrivato: Theresa May – la prima visita di un leader straniero alla nuova presidenza – ha raggiunto Donald Trump alla Casa Bianca, per un meeting a cui ha fatto seguito una conferenza stampa congiunta dei due leader.
L’incontro (cominciato con una visita al cimitero di Arlington ) è avvenuto il giorno seguente il discorso che May ha tenuto a Philadelphia, al ritiro dei repubblicani, e già si sapeva che durante il meeting i due avrebbero parlato di come rafforzare i legami Usa-Regno Unito, il commercio e gli affari esteri.
Nel suo intervento a Philadelphia, May aveva affermato di voler «rinnovare il rapporto speciale» tra Regno Unito e Stati Uniti e ribadito che i due Paesi «devono sempre essere solidali al fianco dei nostri amici in Paesi democratici che si trovano in situazioni difficili», tra gli applausi dal pubblico.
Ma, aveva anche aggiunto, rimarcando la politica non interventista cavallo di battaglia di Trump, Regno Unito e Stati Uniti non dovranno tornare a «interventi militari fallimentari per rifare il mondo a propria immagine» alludendo alle guerre in Afghanistan ed Iraq.
Già questo intervento aveva segnato una svolta nella politica estera, sia britannica che statunitense degli ultimi anni. Ed ha anche rappresentato un’esortazione per Trump a non tornare indietro. May aveva poi continuato come, ci si aspettava, definendo la Nato, tanto invisa a questa nuova amministrazione, come «la pietra angolare» della difesa occidentale, per poi concedere comunque che, nonostante la grande importanza delle associazioni internazionali, «alcune di queste organizzazioni hanno bisogno di una riforma e di un rinnovamento per renderle rilevanti per le nostre esigenze di oggi».
Un colpo ad entrambi i lati, insomma. Per questo, dopo il suo discorso al ritiro repubblicano, l’attesa era per la conferenza stampa congiunta che ha seguito il meeting.
La visita di May alla Casa Bianca è l’inizio di un week-end dedicato alla politica estera, per Trump, con incontri centrati sull’Europa. Il suo portavoce Spicer ha riferito che sono previste telefonate con il cancelliere tedesco Merkel, il presidente francese Hollande e il presidente russo Putin.
Molti leader stranieri hanno detto di non sapere cosa aspettarsi da Trump, che da parte sua ha affermato che gli altri Paesi dovrebbero pagare per l’assistenza degli Stati Uniti in termini di difesa, inclusi i paesi membri della Nato.
Così, durante la sua prima conferenza stampa con un leader straniero da quando ha assunto l’incarico, Trump ha affrontato argomenti di cui si sta parlando molto in questi giorni come il famigerato ritorno all’uso della tortura, le sanzioni nei confronti della Russia e le relazioni tese tra Stati Uniti e Messico.
«Una Gran Bretagna libera e indipendente è una benedizione per il mondo», ha affermato Trump aprendo la conferenza stampa, ed ha aggiunto che l’uscita dall’Europa sarà una cosa fantastica per l’Inghilterra. E non ha poi potuto fare a meno di vantarsi di aver previsto Brexit, lungimirante.
Interrogati sui rapporti commerciali tra i due Paesi, May ha dichiarato che i due leader hanno affrontato il tema di come «approfondire i rapporti commerciali» bilaterali ed ha definito un patto tra Stati Uniti e Gran Bretagna sull’interscambio «un vantaggio per entrambi i Paesi».
Ma ulteriori colloqui per implementare davvero un’intesa commerciale con Londra, ha continuato Trump, verranno organizzati in seguito. Per ora la Gran Bretagna non può avviare negoziati formali perché non ha completato la rottura con l’Unione europea.
May ha preannunciato una visita di Stato di Trump alla Regina entro il 2017. Rispondendo al giornalista della Bbc che lo incalzava sulle dichiarazioni sull’uso della tortura, Trump non ha fatto nessun passo indietro ed ha ribadito di credere che il waterboarding sia una strategia vincente, ma deferirà il tema al Segretario alla Difesa James Mattis, il quale è contrario.
«Non sono necessariamente d’accordo, ma il capo del Pentagono prevarrà su di me, perché gli darò questo potere» ha detto precisando che gli Stati Uniti comunque «vinceranno con o senza l’uso dei waterboarding».
Interrogato sul delicato e difficile argomento dell’immigrazione e gli scambi commerciali, Trump ha cercato di minimizzare la crisi con il Messico ed ha detto di aver avuto una «telefonata molto amichevole» con il presidente messicano Enrique Pena Nieto, durante la quale entrambi hanno deciso di non discutere più pubblicamente le proprie divergenze riguardo il muro.
Alla domanda riguardo l’eliminare o meno le sanzioni alla Russia rafforzate da Obama a seguito delle interferenze di Putin nelle elezioni americane, Trump non ha risposto in modo chiaro, limitandosi a commentare: «Vedremo cosa accadrà alle sanzioni».

