mercoledì 1 febbraio 2017

La sinistra italiana sempre angosciosamente lacerata tra chi vuole andare con il PD subito e chi dopo le elezioni







Scotto: «Stop alla lotta fra noi. Si va verso il voto, serve la gestione collegiale» 

Sinistra italiana/Intervista. Il candidato: quello che succede oggi nel Pd non può lasciarci indifferenti. Cambiamo la ragione sociale del congresso, Trasformiamo l’assise di Rimini in un appuntamento aperto per allargare il campo. Dobbiamo aprire, non chiudere. Non è l’ora delle lacerazioni. Non ho paura di perdere, non c’è un problema di tessere. Ma possiamo dividerci tra di noi su scenari ipotetici e senza capire dove sta precipitando il paese?

Daniela Preziosi Manifesto 31.1.2017, 23:59 
«Trasformiamo il congresso di Rimini in un grande appuntamento aperto in cui ritrovare il senso di una comunità e in cui rilanciare, allargando il campo, avendo il coraggio di riorganizzare una sfida. Dobbiamo aprire, non chiudere. Alziamo lo sguardo, cerchiamo nuove risposte. Cambiamo la ragione sociale del congresso, facciamone una tappa politica, non la nostra blindatura organizzativa». È l’appello, quasi drammatico, del capogruppo alla Camera di Sinistra italiana, candidato segretario a congresso. 

Sta chiedendo di fermare la macchina a una settimana dai congressi locali e a poco più di due dall’assise di Rimini? 

No. Sto chiedendo di fermare la conta. Riapriamo una riflessione a tutti i livelli. 

Ha paura di perdere? 

No. Ho paura che il congresso, se celebrato totalmente fuori sincro dalla fase politica che stiamo vivendo, e cioè dalla precipitazione elettorale che si determina in queste ore, non diventi un nuovo inizio ma anzi sia un fatto del tutto irrilevante. Non è l’ora delle lacerazioni, è l’ora della riflessione e dell’unità. Chiedo a tutti un supplemento di riflessione, non drammatizziamo la nostra discussione tra apocalittici e integrati. 

Il suo appello nasce dal segnale di scissione dal Pd che ha dato D’Alema sabato scorso? 

Siamo oggettivamente di fronte a uno scenario nuovo. L’assemblea dei Frentani e la nascita di una nuova associazione, ConSenso, le prese di posizione del presidente Emiliano, una discussione sempre più esplicita nel Pd, costituiscono un fatto nuovo. E non solo: Renzi ha scelto l’avventura. Bisogna organizzare il campo di un’alternativa credibile alla sua deriva che rischia di consegnare il paese alla saldatura tra Lega e Cinque stelle. Un campo che abbracci i temi sociali sollevati da Laura Boldrini, la discontinuità richiesta finalmente anche da Giuliano Pisapia, la sinistra del Pd che solleva la grande questione della lotta alle diseguaglianze. 

Insomma propone l’alleanza con D’Alema? E se il Pd non si spacca e non si va al voto? 

Sinistra Italiana è nata intorno a un’idea forte: la presa d’atto dell’insufficienza di ciò che c’era, rifondare una forza della sinistra larga, popolare, con una cultura di governo. In grado di tenersi a distanza, allo stesso tempo, dai due vizi cronici degli ultimi vent’anni: la subalternità e la testimonianza. Noi siamo nati sotto questa stella. E abbiamo raccolto intorno a quel progetto, grazie alla generosità di tanti, energie e intelligenze. 

Non può portare questi temi a Rimini e prendere atto della scelta dei delegati? 

Ma possiamo dividerci tra di noi su scenari ipotetici e senza capire dove sta precipitando il paese? Nel corso degli ultimi mesi ho avvertito il rischio di un ripiegamento, di rassegnarsi all’ennesimo cartello della sinistra radicale, senza alcun peso nella società. Il No ricostruttore per un centrosinistra alternativo al renzismo e alla terza via ha aperto nuovi spazi. 

Ma non tutti i suoi compagni considerano il No «ricostruttore» del centrosinistra. 

Ma come si fa a non capire che siamo in un passaggio delicato, nel vortice di una transizione? Abbiamo cominciato a scrivere le nostre tesi congressuali con Renzi ancora a Palazzo Chigi, Obama alla Casa Bianca e nel punto di massima tenuta della grande coalizione europea di socialisti e Ppe. In poche settimane abbiamo vinto un referendum, è caduto Renzi, il Pd è alla vigilia di cambiamenti decisivi, Trump è stato eletto e rischia di determinare poco meno che una guerra con la Cina e un disastro nelle relazioni con il mondo arabo. Nel parlamento europeo socialisti e popolari si spaccano e in Francia nel partito socialista vince Hamon sulle parole d’ordine del reddito e della riduzione dell’orario di lavoro. È cambiato tutto. E noi non proviamo a fare una discussione larga, alta? Oggi, non domani, dobbiamo mettere al centro i temi del lavoro, del reddito, degli investimenti pubblici, della riconversione ecologica, dell’innovazione, di una nuova sinistra che ricostruisce l’ambizione del governo con un programma avanzato, radicale. 

