domenica 29 gennaio 2017

Lo scontro geopolitico del XXI secolo



XI JINPING E TRUMP UNO È DI TROPPO 
CINA e Stati Uniti sono in rotta di collisione.

LUCIO CARACCIOLO Rep 29 1 2017
Con paradossale inversione dei ruoli classici, Xi Jinping si offre al mondo come araldo della globalizzazione e alfiere dell’economia verde. Per questo usa financo la tribuna di Davos, sancta sanctorum dell’élite capitalista. Donald Trump si erge a campione del protezionismo. Non essendo né filosofi né moralisti, entrambi considerano le rispettive strategie in linea con gli interessi nazionali. La Cina ha bisogno dei mercati mondiali, a cominciare da quello americano. Di più: i mandarini al potere sanno che il crollo delle esportazioni potrebbe comportare la loro fine. Gli Stati Uniti — non solo la nuova amministrazione — accusano i cinesi di barare al tavolo del commercio, mettendo a repentaglio benessere, coesione e sicurezza della superpotenza. E virano verso una strategia di strangolamento della Cina, dopo il pallido contenimento obamiano.
L’offensiva di Trump ha una componente retorica che si esprime anche nel linguaggio diretto, a uso e consumo del suo elettorato. I cinesi conoscono questa tecnica. Non era Mao stesso a scherzare con Kissinger sulle “cannonate a salve” che di tanto in tanto si divertiva a sparare per mobilitare la sua gente e spaventare i nemici? Ma la stagione dell’allineamento antisovietico fra Washington e Pechino è passato remoto. Allora i leader dei due paesi si intendevano (quasi) al volo perché coltivavano il medesimo disegno in quanto coerente con la rispettiva geopolitica. Nel tempo le strategie si sono divaricate. Non ci si sforza troppo di entrare nella testa altrui, o lo si fa attribuendo all’interlocutore la propria logica. Codici culturali, stereotipi e pregiudizi disturbano la comunicazione fra leader cinesi e americani. Quando Obama discuteva con Hu o con Xi non ne usciva un dialogo, solo due monologhi paralleli. Possiamo figurarci quale empatia muoverà Trump e Xi. Non capirsi è grave sempre, ma diventa pericoloso in tempi di crisi. Perché la contrapposizione sino-americana non è mera propaganda, discende dal conflitto fra interessi difficilmente componibili.
Nello Stato profondo americano, specie nei suoi laboratori strategici, si è affermata l’immagine della Cina rossa come nemico mortale. Molto più potente di quanto non sia, tanto da obbligare alla pianificazione bellica. Scarto analitico tipico del complesso militar-industriale, già sperimentato nei confronti dell’Urss. La rivoluzione geopolitica tratteggiata da Trump, con l’evocazione di pesanti barriere tariffarie (non solo) anti-cinesi e la minaccia di rimettere tutto in discussione, a partire dal tabù della Cina Unica, è figlia di questo clima. Al fondo, la certezza che la Cina dipenda dal mercato americano più di quanto gli Usa dipendano dall’importazione di capitali cinesi. I quali sono percepiti come cavalli di Troia che mirano a scassinare i forzieri tecnologici americani per saccheggiarli, minando la sicurezza nazionale.
Un grande compromesso implicherebbe uno sforzo di sobrietà a Pechino e a Washington. Non occorre particolare acume strategico per rendersi conto dell’improbabilità delle aspirazioni cinesi. Basterebbe osservare la formidabile diaspora: come può un popolo che non si integra nel mondo aspirare a integrarlo? Né pare astuto da parte americana scatenare un’offensiva preventiva — una Pearl Harbor rovesciata sotto forma di muraglie tariffarie — contro lo sfidante cinese, elevato a minaccia esistenziale. La storia recente insegna che gli Stati Uniti perdono o pareggiano le guerre che combattono, vincono quelle che non combattono.
Xi e Trump hanno in comune la volontà di rifare grandi i rispettivi imperi. Due Numeri Uno sono troppi. Chi volesse sfidare questa legge potrebbe scoprire che alla fine è più facile non ve ne sia nessuno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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