lunedì 27 febbraio 2017

Democrazia Proletaria




Il Pd tiene, solo il 2% ai transfughi La sinistra radicale resta sotto il 10 

Il sondaggio di Piepoli: bene i 5 Stelle, stabile il centrodestra 
Nicola Piepoli  Stampa 
Il Pd post scissione perde, ma non quanto ci si aspetterebbe visto l’aspro scontro che è andato in scena tra i vertici nelle ultime settimane.
Secondo le ultime intenzioni di voto raccolte dal nostro istituto per «La Stampa» il 22 febbraio scorso se il 32% dell’elettorato era disposto a votare il Pd prima della scissione, ora questa percentuale è scesa al 29%. Una flessione di appena il 3% che viene raccolta dall’area a sinistra del partito.
Le perdite sono state quindi piuttosto limitate e direttamente correlate ai territori dove gli scissionisti sono più forti. La mancata frana è dovuta ad alcuni fattori motivazionali. In primo luogo la perdurante presenza di Renzi nell’immaginario del partito come forza unificatrice e animatrice. In secondo luogo l’essere al governo. Chi governa sente su di sé precise responsabilità, tra qui quella - determinante - di indicare una via da percorrere. In terzo luogo le figure che sembrava uscissero dal partito e che all’ultimo momento hanno imboccato la via della trattativa. Tra queste figure assume particolare rilievo quella del presidente della Puglia Michele Emiliano. In termini numerici le figure contano meno in un partito di massa, ma Emiliano nelle ultime settimane si è ritagliato un ruolo carismatico e il suo restare dentro il Pd pesa nelle scelte dell’elettorato.
Allargando l’orizzonte, cosa è successo negli altri partiti mentre il Pd si scindeva? Si registra innanzitutto una crescita nelle intenzioni di voto in favore del Movimento 5 Stelle (+0,5%). Anche la Lega Nord guadagna la stessa percentuale. Questi spostamenti che possono sembrare marginali hanno effetti che possono essere più strutturali. Innanzitutto assistiamo a un avvicinamento tra la quota di mercato del Pd e quella del suo concorrente diretto, i Cinque Stelle. Mezzo punto è pochissimo visto dall’esterno, ma l’avvicinamento del M5S al Pd è rilevante. In secondo luogo la crescita della Lega Nord trascina un centrodestra che negli ultimi tempi sembra ormai inchiodato alle sue percentuali e con un livello di litigiosità e di inerzia che ne facevano un soggetto politico scarsamente appetibile per l’elettorato.
Infine il fatto che i transfughi del Pd per ora non si sono riversati tutti in uno stesso partito, la loro area di riferimento quindi risulta nel suo complesso marginalmente non compatta.
Questo emerge anche dai flussi nelle intenzioni di voto.
Guardando ai macroraggruppamenti possiamo notare che la scissione nel Pd nel complesso ha fatto perdere un punto percentuale all’area di centrosinistra, passata dal 38 al 37%. Il punto percentuale perso è stato equamente ridistribuito tra il centrodestra (+0,5% dovuto alla crescita di Salvini che ha portato l’area al 32,5%) e il Movimento Cinque Stelle (passato dal 27,5 al 28%).
Gli altri due punti percentuali, invece, sono confluiti nell’area politica che si pone a sinistra del Partito Democratico. Se prima della scissione la somma degli altri partiti di centrosinistra raggiungeva qualcosa come il 6%, nella nuova mappa politica quest’area potrebbe raggiungere l’8%. Questo a livello teorico visto che l’area mostra chiari segni di disomogeneità e al momento non ci sono all’orizzonte tentativi di unificazione sotto un’unica bandiera.
In definitiva alla domanda: «Chi ci ha guadagnato dalla scissione del Partito Democratico?» non è facile rispondere. Oggi come oggi possiamo dire che il mercato politico si è messo in movimento ma la direzione non è ancora ben percepita dall’opinione pubblica.
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“Siamo una start up, non nostalgici” 

Nascono i “Democratici e progressisti”. Speranza: non escludiamo le primarie Nel Pd Orlando all’attacco di Renzi: lui è andato in California, io andrò a Scampia 

