giovedì 19 gennaio 2017

Per i "liberali" italiani la democrazia è stata sin troppo moderna. Craveri critica la Prima Repubblica

Piero Craveri: L’arte del non governo, Marsilio

Risvolto
Questo libro è una storia dell’Italia repubblicana in cui si ricostruiscono sincronicamente gli aspetti istituzionali, politici ed economici del processo che ha portato all’attuale situazione del paese. Al volgere di un ciclo storico, Piero Craveri ripercorre, partendo dalla Costituente, il cammino di rapida ascesa economica dell’Italia per cogliere i fattori del suo mancato consolidamento e del suo lento e inesorabile declino. Le responsabilità di una classe dirigente rimasta troppo arretrata per guidare un paese industriale, il sovrapporsi dei partiti all’attività dell’esecutivo e del Parlamento, un malinteso primato della politica sull’economia di mercato, sono solo alcune delle cause che emergono dall’analisi delle vicende repubblicane. Dalla sconfitta di De Gasperi alla difficile congiuntura del 1963-64, dalla crisi degli anni settanta alle occasioni mancate del decennio successivo, con Craxi, al superamento della seconda Repubblica, Craveri fa notare come, ben lungi dall’essere solo una questione economica, la posta in gioco di questa mancata «evoluzione» è la stabilità della democrazia. I principi che furono messi a fondamento dello Stato unitario sembrano venir meno e, al di là delle celebrazioni ufficiali, la Repubblica non ha saputo rinnovarli. Anche l’idea di Europa, che nel secondo dopoguerra ne è stata idealmente una prosecuzione, sembra dileguarsi. In questo scenario, dove sono le stesse istituzioni democratiche a essere messe in discussione in Occidente, le riflessioni di Craveri gettano luce sugli avvenimenti della nostra storia recente per individuare le ragioni profonde del declino e provare a porvi rimedio.  


Le sfide antiche della nuova Italia 
ROBERTO ESPOSITO Rep 18 1 2017
Nell’Intervista sul non governo, pubblicata nel 1977 da Laterza a cura di Alberto Ronchey, Ugo La Malfa scriveva: «La politica che abbiamo condotto da 10-15 anni a questa parte (dal 1962) ha compromesso l’inserimento dei giovani nella società», deteriorando il sistema produttivo oltre il limite di guardia. A richiamare queste parole, rimaste a lungo inascoltate, è adesso un poderoso volume di Piero Craveri, intitolato L’arte del non governo (Marsilio), che ne riprende l’ispirazione di fondo. Non soltanto in un realismo tendente al pessimismo, ribadito anche nel sottotitolo ( L’inevitabile declino della Repubblica italiana), ma anche nella datazione della crisi. In controtendenza con l’interpretazione corrente, Craveri ne individua l’origine in quei primi anni Sessanta, generalmente interpretati dalla storiografia come la stagione più felice della nostra storia recente. Naturalmente l’autore non nega l’espansione che condusse l’Italia, uscita in rovine dalla guerra, a diventare una delle prime potenze industriali. Ma vede quello sviluppo precocemente insidiato da una serie di limiti che la nostra Repubblica si è portata dietro.
Quali sono questi limiti? Intanto una mancata articolazione tra politica, amministrazione ed economia — la competenza economica dei dirigenti politici italiani è quasi sempre stata sotto la soglia di sufficienza. In secondo luogo l’inadeguatezza del capitalismo italiano a creare le strutture necessarie alla propria crescita, a partire dal settore, assai carente, dell’innovazione e della ricerca. Infine un riformismo fragile e presto interrotto, incapace di saldare gli interessi dei ceti dirigenti ai bisogni di quelli socialmente più svantaggiati. Quando, negli anni del boom, è iniziata la migrazione interna verso il Nord, non si è riusciti a supportarla con adeguati sostegni sul piano del welfare. Per la debolezza strutturale di tutte le culture politiche che pure avevano contribuito alla ricostruzione.
Nonostante alcune figure di indubbio spessore, da De Gasperi a Dossetti, a Moro, nel complesso al personale politico italiano è mancata una visione d’insieme del Paese. Così quando si è passati a quella che Craveri chiama la Repubblica dei partiti, presto degenerata in partitocrazia, a un malinteso primato della politica ha corrisposto quel deficit di governo che connota ancora oggi la democrazia italiana. Tutto ciò mentre il debito pubblico ha cominciato a impennarsi in maniera sempre più incontrollata, che solo i vincoli successivamente imposti dalla Unione Europea sono riusciti a contenere, mettendo però la politica italiana sotto tutela. L’avvento della seconda Repubblica, nei primi anni Novanta, non si è dimostrato in grado di invertire questo trend negativo. Anzi, se possibile, lo ha aggravato.
Mai come adesso le prospettive appaiono incerte e problematiche. Tornano di attualità le parole pronunciate nel 1954 da Ezio Vanoni, riportate da Craveri all’inizio del libro, su un’Italia a un bivio: «O saprà continuare ed intensificare lo sforzo condotto dopo la guerra per la sua rinascita e la sua ricostruzione, o la distanza con gli altri paesi è destinata ad accrescersi e il nostro destino potrebbe essere di cadere in condizioni quasi coloniali, dalle quali non sapremmo più riprenderci».

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