Un improbabile regno atlantico
Usa/Gran Bretagna. Theresa May vorrebbe ricostruire con Trump il rapporto Washington-Londra degli anni Ottanta, ma alla base stanno visioni diverse su economia, Nato e Russia
Fabrizio Tonello Manifesto 28.1.2017, 23:58
Il primo ministro inglese Theresa May, che non ha avuto una buona settimana, si è incontrata ieri con il presidente americano Donald Trump avendo un unico obiettivo: resuscitare il «legame speciale» che negli ultimi 100 anni ha unito i destini di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Stavolta per un progetto solo bilaterale neo-conservatore, formalmente contrapposto al cosiddetto «neo-laburismo» mondiale dell’era Clinton-Blair degli anni Novanta.
Era esattamente un secolo fa, infatti, quando l’amministrazione Wilson preparava l’ingresso nella Prima guerra mondiale con il pretesto annunciato di «rendere il mondo sicuro per la democrazia»: la dichiarazione di guerra sarebbe arrivata il 6 aprile 1917.
Le truppe del generale Pershing salvarono gli alleati ma fallirono nell’obiettivo di creare un ordine internazionale stabile e pacifico: al contrario il trattato di Versailles piantò i semi della Seconda guerra mondiale.
Anche in quel caso gli Stati Uniti intervennero e, di nuovo, tardivamente: il conflitto scoppiò nel 1939 ma, nonostante gli stretti legami personali con Winston Churchill, Franklin Roosevelt vi entrò solo a fine 1941, costretto dall’attacco giapponese contro Pearl Harbour.
La vittoria del 1945 consacrò definitivamente il ruolo dell’America come superpotenza, in sostituzione di una Gran Bretagna vincitrice ma stremata dalle perdite umane e materiali.
Ora, approfittando dell’uscita dall’Unione Europea, Theresa May vorrebbe ricreare con Donald Trump quello che in tempi più recenti era il legame tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher ma non basta un vertice e una photo opportunity per tornare ai dorati anni Ottanta e a quelli che furono i successi di allora.
Prima di tutto Ronald Reagan riconosceva Margaret Thatcher come un politico che era arrivata al potere prima di lui, vincendo le elezioni nel 1979, e come mentore intellettuale: benché Reagan condividesse con lei le idee neoconservatrici sul libero scambio e sulla necessità di confrontarsi a muso duro con l’Unione Sovietica, Thatcher era un politico più intelligente e più preparato (era stata deputato fin dal 1959, quando ancora Reagan faceva pubblicità per i frigoriferi General Electric in televisione).
Fu questo rapporto di ammirazione verso Margaret Thatcher che indusse Reagan ad accettare Gorbaciov come partner privilegiato nei negoziati sul disarmo nucleare culminati nella firma del trattato per l’eliminazione dei missili a medio raggio, nel 1987, e nell’avvio delle trattative per la riduzione di tutte le altre armi nucleari prevista dal trattato Start I.
Questa forte solidarietà ideologica, unita a una profonda fiducia personale che raramente si trova fra leader di paesi diversi, sembrano assenti nel rapporto fra Trump e May, almeno per ora. Theresa May è un politico tradizionale, un puro prodotto dell’establishment inglese, laureata ad Oxford, passata alla Banca d’Inghilterra, deputato fin dal 1997.
Trump è un miliardario narcisista e bugiardo, che non ha mai ricoperto una carica politica, e abile in una sola cosa: dominare i telegiornali serali con dichiarazione provocatorie.
I tratti caratteriali potrebbero anche diventare secondari se ci fosse un forte accordo politico ma questo non sembra essere il caso, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Russia.
Theresa May è non solo una sostenitrice della Nato ma certamente ricorda quando, nel 2006, i servizi segreti del Cremlino assassinarono a Londra il dissidente Alexander Litvinenko, in un’operazione che l’inchiesta attribuì a un ordine di Vladimir Putin. Negli ultimi anni, le relazioni tra Londra e Mosca sono state pessime, ben lontane da quelle amichevoli che Trump vuole ristabilire con la Russia.
Anche per quanto riguarda la politica economica è difficile che i due personaggi si intendano: Trump ha vinto la sua campagna elettorale invocando il protezionismo, e da allora ha continuato a minacciare di imporre dazi doganali contro interi paesi (il Messico) o singole aziende (cosa che non ha il potere di fare, ma l’importante è il messaggio ai suoi sostenitori).
Theresa May ha bisogno di avere un alleato nei difficili negoziati con l’Unione Europea ma non si vede quale interesse potrebbe avere Trump a darle una mano.
Soprattutto, Trump sembra determinato a seminare il caos nel sistema economico mondiale: dopo il ritiro dal Trattato di libero scambio del Pacifico, le sue iniziative contro il Messico minacciano seriamente di sfasciare anche il Nafta, il trattato di libero scambio con, appunto, il Messico e il Canada.
Se a questo si aggiunge l’incertezza nei rapporti con la Cina e la possibilità di guerre commerciali bilaterali, si capisce che l’ottimismo attuale dei mercati finanziari americani è destinato a durare poco.

La Borsa di Wall Street, ottimista sulla possibilità di avere un «normale» presidente repubblicano che portasse in dote meno tasse e meno regole per il settore finanziario, dopo le elezioni è salita ma cambierà presto opinione.
Il crack potrebbe arrivare tra qualche settimana o qualche mese, ma arriverà e non sarà Theresa May a convincere il bullo della Casa Bianca che sarebbe più prudente riflettere prima di twittare.