Scusi, non è che sta prendendo atto che la sua area avrà meno delegati e quindi rischia di perdere e doversi adeguare a un’altra linea? 

Voglio essere chiaro: è l’esatto contrario. Comunque delle tessere parleremo in seguito, se sarà necessario, quando capiremo le decisioni del nostro organismo di garanzia. Oggi vorrei solo dire che tutte le posizioni in campo hanno lavorato per allargare la partecipazione al congresso: è un fatto positivo. Per me la priorità è stata convincere tante e tanti che non ci credevano più. Ora si tratta di garantire la massima partecipazione, a cominciare dai livelli territoriali. Ma il punto per me è: non voglio prendere parte a un talent show e ancora meno avvelenare la discussione interna. 

Potrebbe ritirarsi? 

La mia candidatura è a disposizione, è uno strumento e non un fine. Propongo che Rimini sia l’occasione per la costruzione di un campo largo dell’alternativa. Per farlo serve una gestione collegiale del gruppo dirigente, non una lotta fratricida. Se invece si negano queste novità lo si dica chiaramente.
D’Alema: pronta la mia lista Renzi: la sinistra vuole posti 

Il capo di ItalianiEuropei: Gentiloni risponde a Matteo e non agli italiani 

Francesca Schianchi  Busiarda
«Non sono preoccupati per l’Italia, ma per i posti in lista». Ritirato a Firenze, dove incontra a pranzo Diego Della Valle e dedica il blog alla proposta di un fisco più amico, scritta apposta contro Monti e l’ex ministro delle Finanze Visco, Matteo Renzi commenta con alcuni amici l’intervista di Massimo D’Alema rilasciata a «Cartabianca» su Raitre. Non l’ha vista in diretta, ma collaboratori e compagni di partito gli hanno spedito sms per tenerlo informato: minacce di scissione («se Renzi volesse sbaraccare tutto e chiedesse le dimissioni di Gentiloni, senza cambiare la legge elettorale, la reazione sarebbe una nuova lista»), corredate della sicurezza che «un nuovo partito di sinistra supererebbe il 10 per cento»; attacchi al segretario («vuole votare per un calcolo meschino: coi capilista bloccati garantirebbe se stesso e i suoi fedelissimi»); per la prima volta anche al premier Gentiloni: «Purtroppo - sillaba D’Alema in tv - dichiara di mettersi a disposizione delle direttive di Renzi: non dovrebbe farlo perché dovrebbe rispondere ai cittadini italiani».
E’ questo il clima che si respira in questi giorni nel Partito democratico. Destinato a peggiorare in queste due settimane, quelle che separano dalla Direzione decisiva del 13 febbraio. Oggi i vertici dem (arriverà a Roma anche il segretario) stenderanno il calendario degli incontri con le altre forze politiche, per cercare un accordo sulle modifiche della legge elettorale. Una verifica da fare molto alla svelta, in modo che il 13, convocato il «parlamentino» del partito, si scelga la strada da prendere: se ci sia un’effettiva possibilità di cambiare la legge, o se invece il rischio sia di impaludarsi in discussioni infinite, e allora convenga andare a votare con le due leggi attuali di Camera e Senato. «Se andiamo a votare nel febbraio 2018, ci arriveremo dopo che saranno scattati i vitalizi, dopo la legge di stabilità e dopo il referendum sui voucher, che spaccherà il partito. Davvero è il momento giusto?», elenca un fedelissimo renziano.
Il fatto è che prima delle urne la minoranza chiede il congresso. O, almeno, un appuntamento come le primarie, per potersi contendere il partito. Altrimenti c’è il rischio scissione, come ha detto D’Alema e pure Emiliano. «Ma perché quando erano segretari loro e facevano le liste elettorali era democrazia, e se le faccio io non va bene?», si sfoga Renzi con i suoi. «A me non importa nulla di seguirli su questi argomenti. Primarie? Dipende dalla legge elettorale, se saranno previste le coalizioni. Ma non è vero che sono accecato dalla ricerca di una rivincita: non escludo nemmeno di non essere io ad andare a Palazzo Chigi». 
Per ora, nella sede del governo siede Paolo Gentiloni: ieri ha incontrato la ministra dei Rapporti col parlamento Anna Finocchiaro, e i due capigruppo Zanda e Rosato. Sono stati messi in calendario tre decreti in scadenza. Per il resto, si vedrà dopo il 13 febbraio.
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L’obiettivo di Emiliano: 13 mila firme per bocciare le riforme di Matteo 