Francesca Schianchi Stampa 
«Siamo una start up», dice Roberto Speranza, mentre compulsa su Twitter l’hashtag #nuovoinizio, dedicato all’evento. Una start up, «non una ridotta». Un «nuovo inizio», non un omaggio alla nostalgia. Per questo doveva essere una canzone dei Coldplay (che però alla fine non viene trasmessa) e non più Bandiera rossa la colonna sonora alla Città dell’Altra economia di Roma, a Testaccio, qui dove «scissionisti» del Pd – Speranza ed Enrico Rossi - e di Sel – capitanati da Arturo Scotto - danno vita a «Articolo 1- Movimento dei democratici e progressisti». In acronimo Dp, come Pd a rovescio: un nome però già usato alle regionali in Calabria nel 2014, e i detentori stanno valutando azioni legali.
È passata una settimana dall’incontro al Teatro Vittoria per lanciare la sfida a Renzi e ai dem: stesso quartiere rosso, meno pathos e un protagonista perso per strada (il governatore pugliese Michele Emiliano) ieri, per tenere a battesimo la nuova creatura. Nella piccola sala conferenze campeggia la scritta «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro», il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione, «nostro simbolo e nostra identità», chiarisce Speranza, per costruire «un movimento aperto che sia anche la costituente di un rinnovato centrosinistra». Qualcosa di ampio per ricucire gli strappi «col nostro popolo» procurati dal Pd su «scuola, Jobs act e ambiente»: «Il nostro blocco sociale sarà ampio», giura Rossi. 
Dall’altra parte, nel Pd che «ha esaurito la spinta di centrosinistra» è partita la corsa al congresso. Renzi è tornato dalla California, «io invece andrò a Scampia, allo Zen, a Quarto Oggiaro», lo punzecchia lo sfidante Andrea Orlando da Genova. «Quando Emiliano ha invitato a votare in questo modo: “Di qualunque partito siate, venite a votare contro Renzi”, ho capito che il congresso si trasformava in lotta greco romana, anzi lotta libera». 
Se vincesse il ministro della Giustizia, ha detto D’Alema, si potrebbe riaprire un dialogo col Pd, ma Speranza non conferma: «Quel congresso è un gioco delle figurine», mentre cerca di dare consistenza al loro progetto. Negli spazi riadattati dell’ex Mattatoio ci sono l’ex segretario Epifani e vari parlamentari che formeranno i nuovi gruppi, pronti a nascere tra domani e martedì. Una cinquantina di eletti: 13-14 i senatori, di cui sarà capogruppo una donna, probabilmente Doris Lo Moro o Cecilia Guerra; tra 38 e 42 i deputati: oltre ai 17 ex Sel, 21 certi in uscita dal Pd, più quattro ancora in dubbio. A guidarli, gli ex Sel vorrebbero Speranza, che però preferirebbe ritagliarsi il tempo di girare l’Italia a presentare il movimento e spinge invece per il quarantenne ex cuperliano Francesco La Forgia. Mentre qualcuno pensa al peso massimo: Pierluigi Bersani. Saranno gruppi composti per metà da deputati che arrivano dall’opposizione: eppure, assicura Speranza, il governo sarà sostenuto: «Anche gli ex Sel danno priorità al progetto politico». Dall’esecutivo, dopo l’adesione del viceministro Bubbico, ieri è arrivata la conferma di quella del commissario straordinario per il terremoto, Vasco Errani.
«Ve ne faremo vedere delle belle», promette Rossi, giacca e cravatta blu, «potevate dirmelo che era un’occasione informale», quasi si giustifica davanti a jeans e maglioncino di Speranza. Sono loro, con Scotto, a guidare il partito, pardon movimento – che ormai la parola partito non si usa più. Bersani e Massimo D’Alema lasciano a loro il palco (uno è a Piacenza, l’altro in Umbria), ieri meno solenne e affollato di una settimana fa. «D’Alema non è il frontman, non è candidato a nulla», ricorda Speranza. Si giocheranno fra loro il ruolo di leader: «Non escludo le primarie». Per ora arriveranno i gruppi, poi il simbolo, in gestazione in queste ore. Per un movimento «radicale nella proposta» ma con «solida cultura di governo».
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Nasce la nuova Dp “Non ci guida D’Alema” Scontro col governo “Referendum sul lavoro” 
Al via Democratici e Progressisti, col richiamo all’articolo 1 della Costituzione. Al momento 34 i parlamentari usciti. L’addio di Errani