se la lady spinge donald al realismo 
Gianni Riotta Busiarda 28 1 2017
Il premier inglese Churchill aveva mamma americana e provò ad andare d’accordo con l’aristocratico presidente Roosevelt, mentre il ruvido Truman lo ascoltava meno. La Thatcher e Reagan erano compagni di strada liberisti e fu la Lady di Ferro a persuadere Bush padre ad attaccare Saddam dopo il Kuwait. Blair era gemello di Clinton ma non abbandonò Bush figlio in Iraq.
La storia della «special relationship» tra Usa e Regno Unito, come la battezzò Churchill nel 1946, ha vissuto ieri un nuovo atto con l’incontro tra il neopresidente Donald Trump e la neopremier Theresa May. I due non potrebbero essere più diversi, il palazzinaro che attacca briga dalla Casa Bianca a colpi di tweet, la politica tradizionale, forbita, attenta a ogni virgola. I due cicloni 2016, Brexit ed elezioni Usa, hanno portato la Strana Coppia Theresa-Donald alla ribalta e devono ora darsi una mano. La May è sola davanti a una Unione Europea che non fa sconti a Brexit, con un Parlamento riottoso a Londra. Trump ha passato la prima settimana al potere a emanare decreti presidenziali, come fulmini di Giove a Washington, ignaro del monito di Truman al successore Eisenhower, ex generale che trionfò in Normandia: «Povero Ike, dalla Casa Bianca darà ordini credendo di essere nell’esercito e si accorgerà che qui nulla si muove».
Ieri, per la prima volta, la realtà, sola maestra che dà i voti all’uomo più potente della Terra, ha fatto capolino davanti a Trump. Su Putin e Nato, la premier May ha tenuto duro, le sanzioni contro Mosca, dopo le offensive in Crimea e Ucraina, restano come gli accordi di Minsk, la Nato è baluardo occidentale, non «obsoleta» come Trump la definisce, anche se gli europei devono pagare infine per le comuni spese militari.
Con veleno sottile, cui Trump non è uso nella sua «braggadocio», la foga irruenta, May ha sussurrato che il presidente si è detto «d’accordo con me sulla Nato». Quindi Trump, che oggi parlerà con il presidente russo Putin, la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Hollande, ha dovuto assumere un insolito atteggiamento difensivo «Non conosco quel signore (Putin), vedremo come va la nostra relazione, io voglio buoni rapporti, con Russia e Cina».
Perfino sulla tortura, pallino di Trump, il presidente non fa marcia indietro, «per me funziona», ma annuncia che ha decidere sarà il generale «Cane Rabbioso» Mattis, che è contrario. Trump scopre presto come sui grandi temi, Muro con il Messico, Nato, tortura, commercio internazionale, Europa, Russia, Cina ogni parola pesa come un grattacielo. Nei suoi libri sul business Trump elogia uno stile di negoziato a somma zero, chi vince prende tutto, chi perde zero. Ma in politica, interna ed estera, il bravo leader cerca di far sì che tutti, o almeno tanti, vincano negli accordi, con meno esclusi possibile. Prima dell’incontro con la May, Trump ha dovuto parlare per un’ora al telefono con il presidente messicano Peña-Nato: altro che tweet, 60 minuti per evitare una disastrosa guerra commerciale nata dal nulla.
«Non sono così focoso come mi dipingete» ha detto, sottovoce, Trump ai giornalisti, per la prima volta impressionato da quanto pesi il governo. I parlamentari repubblicani, nelle stesse ore, lo mettevano in guardia dal bocciare subito la riforma sanitaria di Obama che lui detesta ma che copre anche i loro elettori, mentre in Europa Merkel e Hollande chiamavano all’«unità europea». Immaginare che Trump possa trasformarsi d’incanto in statista moderato è un miraggio, ma anche l’illusione del presidente di cambiare il mondo e l’America con un tratto di penna sfuma in fretta. Non sganciate però ancora le cinture: domani Trump si vedrà dipinto da «moderato» in tv e la sua mano correrà al tweet.  Facebook riotta.it BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



