domenica 29 gennaio 2017

L'estetica di Sloterdijk


Risultati immagini per Peter Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’artePeter Sloterdijk: L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina editore, a cura di Pietro Montani, pagg. 193, euro 19

Risvolto
L’estetica di Sloterdijk non è semplicemente una filosofia dell’arte, ma anzitutto un modo eminente di fare filosofia. Al centro della riflessione che attraversa i saggi qui raccolti è la questione dell’aisthesis – la sensazione o sensibilità – nella sua più ampia declinazione. Da un lato si attribuisce all’arte “in senso stretto” uno spazio eccentrico rispetto alla norma, dall’altro si fa valere un modo alternativo di guardare all’esperienza estetica, riconoscendole un ruolo guida nelle scelte consapevoli e nelle condotte inconsapevoli dell’essere umano. Così concepita, l’estetica possiede un profondo potere euristico: ci aiuta a capire che tipo di mondo ci siamo costruiti, come ci “sentiamo” in questo mondo e in che modo potremmo cambiarlo, cominciando da noi stessi.
Con lo stile incisivo e la profondità analitica che gli sono propri, Sloterdijk affronta un ampio spettro di questioni tradizionalmente assegnate alla dimensione estetica – dall’architettura alla musica, dal design alla pittura, dalla forma della città alla letteratura – inquadrandole nella sua originale e innovativa antropologia filosofica.


Il lungo viaggio di Sloterdijk nel populismo dell’arte 
ANTONIO GNOLI Rep 27 2 2017

Una raccolta di saggi di estetica in cui il filosofo tedesco s’interroga sullo statuto di un’opera in tempi in cui domina il mercato. Più che puntare sulla visibilità, sostiene, è utile che essa ripieghi su se stessa