MONICA RUBINO Rep
Mentre parte la corsa alla segreteria dem, dalla fusione fra i fuoriusciti di Pd e Sel nasce “Articolo 1 – Movimento democratico e progressista”. Il battesimo ufficiale del nuovo soggetto politico si è tenuto ieri a Roma alla Città dell’Altra economia, in una sala conferenze davvero troppo piccola per accogliere oltre ai giornalisti anche le decine di simpatizzanti e curiosi. Tocca a Roberto Speranza il compito di presentare quello che «vuole essere un percorso e un progetto di governo», per dare «una casa al popolo di centrosinistra e aperto alla cultura socialista, a quella cattolico-democratica, al civismo». Priorità al lavoro, simboleggiato dal primo articolo della Costituzione, ma anche alla scuola e all’ambiente, «offeso dall’inaccettabile “ciaone” al referendum sulle trivelle».
La parola “partito” viene evitata a favore di “movimento”, perché la nuova formazione «sarà popolare » e anti-populista, come dice il vicegovernatore del Lazio Massimiliano Smeriglio. E non vuole vivere solo nelle aule parlamentari, dove peraltro martedì nasceranno i gruppi. Ma è proprio in Parlamento che potrebbero sorgere le prime difficoltà, sul punto della lealtà al governo sostenuta dagli ex pd ma mai condivisa finora dagli ex sel. «Saremo maggioranza » afferma il governatore della Toscana Enrico Rossi, «siamo una forza di responsabilità», rilancia Guglielmo Epifani. Dall’altro lato Arturo Scotto, che ha lasciato Sinistra italiana per aderire a Dp , chiarisce: «Non vogliamo andare a votare subito, sosterremo il governo perché accompagni il Parlamento fino a una nuova legge elettorale e garantisca il referendum della Cgil». Ed è su quest’ultimo punto che potrebbe consumarsi il primo attrito con il Pd e il premier Gentiloni, che in Parlamento puntano a far approvare il ddl Damiano per riformare i voucher evitando la consultazione referendaria. Inoltre situazioni di equilibrio andranno trovate nelle Camere anche su altri provvedimenti, come le norme sulla sicurezza e i decreti attuativi della Buona scuola.
A parte le critiche a Renzi e al renzismo, all’evento di ieri sono state evitate parole taglienti verso il Pd perché, come ha detto Massimo D’Alema venerdì, se al congresso si affermasse Andrea Orlando, «le cose cambierebbero ». Le porte a un Pd “derenzizzato” non sono dunque sbarrate. Anche il commissario alla ricostruzione post terremoto Vasco Errani, che ieri ha dato il suo sofferto commiato al Pd per aderire alla sigla inversa Dp, spiega: «Vado in una nuova avventura, ma sono sicuro che non sarà un addio. Si tratta invece di provare a ritrovarci in un altro progetto, diverso da Ulivo e Pd, ma con quella ispirazione».
Tuttavia non saranno tutte rose e fiori. Le prime grane cominciano proprio dal nome: “Democratici e Progressisti” si chiamava infatti già una lista che nel 2014 appoggiò in Calabria Mario Oliverio, eletto governatore. E in casa dem sono già pronti a ricorrere agli avvocati.
I numeri dei nuovi gruppi in Parlamento non si discostano più di tanto da quelli già trapelati nei giorni scorsi: alla Camera saranno 21 gli ex dem, 17 i fuoriusciti di Sel. Con qualche sorpresa dell’ultimora, come ad esempio il centrista Nello Formisano, oggi nel gruppo Misto, che ha annunciato il suo passaggio a Dp. Il capogruppo a Montecitorio potrebbe essere proprio Speranza, anche se gravato dai troppi impegni legati all’avvio del movimento in giro per l’Italia. Al Senato il gruppo sarà formato da 13 senatori, tutti ex pd, e il capogruppo sarà una donna, forse Doris Lo Moro, la madrina della legge sullo ius soli. E non a caso ieri ha parlato la giovane Elvira Ricotta Adamo, in rappresentanza del movimento “Italiani senza cittadinanza”.
Presente, in veste di osservatore, anche Stefano Fassina di Sinistra italiana. Assenti invece i “padri nobili” Pier Luigi Bersani e D’Alema. Di lui Speranza chiarisce: «Non è il frontman, non è candidato a nulla».
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