il momento della verità per l’europa 
Giorgio Napolitano* Busiarda 28 1 2017
L’insediamento del nuovo Presidente americano e il suo perentorio discorso del giuramento hanno impresso un segno lacerante in quel «tempo di grave disordine mondiale» che assunsi come punto di partenza nel mio dialogo con i lettori de La Stampa. Smentite le ottimistiche previsioni di quanti si attendevano sostanziali attenuazioni dei suoi dirompenti messaggi e preannunci elettorali, è una «buia visione» (come l’ha definita il New York Times) quella che è stata posta dal Presidente Trump dinanzi agli Stati Uniti e al mondo. Ed essa, di fatto, sembra saldarsi con la visione delineata dalla leadership britannica del dopo-Brexit.
Ma proprio non vedo come si possa affermare che l’Inghilterra ha ormai una sua visione e l’America se ne è appena data anch’essa una, mentre l’Europa non ne avrebbe alcuna.
Il disegno europeista è fondato su una visione che mai come ora esibisce i suoi valori e le sue potenzialità in senso antitetico a ciò che ha formato la base della vittoria del referendum in Gran Bretagna e del successo elettorale di Trump. I fondamenti del progetto e del processo di integrazione e unità europea coincidono con i valori della pace, della cooperazione mondiale, del superamento della conflittualità, cronicamente riemersa in Europa dall’esercizio di sovranità nazionali assolute. In costante e conseguente confronto, dunque, con i nazionalismi e i protezionismi.
Antagonismo più netto non potrebbe immaginarsi con propositi e primi atti concreti delle attuali leadership inglese e statunitense. E dobbiamo essere più che mai consapevoli - come europei eredi e portatori dell’«invenzione comunitaria» - della qualità politica e morale e della capacità di futuro della visione che ci è propria dalla dichiarazione Schuman del 1950.
Il mix di nazionalismo e protezionismo che si agita come possibile base di un’alleanza tra populismi europei e strategia trumpiana («America first») minaccia regressioni profonde nell’ordine mondiale sotto la bandiera di un rigetto totale della globalizzazione. Ma la nuova alleanza Washington-Londra di cui si parla non può che risultare in definitiva, come ha ben detto Sergio Romano, «una alleanza effimera».
E l’Europa? Sarebbe fuorviante considerare l’allarmante involuzione in atto come «un’occasione» per l’Europa: sarebbe un sinistro paradosso. Ma essa è certamente un momento della verità, della chiarezza e del coraggio per noi europei. Perché abbiamo accumulato negli ultimi venti anni troppi ritardi, omissioni e inconcludenze; ancora negli ultimissimi tempi abbiamo mancato di capacità di decisione perfino dinanzi al drammatico emergere del flusso migratorio, del terrorismo di matrice islamica, dell’ansia di sicurezza delle nostre popolazioni.
Ma non si possono mettere insieme in un bilancio quasi liquidatorio pur fondate insoddisfazioni e ogni sorta di giudizi critici. I principi di Ventotene continuano a guidarci, ma non siamo rimasti a quella profezia. Abbiamo alle spalle i balzi in avanti compiuti dalla Comunità e dall’Unione. D’altronde Altiero Spinelli non è stato solo il profeta del Manifesto di Ventotene, ma ha operato ad alto livello come membro della Commissione europea (anche lui un «euroburocrate»?); e infine ha promosso a Strasburgo il progetto di una Unione europea che avesse anche istituzioni e regole da rispettare e funzionari qualificati al proprio servizio.
Tocca oggi all’Europa confrontarsi con le sfide del presidente americano, dare le sue risposte non demagogiche ai «perdenti» o «dimenticati» della globalizzazione sul terreno dell’impegno ad affrontare le accresciute diseguaglianze sociali, a contrastare concentrazioni di potere finanziario e di ricchezza.
«L’Unione non può tollerare una situazione di stallo per un altro anno», ha affermato, qualche giorno fa a Roma, una qualificata conferenza internazionale dell’Ispi nella quale sono stati suggeriti i passi avanti indispensabili per dare la prova che l’Europa non sta ferma, intende andare avanti per il cambiamento con le riforme. Passi concreti ed espliciti verso l’indilazionabile difesa comune europea, il pieno completamento dell’Unione bancaria, il decollo di un processo di riforma del bilancio dell’Unione: muovendo in queste direzioni, nel 2017, l’Europa può recuperare consensi e sostegni che ha perduto.
E non bisogna più esitare nell’indicare la strada lungo la quale vogliamo andare avanti, senza semplicemente ripetere che siamo troppi e troppo diversi per stare insieme entro un’unica prospettiva, un unico assetto istituzionale e sistema di impegni e di vincoli. Ne parliamo da oltre venticinque anni - dall’indomani della caduta del muro di Berlino - passando da un’ipotesi o da una formula all’altra, senza concludere.
Possiamo ancora eludere o dissimulare la necessità di definire e aggregare diverse e più omogenee formazioni di Stati europei, privilegiando quella votata a un percorso verso l’Unione federale?



Trump-May, patto su Isis e commerci Ma Putin divide ancora l’Atlantico 

Grande sintonia nel primo incontro alla Casa Bianca: “Insieme batteremo il terrorismo” La premier: lui crede al 100% nella Nato. Il presidente: la Brexit è una cosa meravigliosa 

