martedì 31 gennaio 2017

La lotta di classe dall'alto in Italia funziona benissimo

Scompare la classe media bloccato l’ascensore sociale
Community Media Research fotografal’immobilismo dell’Italia: in cinque anni è raddoppiata - specie al Sud - la quantità dipersone che si percepiscono povere 

Daniele Marini Busiarda 30 1 2017
L’avvento della crisi nel 2008 costituisce uno spartiacque per i paradigmi dello sviluppo, i cui effetti sono tuttora presenti. Fra le conseguenze, la più evidente è la polarizzazione del sistema produttivo: le imprese si sono divise fra chi ha ottenuto performance positive e chi ha manifestato difficoltà sempre più marcate. Generalmente, le prime hanno investito nei processi di innovazione e si sono aperte alle relazioni con l’estero. Le seconde, invece, non hanno saputo/potuto innovare e hanno operato solo sul mercato domestico. Fra questi due poli, lo spazio di manovra ispirato a un’attesa passiva in vista di un miglioramento, ha prodotto solo esiti negativi e fatto scivolare fuori dal mercato. 
Divaricazione
Ora questo processo di divaricazione si sta spostando dal piano del sistema produttivo a quello delle famiglie e degli individui. E tutto fa pensare che avrà una velocità elevata, di cui già oggi avvertiamo i segnali. È sufficiente consultare gli ultimi dati per verificare l’accentuarsi di un fenomeno di recrudescenza della povertà e di polarizzazione nelle condizioni economiche delle famiglie. . Questi dati ci collocano ancora lontano dalla soglia individuata dalla strategia Europea 2020 che ha indicato per il nostro paese una quota poco inferiore ai 13 milioni di individui, quando oggi superiamo di molto i 17 milioni. E mentre in Europa mediamente si assiste a un calo della povertà, noi scaliamo verso l’alto la classifica.
E non solo aumenta l’esclusione sociale, ma anche la distanza fra ricchi e poveri. L’Istat evidenzia come fra il 2009 e il 2014 il reddito in termini reali cali in misura maggiore per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando così la distanza da quelle più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte rispetto alle più povere. La polarizzazione investe anche le famiglie italiane e, come sottolinea l’ultimo rapporto Caritas, tale processo scardina le tradizionali categorie sociali che - in precedenza - erano quelle più a rischio di esclusione. Oggi i sistemi di disuguaglianza investono anche i giovani, chi pur avendo un lavoro e con pochi figli però è precario o ha una bassa remunerazione. Soprattutto tocca il ceto medio, erodendone le tradizionali certezze. Non è un caso che dopo il voto in Gran Bretagna (Brexit), l’elezione di Trump negli Usa e il diffondersi di movimenti populisti che intercettano parti significative di ceto medio, l’attenzione della politica verso i temi della coesione sociale stiano rientrando nell’agenda. 
La ricerca
Come sia modificata l’appartenenza ai diversi gruppi sociali da parte della popolazione è l’oggetto dell’ultima rilevazione di Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa. L’esito complessivo rimarca la polarizzazione nelle condizioni economiche percepite. Se nel 2011 poco più della metà degli italiani (52,2%) si ascriveva al ceto medio-alto e alto, oggi solo il 26,5% si colloca nei medesimi gruppi sociali. Viceversa, se aumenta leggermente la quota di chi si identifica nel ceto basso (9,5%, era il 4,5% nel 2011), accrescono significativamente quanti vanno a ingrossare le fila del ceto medio-basso che dal 43,3% (2011) passano al 64,1% (2016). Dunque, è soprattutto una parte consistente del ceto medio a subire una divaricazione nelle condizioni percepite, sospinte a una mobilità verso il basso, più che verso l’alto. È un fenomeno che investe l’intero Paese, ma che conosce nel Mezzogiorno un particolare deterioramento. Nel 2011 il 46,6% degli interpellati si situava nei ceti medio-basso e basso, per salire a ben il 78,8% nel 2016. Di qui, come ha recentemente sottolineato anche il premier Gentiloni, l’attenzione che l’esecutivo vuole destinare ai giovani e al Mezzogiorno. Confrontando le auto-collocazioni nei due periodi è possibile definire la mobilità sociale percepita degli italiani, ovvero come e se funziona l’ascensore sociale.
Un Paese bloccato
L’esito ci consegna un paese in gran parte bloccato. Per i due terzi degli italiani (62,1%) l’ascensore sociale rimane sempre allo stesso piano: nel periodo esaminato (2011-16) non hanno conosciuto scostamenti significativi, al più hanno avuto una mobilità orizzontale. Ciò è avvenuto, in particolare, per i più giovani (68,2% fino a 34 anni), i laureati (69,4%), chi appartiene ai ceti medio-alto e alto (86,6%) ed è residente al Nord (66,6%). Invece, per un terzo (34,3%) l’ascensore sociale è sceso verso il basso. Tale discesa coinvolge le persone al crescere dell’età (41,0% oltre 65 anni), chi ha un titolo di studio medio-basso (35,8%) ed è disoccupato (49,6%). Soprattutto, interessa chi risiede nel Mezzogiorno (43,2%) e chi appartiene al ceto medio-basso (41,7%) e basso (67,4%). Sono molto pochi (3,6%) coloro che hanno conosciuto una mobilità sociale ascendente e in modo pressoché esclusivo chi apparteneva al ceto medio-alto (11,1%).
