giovedì 26 gennaio 2017

La lotta di classe è anzitutto una lotta per il riconoscimento della comune umanità dei subalterni



L’operaio torna 

Trattato in modo astratto, usato strumentalmente dalla politica populista, dimenticato dalla sinistra Ecco perché il tema dei lavoratori deve recuperare dignità nel dibattito pubblico

MARION FONTAINE Rep 25 1 2017
Una delle esigenze più antiche del movimento operaio, fin dalla sua formazione, nel XIX secolo, riguardava una questione di onore, di dignità, di fierezza, perfino. Di fronte a saggisti che per molto tempo avevano visto il proletariato dei sobborghi come una massa di barbari o selvaggi, gli operai organizzati cercavano di affermare il proprio ruolo, la specificità del loro apporto in quanto produttori e il loro valore morale. Gran parte del lavoro dei rappresen–
tanti operai, che fossero sindacalisti, intellettuali o politici, è consistita nell’operare questa restituzione di dignità di gruppo. È noto quanto le lotte per il riconoscimento delle identità (in materia di genere, di identità culturale, religiosa, sessuale) e contro le diverse forme di stigmatizzazione che vi sono associate, oggi siano penetrate nello spazio pubblico. Ma bisogna spingersi oltre questa frequente analogia tra le lotte sociali di un tempo e le lotte culturali, sessuali o razziali di oggi. Chi osserva infatti con un po’ di attenzione la società non può non rimanere colpito dal gioco perverso del disprezzo e delle umiliazioni in cui sembra trascinata. Al di là dell’ormai inflazionata divisione tra popolo ed élite, a volte si ha l’impressione di vedere una società di caste, dove ogni gruppo disprezza l’altro e dall’altro si sente disprezzato, incompreso, con tutti gli stalli e le incomprensioni che questo comporta.
Questa dinamica dell’umiliazione e del disprezzo colpisce direttamente degli strati popolari che, come nel XIX secolo, vengono investiti in pieno dai processi di stigmatizzazione, senza che vi sia più granché a ostacolarli. Dagli anni Ottanta sono diventati nella migliore delle ipotesi un soggetto comico. Nella peggiore, sono tornati a essere un elemento di paura, sia che l’oggetto della denuncia siano i “barbari” delle città, in preda alle sirene dell’islamismo, sia che siano i “barbari” delle campagne e delle periferie urbane, nuova manovalanza dell’estrema destra e del razzismo.
Di fronte a tutto questo, le varie sinistre faticano a trovare le soluzioni adatte e ad assolvere a quel ruolo di restituzione della dignità che per molto tempo era stato il loro. Le ragioni di questa difficoltà sono molteplici. Hanno a che fare senza dubbio con la persistenza della vecchia idea che l’unica cosa che conta sia la dimensione economica – la crescita, la produzione ecc. – e addirittura, spingendosi un po’ più in là, con la rinascita di quel pregiudizio che consiste nel pensare che le classi popolari in fondo si disinteressino all’azione democratica, al loro posto nella polis, e reclamino soltanto l’efficacia e l’autorità dello Stato.
Sembra soprattutto che le sinistre non riescano ancora ad uscire dal dilemma, anche questo antico, tra miserabilismo e populismo. O fanno delle classi popolari una massa alienata, perduta alla causa, a meno che non torni a essere guidata (anche se non è troppo chiaro come), oppure oscillano tra l’idealizzazione delle classi popolari di una volta e l’esaltazione di un improbabile nuovo soggetto rivoluzionario che sostituisca il proletariato perduto.
Lo storico, a dire il vero, rimane stupefatto nel vedere che all’inizio del XXI secolo molti a sinistra continuino a considerare il popolo, o il suo sostituto, come un mito, demonizzandolo o idealizzandolo, ma in ogni caso operando una serie di astrazioni e di essenze, senza curarsi della pluralità di appartenenze e aspirazioni che caratterizzano anche le classi popolari. Si può essere discendente di immigrati e riconoscersi nella sinistra repubblicana o radicale; si possono avere dei genitori della “vecchia” classe operaia bianca ed essersi convertiti all’islam; si può perfino nutrire indifferenza per tutto questo… Le classi popolari non sono un mito né un’essenza, sono, come il resto della società, attraversate da una profonda ricerca di riconoscimento, di fierezza, anche se si esprime in maniera incredibilmente sparpagliata e frammentata. Come costruire una politica di sinistra che sappia darvi risposta?
In questo ambito circolano delle idee, dei pensieri, anche se non sempre vengono ripresi: si pensi alla tematica del care (cura, protezione, benevolenza reciproca), introdotta brevemente alcuni anni fa e poi scomparsa senza che fosse stato possibile valutare realmente quanto potesse essere feconda.
In quest’ottica sembra opportuno evidenziare una serie di direttrici importanti. La prima concerne il rapporto fra i politici e i cittadini: non si tratta tanto di sognare un’improbabile fusione, quanto una relazione che metta da parte i miti, come le fantasticherie dell’incarnazione in un solo individuo, e lavori al contrario a una forma di grandeur democratica: dei rappresentanti degni, che non vedano i cittadini, soprattutto quelli delle classi popolari, solo come una clientela, degli assistiti o dei protégés, ma come portatori di futuro, con i doveri, anche per i cittadini, che questo ruolo comporta.
Un’altra posta in gioco importante riguarda la capacità di una politica di sinistra di riconoscere le appartenenze e le identità specifiche, ma innanzitutto nelle loro potenzialità di apertura e universalità: la sfida consisterebbe, in altri termini, nella capacità di uscire dal dibattito, ormai inflazionato, tra assimilazione e comunitarismo. Si tratterebbe quindi di riconoscere l’apporto delle culture operaie e migranti non nell’ottica di quello che hanno comportato come esclusione, ripiegamento su loro stesse, violenza, ma nella loro dinamica di apertura e invenzione. Di salutare la capacità di esprimere la solidarietà e l’identità in organizzazioni collettive, la pratica antica degli orti urbani per quello che implica come interesse allo sviluppo duraturo, la maniera di articolare le appartenenze (professionali, politiche, culturali, locali).
La posta in gioco è riconoscere agli individui e ai territori l’importanza di queste esperienze per aprirle verso qualcos’altro e trasformarle nei semi dell’avvenire. Bisognerebbe infine – ed è fondamentale – dimostrare che la dignità, come il rispetto reciproco e la solidarietà, non è solo un proclama o una carezza simbolica, ma può rappresentare una preoccupazione che impregna le norme giuridiche e le politiche pubbliche, che siano fiscali, sociali o anche educative.
Chi ha parlato di benevolenza all’interno del sistema scolastico, in questi ultimi anni, è stato accolto da sberleffi (o indignazione, a seconda dei temperamenti). È lecito tuttavia ritenere che, per mettere fine alla spirale del disprezzo e dell’umiliazione, si potrebbe cominciare da lì, e che amplificare ulteriormente lo sforzo di democratizzazione e benevolenza a scuola probabilmente non farebbe male, al contrario.
Sono più che consapevole che si sta parlando di un compito di lunghissimo termine, che non si esaurisce nell’arco di un’unica scadenza elettorale e che non può essere circoscritto alla sola sfera politica nel senso stretto del termine. Avrebbe senso, e dimostrerebbe coraggio, cominciare quantomeno a intraprenderlo.
Marion Fontaine è membro dell’Istituto universitario di Francia e ricercatrice presso il Centro Norbert Elias © Le Monde ( Traduzione di Fabio Galimberti)
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