Paolo Mastrolilli Busiarda 28 1 2017
La nuova alleanza tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Gran Bretagna di Theresa May è nata ieri nello Studio Ovale della Casa Bianca, davanti al busto di Churchill tornato al suo posto d’onore, ma non è ancora completa. 
L’accordo è forte sulla collaborazione commerciale; la lotta all’Isis e al terrorismo, ora che il Presidente americano sembra disposto a rinunciare alla tortura; e il ruolo della Nato per la stabilità globale, anche se qui è stata la May a prendere l’impegno per entrambi. L’intesa invece resta incerta sul rapporto con la Russia, perché Theresa non vuole togliere le sanzioni fino a quando gli accordi di Minsk saranno applicati, mentre Donald è più disponbile verso Putin; e in generale sul futuro dell’Europa, perché il capo della Casa Bianca sembra quasi più entusiasta della Brexit dell’inquilina di Downing Street, considera l’Unione Europa «una consorteria» di lenti burocrati, e dà la netta impressione di essere favorevole alla sua totale disgregazione, in favore del ritorno ai rapporti di forza bilaterali con i singoli stati. Quanto al Messico, che si è infilato nel vertice perché ieri mattina Trump ha parlato al telefono col collega Nieto, i due presidenti hanno cercando di spegnere la miccia diplomatica accesa giovedì, accordandosi di non essere d’accordo sulla costruzione del muro e il suo pagamento. Trump poi ha firmato due decreti, uno per ricostruire le forze armate, l’altro per negare l’accesso a chi arriva da Paesi a rischio terrorismo come Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Yemen e Sudan.
May era venuta per rilanciare la «relazione speciale» sul modello del rapporto tra Reagan e Thatcher, sperando di trasformarla in un asse bilaterale con cui guidare l’Occidente, dopo l’uscita dalla Ue. Il primo punto nell’agenda era iniziare a negoziare un accordo sugli scambi bilaterali, anche se un vero trattato commerciale non potrà essere firmato prima di due anni, cioè quando la Brexit sarà completa. Su questo l’intesa ci sarà, non solo perché Donald riverisce le origini britanniche di sua madre, ma soprattutto perché tra i due Paesi c’è un trilione di investimenti reciproci da salvaguardare. Discorso simile per la lotta al terrorismo, dove la premier ha detto che «abbiamo discusso come potenziare insieme la lotta all’Isis». Trump ha già chiesto al capo del Pentagono Mattis di colpire con più forza, eliminando alcuni limiti imposti dalla volontà di evitare i «danni collaterali», ma sul contrasto al terrorismo pesava la sua apertura all’uso della tortura, che la legge britannica non consente. «Io - ha detto ieri il capo della Casa Bianca - penso che funzioni, mentre Mattis è contrario. Su questo non siamo d’accordo, ma lascerò a lui la decisione».
Trump aveva preoccupato l’Europa dicendo che la Nato è obsoleta, ma ieri May deve averlo convinto che resta essenziale. Quanto meno lei, parlando a nome di entrambi, ha detto che «il Presidente appoggia l’Alleanza al cento per cento», senza essere smentita. 
I problemi, o le intese che vanno ancora rifinite, cominciano con la Russia. Theresa è stata netta: «Le sanzioni devono restare in vigore, fino a quando gli accordi di Minsk non saranno applicati», cosa che include restituire all’Ucraina il controllo dei propri confini. Donald, che oggi avrà la sua prima telefonata con Putin, è stato più aperto, pur spostandosi verso il realismo: «Se andassimo d’accordo, ad esempio nella lotta all’Isis, sarebbe un vantaggio. Non so se accadrà, magari no, ma prima devo parlarci». In altre parole, se Vladimir offrisse qualcosa di concreto in Medio Oriente, lui potrebbe chiudere un occhio sull’Ucraina.
La distanza invece resta ampia, se non incolmabile, su Bruxelles. May deve procedere con la Brexit, che non aveva sostenuto in pubblico durante il referendum, ma non detestava in privato. Però non è convinta che la disgregazione sia nell’interesse di Londra e Washington. Trump invece pensa che «la Brexit è meravigliosa», e la Ue «una consorteria» che blocca lo sviluppo. Meglio perderla, dunque, e puntare sulle alleanze bilaterali come con Londra.
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Lamy: lo scontro sui mercati penalizzerebbe le aziende Usa 

L’ex direttore del Wto: alleanza angolamericana anti Ue? Londra non può cancellare i suoi legami con l’Europa 

Marco Zatterin Busiarda 28 1 2017
«È una mossa che non può fare e non farà». Pascal Lamy quieta le paure alimentate dalle uscite no-global di Donald Trump. «Il presidente del Congresso americano ha già detto di non condividere l’idea di introdurre dazi al 45% sull’import cinese e i parlamentari non lo permetteranno», dice l’economista francese, segretario dell’Organizzazione mondiale del commercio dal 2005 al 2013, oggi presidente emerito del Delors Institute. «Si scatenerebbe una guerra commerciale irresponsabile, in cui le prime ad essere penalizzate sarebbero le imprese americane», assicura il francese. Nell’export dalla Cina c’è più valore aggiunto Usa che asiatico, insiste. Basta prendere un iPhone, in cui «il rapporto fra valore americano e cinese è quattro a uno». Così, «per una volta che danneggi i cinesi, colpisci quattro volte gli americani».
Trump dice Fair Trade al posto di Free trade. Commercio equo contro commercio libero. È una buona idea?
«È una vecchia idea, un’espressione comoda. Noi tutti siamo per l’equo commercio, non si può essere contrari. Può funzionare solo se è una scelta bilaterale: occorre che due parti siano d’accordo su cosa e bisogna essa lo sia agli occhi di entrambi». 
Cosa ha in mente il neopresidente?
«Supponendo che non cambi idea su Twitter a ogni istante, la sua ricetta è un nazionalismo economico. Dice “America first”, pone i suoi interessi davanti a quelli di tutti. In campagna elettorale ha detto più volte che la crisi era tutta colpa del libero scambio, bombardando quanto è stato fatto negli ultimi trent’anni per aprire i commerci. Ovviamente le cose non stanno così».
Perché Trump ha scelto questa linea?
«È convinto che il deficit commerciale bruci posti di lavoro. In realtà dimentica che il vero problema è la capacità americana di esportare, che è inferiore alla domanda di importazioni. E che l’aumento del commercio internazionale aiuta più i poveri che i ricchi e non viceversa. Questo gli sfugge pienamente. Può uccidere l’accordo europeo, un embrione sacrificato sull’altare del protezionismo. Ma non il Nafta, l’intesa con Canada e Messico. Fatto questo, cercherà di rinegoziare il Nafta. Ma non passerebbe in Congresso perché lì sanno che ridurrebbe la forza economica degli Stati Uniti».
Ha sentito Xi Jinping il globalista a Davos? Possiamo fidarci di loro?
«È stato un ottimo esercizio di relazioni pubbliche, ma l’idea che la Cina sia l’alfiere dell’apertura dei mercati va presa con ogni precauzione. Meno di una volta, ma è sempre una economia chiusa. Investimenti e esportazioni restano difficili. È chiaro che Pechino immagina che l’America possa lasciare un vuoto e dunque cerca di colmarlo. Ma per essere credibili, i cinesi devono attuare un volume considerevole di riforme, soprattutto nel settore pubblico e nei servizi. Poi si vedrà».
In tutto questo orientamento dei paradigmi, i più vedono l’Europa schiacciata e a rischio fallimento.
«È un punto di vista esagerato. Siamo la prima potenza commerciale del pianeta, il mercato principale e più ricco. Questa la nostra garanzia, la base su cui costruire».
C’è un movimento di opinione pubblica cavalcato dalla politica che vuole nazionalizzare l’economia e limitare il libero commercio. Possibile?
«La cifra chiave è il contenuto di importazione dei prodotti europei. Oggi è il 40 per cento. Se introduciamo dei dazi, ci penalizziamo da soli»
Pericoloso.
«Il sistema in cui operiamo rende il protezionismo molto più dannoso di una volta e, allo stesso tempo, più improbabile. Tuttavia, in materia di commercio, il protezionismo è frenato dall’integrazione stessa».
Theresa May corteggia Trump. E viceversa. C’è la prospettiva di un patto angloamericano che snobbi l’Europa?
«Per ora è tutto teatro. Vedremo. Qualunque cosa decidano di fare, comunque, May e Trump non hanno il potere di postare il Regno Unito dal 22° meridiano. L’isola britannica resta legata all’Europa anche se il referendum ha detto il contrario». 
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Raid, truppe e nuove alleanze Ecco la strategia anti-jihadisti 