Così, non solo siamo di fronte a un processo di polarizzazione delle condizioni economiche degli italiani, ma è evidente come si palesi anche un «effetto spirale» che sospinge verso una marginalità ulteriore chi già si trovava in difficoltà, da un lato. E, dall’altro, risucchi verso l’alto solo quanti occupavano già posizioni elevate. Parafrasando il compianto sociologo Bauman, più che «liquido», l’Italia è un Paese «vischioso», dove l’ascensore sociale funziona poco o, quando funziona, è altamente selettivo. Ripresa economica lenta e mobilità sociale bloccata sono due ostacoli da rimuovere velocemente per costruire il futuro del paese.
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La disoccupazione giovanile ritorna sopra il 40 per cento Da Grillo alla Cgil: il Jobs Act non funziona. In un anno +242 mila posti ma molti precari Luigi Grassia Busiarda 1 2 2017
Allarme rosso per la disoccupazione giovanile, la maledizione del mercato del lavoro italiano: la percentuale di ragazzi fra i 15 e i 24 anni che cercano un impiego e non lo trovano è risalita sopra quota 40 nel mese di dicembre. L’Istat li conteggia al 40,1%, in aumento di 0,2 punti rispetto a novembre e al livello più alto dal giugno del 2015.
Per la verità l’Istituto attribuisce questa variazione sfavorevole non all’economia ma alla demografia: spiega che «al netto degli effetti demografici, a dicembre 2016 la prestazione occupazionale delle persone di 15-34 anni risulta positiva, mentre la variazione negativa osservata è dovuta al calo della popolazione in questa classe di età».
Ma le reazioni politiche, da destra e da sinistra, non accettano attenuanti. «L’unico 40% del Pd è quello della disoccupazione giovanile» twitta Beppe Grillo per il M5S, aggiungendo che «il ministro Poletti è l’unico che con il Jobs Act ha trovato un posto stabile». Secondo Renato Schifani (Forza Italia), «il dato superiore al 40% chiude il ciclo delle bugie sull’utilità del Jobs Act e delle altre riforme del mercato del lavoro. Altro che svolta o miracolo renziano». Stessa musica dalla Cgil: «La disoccupazione giovanile al 40,1% è la vera emergenza sociale del nostro Paese - dice la segretaria confederale Tania Scacchetti -. Nessun commento ottimistico può accompagnare i dati dell’Istat. Il mercato del lavoro è fermo e i tentativi di riforma non lo hanno fatto ripartire».
Le cose vanno meglio nelle altre fasce di età, in particolare per gli ultracinquantenni, che aumentano addirittura di 410 mila unità, e questo permette di riequilibrare il conteggio complessivo facendo sì che a dicembre la somma degli occupati in Italia resti sostanzialmente invariata rispetto a novembre (+1000 unità) mentre c’è una crescita complessiva di 242.000 nel confronto con il dicembre del 2015 (+1,1%).
Andando a scorporare i numeri, sono aumentati i lavoratori dipendenti con +226.000 unità (ma soprattutto grazie ai contratti a termine, +155.000) mentre gli indipendenti sono diminuiti.
L’aumento dei lavoratori di età superiore ai 50 anni si deve a vari fattori, fra cui il posticipo dei pensionamenti a causa della legge Fornero sulla previdenza, che trattiene sul posto di lavoro un maggior numero di anziani rispetto a quanto succedeva fino a un recente passato.
Un altro indice importante, il tasso di disoccupazione generale, a dicembre è risultato del 12%, stabile rispetto a novembre e in rialzo di 0,4 punti su dicembre 2015; si tratta del livello più alto da giugno 2015 (12,2%). I disoccupati sono 3.103.000 con un aumento di 9.000 unità su novembre e di 144.000 su dicembre 2015.
L’aumento contemporaneo del numero dei lavoratori e di quello dei disoccupati si accompagna alla riduzione del bacino degli inattivi (cioè di coloro che non hanno un’occupazione e non la cercano): a dicembre le persone che rientrano in questa categoria fra i 15 e i 64 anni sono diminuite di 15.000 unità rispetto a novembre e addirittura di 478.000 rispetto al dicembre del 2015. Il tasso di inattività è stabile sui minimi storici al 34,8%. Anche il tasso di occupazione è stabile, al 57,3%. Quanto alla distribuzione del lavoro fra i due sessi, dice l’Istat che a dicembre rispetto a novembre si registrano un aumento per la componente maschile e un calo per quella femminile.
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