Il giorno in cui il busto o la faccia di Donald Trump diventeranno un’opera, magari con la firma di uno dei grandi guru dell’arte internazionale avremo la rivelazione di che cosa sia il destino dell’oggetto artistico nel tempo della povertà (o morte) dell’arte. Mi veniva in mente questo bizzarro (e forse improbabile) artefatto leggendo il nuovo libro di Peter Sloterdijk: L’imperativo estetico (Raffaele Cortina, a cura di Pietro Montani), un’acrobatica riflessione di un pensatore che vanta un’opera monumentale come Sfere, tanto barocca e immaginifica, quanto interessante per capire fin dove si sia potuto spingere il pensiero post-heideggeriano. A differenza di Heidegger, tuttavia, Sloterdijk è consapevole dell’imbarazzo che si proverebbe nel chiedersi cosa sia un’opera d’arte, almeno da quando il venerando statuto che ne doveva imprimere il sigillo di autenticità (e verità) è stato ridotto a carta straccia.
Nel frattempo sulla linea ferroviaria Duchamp-Warhol-Hirst hanno viaggiato treni colmi di oggetti e di idee che elettrizzano critici e mercanti. Con la conseguenza che, passando dalla comprensione critica al consenso magico dell’opera, si è realizzata una delle prime forme efficaci di populismo mediatico: il populismo dell’arte. Se l’opera non ha più un’essenza, un fondamento, risulta evidente che per decifrarne il valore non ci si richiami più al concetto di bello o di bene. Su questa deriva ontologica l’estetica di Sloterdijk intende aprire nuove strade.
L’arte, come sistema di invidie e oggetti del desiderio, è sempre più vincolata alle oscillazioni di mercato; all’impasto di arbitrarietà feticistica e convenienza commerciale. Come uscire, allora, dal sospetto che un’opera possa essere né più né meno l’equivalente di un titolo tossico? Sloterdijk sa essere meno brutale quando sostiene che nel XX secolo c’è stato un inesauribile ampliamento del concetto d’arte. Ma se tutto può fregiarsi del suo nome — comprese le lavatrici, i guanti da Baseball e le calze della nonna — allora anche ciò che è stato toccato dalla vita dell’artista può convertirsi in arte. «Se fosse stato giuridicamente possibile», scrive Sloterdijk, «Andy Warhol avrebbe venduto a qualche facoltoso collezionista tutti i percorsi stradali newyorkesi che aveva trasformato in opere d’arte per il solo fatto di averci passeggiato ». Un possibile senso di questa frase è che l’artista, nella sua ultima reincarnazione, somiglia alle immagini dei santi che operano sul piano dei miracoli. Il numinoso dell’opera si trasferisce nel gesto taumaturgico del nuovo sciamano.
C’è stato un tempo in cui l’opera o il gesto che ne produceva la forma erano imprescindibili da un senso di felicità (si pensi a un quadro di Tiepolo o di Watteau). Il fatto che questa traccia di inebriante, euforica leggerezza sia scomparsa, prova non solo la tristezza ma anche l’inesorabile crepuscolo dell’opera. È un tramonto che fa concepire a Sloterdijk l’idea che l’arte debba rinunciare a gettarsi a capofitto nella prima linea della visibilità. All’arte da parata egli preferisce l’arte che ripiega su di sé. Non chiediamoci perciò cosa sarà il futuro dell’arte. Anche perché il futuro è per Sloterdijk un enorme deposito di rate non pagate, di debiti pubblici che gli Stati hanno contratto e che nessuna generazione a venire sarà mai realmente in grado di onorare. Viviamo sull’orlo di un vulcano. E non ha senso che, in un’epoca di devastazione, la grande arte (o presunta tale) creda contemporaneamente a se stessa e all’applauso della folla. Dunque che fare?
Sloterdijk ci propone un’inedita alleanza tra arte del vivere, arte medica e arte tout court. Non critiche ideologiche ma terapie intensive. In questo destino si decide un futuro possibile per le società occidentali. Venuto meno il perno su cui la modernità ha costruito il suo sistema, ossia il lavoro salariato (sempre più indebolito), ne consegue che anche l’etica del lavoro non abbia più molto senso. Il bivio secondo Sloterdijk è segnato: da un lato c’è una possibile arte del vivere in grado di sviluppare nuove forme di vita; dall’altro, se la sfida fallisse, non è difficile pronosticare un’epoca di brutalità e di imbarbarimenti post-storici. L’alternativa insomma è tra il criminale e il perdigiorno, ultima reincarnazione del dandy e del flâneur. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Lo stato d’eccezione dell’arte applicata 
Saggi. «L’imperativo estetico. Scritti sull’arte» del filosofo Peter Sloterdeijk per Raffaello Cortina Editore 
Massimiliano Guareschi Manifesto 24.3.2017, 20:19 
Nel 1983 usciva in Germania Critica della ragion cinica di Peter Sloterdijk, anomalo caso di un libro di filosofia tutt’altro che divulgativo dallo straordinario successo in termini di copie vendute, prima in Germania, poi in Francia e in altri paesi. La rivalutazione del cinismo antico, che in quegli stessi anni per una singolare coincidenza coinvolgeva anche Michel Foucault, giocata in quel volume come antidoto al «cinismo moderno», non suscitò particolari attenzioni in un paese come il nostro, tradizionalmente assai ricettivo nei confronti delle novità emerse in giro per il mondo. 