Il capo del Pentagono Mattis prepara l’assalto finale al Califfo Assad torna in gioco. Mosca lancia il piano di spartizione della Siria 

Giordano Stabile Busiarda 28 1 2017
«Sradicare l’Isis dalla faccia della Terra». È questo il primo punto della politica mediorientale di Donald Trump e uno dei pilastri dell’intesa con Theresa May. Ma per farlo il neopresidente americano dovrà mettere insieme molti tasselli. Se il Califfato è sopravvissuto per quasi tre anni agli assalti di quasi tutte le potenze mondiali è per le divisioni fra i suoi nemici. Il rinnovato asse anglo-americano dovrà per forza allargare le alleanze e renderle più efficaci.
Anche nella telefonata di oggi fra Trump e il presidente russo Vladimir Putin si parlerà soprattutto di «lotta al terrorismo». Con la consapevolezza che senza un accordo sulla Siria l’assalto finale allo Stato islamico in tempi rapidi è impossibile. Sul piano militare ci sta lavorando il nuovo Segretario alla Difesa James Mattis. Serve prima però una base strategica e diplomatica.
Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha già fatto trapelare qualcosa. Assieme alla bozza di nuova Costituzione per la Siria, è pronta anche un mappa. Mostra, disegnate con matita rossa, verde e blu le «safe zone» da attribuire alle grandi potenze. In rosso quella russa, in verde quella turca, in blu le due americane. Una al confine Nord, nei territori che i curdi vorrebbero trasformare in una loro regione autonoma. E una a Sud, nell’area di Daraa, al confine con la Giordania. 
Donald Trump ha parlato due giorni fa, non a caso, di «safe zone» in Siria. Un modo politicamente corretto, una volta tanto, per dire «zone di influenza». Nel «deal» con i russi che ha in mente il leader americano ci sono molte carte da scambiare, e una potrebbe essere la permanenza del raiss siriano al potere in cambio delle «zone d’influenza», teste di ponte da dove lanciare l’assalto a Raqqa e al cuore del Califfato. Per chiudere la partita.
Il piano di Mattis
Trump ha incaricato Mattis di preparare un piano «più aggressivo» entro un mese. Finora l’azione statunitense è stata frenata dal dogma «lottare contro l’Isis e al tempo stesso contro Assad». In questo modo si è investito molto sui guerriglieri curdi dello Ypg, con buoni risultati, e sui «ribelli moderati», con risultati nulli. Bashar al-Assad è rimasto in sella e l’Isis si è radicato in tutto l’Est del Paese. 
«Mad Dog», un uomo d’azione, ha davanti un nodo difficile da sbrogliare. Potrà armare senza remore i curdi siriani e inviare nuove truppe nel Nord della Siria in modo da lanciare l’assalto a Raqqa in primavera. Ma in questo modo dovrà rompere con l’alleato fondamentale della Nato in Medio Oriente, la Turchia. Oppure dovrà cercare di coinvolgere i turchi, cosa che richiede tempi più lunghi.
Anche in questo caso le «zone di influenza» potrebbero essere la soluzione. Come si vede nella mappa, alla Turchia andrebbe tutto il Nord-Ovest, compreso il cantone curdo di Afrin, per accontentare Erdogan. Agli americani tutto il Nord-Est, dove i curdi potrebbero realizzare una loro autonomia sotto stretta tutela, ai russi la «Siria utile», più ricca e popolosa, dell’Ovest, e soprattutto le basi militari nelle province di Lattakia e Tartus. Dalle «safe zone» partirebbe poi l’assalto a Palmira, Raqqa e Deir ez-Zour, le principali città in mano all’Isis, la cui spartizione sarebbe decisa in seguito.
Quanto alla permanenza di Assad al potere, ieri anche il ministro degli Esteri inglesi Boris Johnson ha alluso a un possibile «cambio di strategia» in Siria. E il Regno Unito, assieme alla Francia, è stato finora il più rigido nel chiedere l’allontanamento del raiss. L’asse transatlantico immaginato da Theresa May richiede sacrifici, e non solo sul fronte del libero commercio.
Il ruolo della Nato
Gli inglesi, da buoni negoziatori, chiedono però in cambio un ruolo anche per la Nato, che nei disegni di Trump è destinata a sparire assieme all’Unione europea e all’Onu. La grande guerra al terrorismo islamista potrebbe allungare la vita all’Alleanza atlantica. Non in Siria ma in Iraq. Gli addestratori europei e americani hanno avuto un ruolo importante nella preparazione della battaglia di Mosul. Che ora potrebbe essere allargato. Il difficile puzzle prevede la conferma del ruolo dei curdi, previo assenso della Turchia, e un ridimensionamento delle milizie sciite addestrate dall’Iran. A quel punto sarà necessario addestrare una grande forza federale irachena, in grado di controllare le province sunnite di Ninive e dell’Anbar senza scatenare l’ennesima insurrezione. E gli addestratori Nato potrebbero essere riciclati per il nuovo compito. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


“Questo idillio fra presidente e Cremlino è diventato una sfida per il futuro della Nato” 

Saggista e autore di “The Right Nation” 
Busiarda 29 1 2017
John Micklethwait, caporedattore di Bloomberg News e co-autore del best seller del 2005 «The Right Nation». Cosa ne pensa dell’atteggiamento aggressivo del nuovo presidente Trump verso i giornalisti?
«Credo che la libertà di stampa sia connaturata all’America e che dovremmo giudicare il nuovo presidente come abbiamo fatto con il predecessore: da ciò che dice e che fa. Se crea “fatti alternativi” che non sono verificati, dovremmo dirlo. Se le sue azioni minacciano la libertà d’informazione, dovremmo denunciarlo, ma non l’ha ancora fatto; essere sgarbato con i giornalisti non basta. Trump ha dato problemi ai mezzi d’informazione fin dall’inizio: alle primarie continuava a dire cose offensive, che dovevamo riportare, a sottrarre tempo agli interventi degli avversari. La cosa interessante è che gaffe e articoli critici non lo distruggevano come avrebbero fatto con altri. Malgrado il suo linguaggio da caserma, una gran parte delle donne bianche ha votato per lui».
Recentemente ha avuto occasione di intervistare Vladimir Putin. Che impressione le ha fatto?
«Putin gestisce male l’economia, ma è abile politico. I suoi interventi in materia economica sono stati deboli, imperversa il clientelismo, non è riuscito a svincolarsi dal petrolio. Il risultato è un’economia debole, che limiterà sempre le sue ambizioni. Difficile individuare una strategia, salvo un forte desiderio di far tornare grande la Russia. Ha il vantaggio di farsi pochi scrupoli, si tratti della Siria o dell’Ucraina, o solo di dire la verità. In tv, Putin è combattivo, ma cortese; in privato è più aggressivo e si rivela un instancabile osservatore dei punti di forza e di debolezza delle persone. Il clima di paura che riesce a creare tra i collaboratori è impressionante e inquietante. Dovrà affrontare il problema di un’uscita di scena pacifica: troppi intorno a lui hanno rubato troppo, perciò deve restare al potere».
Pensa che ci sarà una forte alleanza fra Trump e Putin, e che questo destabilizzerà il mondo e finirà per distruggere l’Unione europea?
«Temo per il futuro della Nato alla luce di quanto ha detto Trump. Ma sospetto anche che l’idillio tra lui e Putin abbia raggiunto il picco. Per Putin, essere riuscito a raggiungere una posizione in cui rappresenta una forza nella politica statunitense e dove l’Orso russo è responsabile delle sorti di parte del Medio Oriente, è un risultato notevole, probabilmente insostenibile. Per tenere buoni i suoi nazionalisti in patria, deve continuare a provocare l’ America; così rischia di alienarsi il suo nuovo amico, Donald. Da candidato, a Trump piaceva sottolineare i successi di Putin contro l’ America, come mezzo per sottolineare la debolezza di Obama. Da presidente non gli piacerà essere percepito come debole. Se verrà abbattuto un aereo, il mondo guarderà a Trump; se Putin fomenterà la ribellione in Estonia, danneggerà un membro della Nato guidata da Trump, e questo farà arrabbiare i repubblicani. A Margaret Thatcher non importava molto delle Falkland, finché l’Argentina non le invase». 
Pensa che Trump creerà tensioni pericolose nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina?
«Sì, per me questo è l’aspetto più pericoloso della presidenza Trump. Molti, anche in Cina, insistono a definirlo un pragmatista che non crede a nulla, un immobiliarista che inizia ogni trattativa chiedendo un prezzo spropositato e poi accetta di accordarsi su una cifra ragionevole. Ma se il nuovo presidente crede nel primato dell’America: da tempo è scettico sul libero scambio (è contrario al Nafta). E poi, non sono certo che Xi Jinping abbia tutto il margine di trattativa che immaginano gli ottimisti o Trump. Questo è un anno cruciale per Xi, potrebbe voler restare in carica oltre i 10 anni. Per ragioni di politica interna, non vorrà mostrarsi accondiscendente verso le potenze straniere. Credo si arriverà a un accordo: le due superpotenze hanno bisogno una dell’altra».
Come pensa che gestirà la crisi in Medio Oriente? Trump cambierà atteggiamento nei confronti di Siria, Turchia, Iran, Israele, Libia?
«Ha un approccio contraddittorio riguardo al Medio Oriente: vuole starne fuori, ma anche sconfiggere l’Isis. Suppongo che alla fine sarà come Obama, una sorta di poliziotto arcigno, con maggiori problemi a gestire la rabbia. Probabilmente sarà un po’ più duro con l’Iran e un po’ meno con Israele, sulla Siria cercherà un accordo con la Russia. Ma mi aspetto un ruolo attivo in Medio Oriente». Traduzione di Carla Reschia 