IN SEGUITO, SLOTERDIJK avrebbe consolidato la sua fama come pensatore, specie a partire dai tre volumi di Sfere, una sorta di Essere e spazio o, meglio, di Essere e cerchio che costituisce forse il più elaborato tentativo di concettualizzare in termini filosofici la problematica della globalizzazione. Parallelamente, il filosofo tedesco, ha acquisito una notevole visibilità, anche mediatica, in forza delle sue qualità di brillante polemista sui temi del presente, indulgendo talvolta alla boutade (non sempre felice) e al gusto della provocazione. 
In Sloterdijk abbiamo la non sempre facile convivenza di due vocazioni, quella del filosofo e quella del saggista. Il filosofo procede per costruzioni concettuali, in reazione a un fuori che lo stimola e perturba, che lo costringe a pensare. Il saggista, invece, parte dal contingente, dal singolare, e lo complica intrecciandolo con il concetto. Nei testi di Sloderdijk, anche i più teoreticamente impegnati, le due prospettive si intersecano costantemente, con i vantaggi e i limiti che ne conseguono. 
SUL PRIMO VERSANTE è senza dubbio da porre la capacità di Sloderdijk di gettare uno sguardo inattuale sull’attualità a partire non da generici universali ma da concreti stati di cose, da tendenze in atto, dalle curiosità per singoli aspetti del reale considerati nella loro specificità spazio-temporale. Sull’altro, nella trama di una prosa brillante, si può notare come il procedere concettuale di Sloterdijk si faccia portatore di una promessa, o di un’aspettativa, di sistematicità che resta inappagata o consegnata alla dimensione dell’implicito, dell’allusivo, del differito lungo le sequenze di ricche digressioni. In sintesi, la lettura di un libro di Sloterdijk offre al lettore qualche momento di vertigine teorica, punti di vista eccentrici su problematiche spesso usurate, accostamenti arditi fra prospettive. 
E tuttavia, quando, si tratta di definire i tratti sistematici che costituiscono la specificità del suo pensiero, il piano su cui i concetti emergono come singolarità richiamandosi reciprocamente, subentra un’immediata difficoltà e la sensazione di essersi smarriti. 
I tratti su cui si è richiamata l’attenzione trovano conferma in L’imperativo estetico. Scritti sull’arte (Cortina, pp. 198, euro 19), traduzione parziale di una raccolta di saggi pubblicata in Germania nel 2014. Dal volume non è lecito attendersi né una filosofia dell’arte sistematica né la proposta di un’estetica precettiva e normativa, due operazioni forse ormai anacronistiche e presumibilmente consegnate alla storia. 
PARADOSSALMENTE, ma forse non è così, quasi assenti sono anche l’arte e le opere, a riprova del difficile nesso, quasi un’impossibilità o un imbarazzo generalizzato, che segna da qualche decennio il rapporto dell’estetica come ramo della filosofia con ciò di cui dovrebbe occuparsi. Il richiamo all’estetica, quindi, vale qui in senso soprattutto percettologico e antropologico, come condizione di quell’homo aesteticus che problematicamente si intreccia e sovrappone, in configurazioni variabili, all’homo sapiens e all’homo faber. 
IN DIALOGO con visual e media studies, neuropsicologia e antropologia, si propone come centro unificatore di una possibile estetica antropologica il concetto di «presenza mentale», che di fatto, al di la delle ribadite istanze antidualistiche con cui lo si caratterizza, resta alquanto oscuro. Al di là dell’elusività del loro centro unificatore, tuttavia, i contributi raccolti in L’imperativo estetico disegnano un ricco itinerario fra temi e problemi che spaziano dalla perdita dell’altrove all’ontologia del debito o dalle «radici uterine» del demoniaco musicale. 
Due saggi, poi si segnalano in particolare. In primo luogo il brillante esperimento di antipolitologia «La citta e il suo contrario», in cui vengono convocate dieci audizioni di testimoni autorevoli, da Platone a Baudelaire passando per Timone il misantropo, per mostrare come il fenomeno urbano occidentale si fondi su una dialettica fra politicità e apoliticità, fra cittadini e disertori, «riuniti e non-riuniti», fra «la somma di coloro che vanno a costituire la città e di coloro che mirano a estranersene». Il secondo, invece, «L’attrezzatura della potenza», si concentra sul design, ultima riserva di quel bello estetico ormai definitivamente trasmigrato dai mondi dell’arte. Sloterdijk assume quell’«arte applicata» come nucleo paradigmatico ed egemonico di una modernità persistente, con il suo orientamento al futuro e all’infinta perfettibilità/migliorabilità. 
Ne deriva l’evocazione di una sorta di «stato di eccezione permanente nelle questioni relative alle forme delle cose» in cui il designer emerge come fornitore di «effetti simulati di sovranità» e «di armi per le lotte di potere fra i titolari di quel capitale variabile che circola sotto forma di merci in corso di miglioramento».

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