Nuovo asse con Mosca e il disgelo prepara l’addio alle sanzioni 

“Cooperazione anche nel campo dell’economia e degli scambi” E ora è l’Europa che rischia di più

FEDERICO RAMPINI Rep
È la fine della “seconda guerra fredda”. È subito luna di miele fra Donald Trump e Vladimir Putin. Noncurante dei sospetti sulla sua “Russian Connection”, il presidente americano corona la prima settimana di governo con il più atteso di tutti i suoi colloqui internazionali. È il leader russo a svelare a gran velocità il contenuto della prima telefonata di lavoro col suo omologo americano. È un rilancio delle relazioni bilaterali tra le due superpotenze rivali, ma stavolta “da pari a pari”, un rapporto fra eguali, all’insegna della dignità reciproca: proprio quello che Putin rimproverava a Barack Obama- Hillary Clinton di avergli negato.
Subito i due si mettono al lavoro insieme, per sconfiggere l’Isis in Siria. Non c’è l’annuncio ufficiale sulla levata delle sanzioni contro Mosca, però appare nel resoconto sintetico della telefonata fatto da Putin una frase molto allusiva: i due sono «nello spirito favorevole a restaurare e migliorare la cooperazione Usa-Russia, anche nel campo dell’economia e degli scambi». Se è così, le sanzioni hanno i mesi contati. I due del resto hanno l’intenzione di far seguire a questa telefonata un vero e proprio summit, il primo vertice bilaterale in cui s’incontreranno di persona: resta solo da definire la data e il luogo. C’è intesa anche sulla priorità comune: «Unire gli sforzi per combattere il terrorismo internazionale ». Questo prelude a un accordo operativo in Siria nelle operazioni militari contro l’Isis. Inoltre è anche un implicito endorsement che Putin regala a Trump 24 ore dopo il controverso decreto anti-islamici che chiude le frontiere degli Stati Uniti ai profughi siriani e a tutti i visitatori o perfino immigrati legalmente residenti originari da sette paesi a maggioranza musulmana. Si torna così all’asse Usa-Russia contro il terrorismo islamico così come c’era stato brevemente dopo l’11 settembre 2001 (quando Mosca diede un appoggio logistico agli americani in Afghanistan). Putin si è sempre offerto agli americani come un modello da imitare in questo campo, per la sua esperienza nella guerra in Cecenia.
Trump ha una partenza favorevole là dove fallì Obama quando tentò un “reset” a tutto campo nelle relazioni con la Russia, ma sbagliò interlocutore puntando su Dmitri Medvedev anziché Putin. Ora resta da vedere se questo spettacolare disgelo verrà digerito dai falchi repubblicani al Congresso, dove notabili come i senatori John McCain e Lindsay Graham hanno ribadito la totale ostilità a Putin, in particolare dopo le rivelazioni sulle interferenze russe nella campagna elettorale. Il Congresso potrebbe mettersi di traverso quando verrà il momento di levare le sanzioni. Quelle sanzioni economiche hanno contribuito a stremare un’economia russa già indebolita dal calo del petrolio, oltre che dalla cronica corruzione e dalla fuga dei cervelli. Ma furono decise da Stati Uniti ed Unione europea come reazione alla violazione della legalità internazionale in Crimea- Ucraina. Per toglierle, ci vorrebbe qualche ravvedimento operoso di Putin sul terreno ucraino. È quello che venerdì la premier inglese Theresa May si è permessa di ricordare sommessamente a Trump nell’incontro alla Casa Bianca.
Equivoci e timori di varia natura continueranno ad aleggiare attorno a questo idillio Trump-Putin. In America l’opinione pubblica liberal e buona parte dei media ci vedono la conferma delle pulsioni autoritarie di Trump, una pericolosa “affinità elettiva” con l’Uomo Forte di Mosca, aggravata dai sospetti che Putin si sia dato un gran daffare per impedire l’elezione della Clinton. I conservatori tradizionali temono che Trump si faccia raggirare da un leader ben più astuto di lui e finisca per regalare alla Russia nuovi spazi d’influenza. Quest’ultima preoccupazione si salda con quella degli europei, che rischiano di essere doppiamente destabilizzati, fra la ritirata protezionista di Trump e le mire espansioniste di Putin. Per questo la cancelliera Angela Merkel, anche lei a telefono con Trump ieri, si è premurata di strappargli una garanzia sul ruolo insostituibile della Nato: ma l’ha dovuta “pagare” con la promessa che gli europei dedicheranno maggiori risorse alla propria difesa. E quest’ultima, da decenni, è una prospettiva del tutto indigesta alle opinioni pubbliche del Vecchio continente, tedeschi in testa.
Chi ne esce con un bottino ragguardevole naturalmente è Putin. Può rilanciare la sua narrazione preferita sugli eventi degli ultimi anni: una ricostruzione in base alla quale la Russia sarebbe stata umiliata dagli americani che ne sfruttarono le debolezze all’epoca di Gorbaciov e poi di Eltsin. Adesso finalmente lui sancisce grazie a Trump un ritorno di centralità e prestigio globale della Grande Russia.
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