Il governatore pugliese a Franceschini e Orlando: mollatelo 

Amedeo La Mattina Busiarda 31 1 2017
Gli alleati che finora hanno garantito a Matteo Renzi il controllo del Pd sono in agitazione: vedono la scissione dietro l’angolo e stanno tentando di fermare l’ex premier nella sua corsa verso elezioni. Dario Franceschini, Andrea Orlando e Maurizio Martina vorrebbero favorire un accordo con gli oppositori interni che chiedono prima il congresso e poi le urne. Prima una verifica sulla linea politica, il programma e solo dopo chiedere agli elettori una nuova maggioranza per governare. Considerano Massimo D’Alema già perso, fuori dal partito, mentre intrattengono colloqui con Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e con Michele Emiliano. 
Il governatore pugliese ha due colpi in canna: chiederà che l’ultima Assemblea nazionale del Pd venga invalidata, perché si è svolta e ha deliberato senza avere il numero legale. Nell’Assemblea del 18 dicembre venne deciso che il congresso non sarebbe stato anticipato e si sarebbe svolto a scadenza naturale ovvero nel dicembre del 2017. E comunque, ha ribadito ieri il presidente del partito Matteo Orfini, lo statuto non consente di celebrarlo prima di giugno. 
«Renzi si nasconde dietro un articolo per paura del confronto: se fosse un uomo di Stato, se avesse a cuore il partito, non avrebbe alcun timore», si infiamma Francesco Boccia che si muove all’unisono con Emiliano. «Se non convoca il congresso è un codardo, roba penosa, da partito personale», aggiunge il presidente della commissione Bilancio della Camera. Boccia sta lavorando alla costituzione di un comitato nazionale che raccolga le firme per chiedere alla presidenza del Pd di convocare referendum interni per smontare le scelte strategiche del governo Renzi: scuola, banche e lavoro (jobs act). La possibilità di chiedere consultazioni referendarie interne è previsto dall’articolo 27 dello statuto. A farne richiesta possono essere il segretario nazionale, la direzione nazionale con il voto della maggioranza assoluta dei suoi componenti, il 30% dei componenti dell’Assemblea nazionale oppure il 5% degli iscritti. Ecco, questa è l’ipotesi su cui si muovono Emiliano e Boccia: il 5% dei 250 mila iscritti nel 2015-16 è pari a 13 mila firme. «Ce la possiamo fare - dice Boccia - perché riceviamo richieste a formare comitati da tutta l’Italia».
Emiliano è pronto a tutto per evitare «disastrose» elezioni a giugno. È pronto pure alla battaglia delle carte bollate, puntando appunto ad invalidare l’Assemblea del 18 dicembre. Ma il governatore pugliese, che è disposto a candidarsi alla segreteria in alternativa a Renzi, vorrebbe trovare una soluzione unitaria.
Assicura che se al congresso (anticipato però) vincesse Renzi, sarebbe il primo a sostenerlo. La verità è che Emiliano non crede che Renzi voglia il dialogo. Agli alleati del segretario che vogliono fermare la scissione, ha spiegato che Renzi non ha interesse ad un accordo. Anzi vorrebbe che D’Alema, Bersani, Emiliano e tutti coloro che si oppongono alla sue scelte politiche togliessero il disturbo. Renzi così potrebbe farsi un partito a sua immagine e somiglianza, modellare i futuri gruppi parlamentari, eleggendo, grazie ai capilista bloccati, suoi fedelissimi. Secondo Emiliano, Renzi ha pure messo in conto di perdere le elezioni e mandare al governo i 5 Stelle: tanto lui è giovane e può aspettare un altro giro asserragliato in un Pd blindato, mentre gli altri sono «vecchi» e un altro giro non ce l’hanno. Ma non si può mandare il Pd a sfracellarsi contro un muro. Emiliano lo ha detto a Franceschini, Orlando e Martina. Dovrebbero proprio loro staccare la spina a Renzi e chiedere le assise. Con o senza di loro, Emiliano è convinto che Renzi perderebbe la conta interna: per questo ha paura ad anticiparla. Ma senza congresso e con elezioni a giugno, la scissione è nei fatti. 
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La minaccia all’ex premier 
Marcello Sorgi Busiarda 31 1 2017
Per capire cosa sta accadendo nel Pd non bisogna andare troppo lontano.
E neppure troppo indietro nel tempo. Come nel 1993, dopo il referendum del 18 aprile che sancì la fine della Prima Repubblica, il maggior partito di governo è scosso da tensioni politiche, orizzontali, verticali, trasversali, che non riguardano solo la maggioranza renziana e la minoranza bersaniana, ma tutte le correnti al loro interno, per gli esiti del voto referendario del 4 dicembre 2016. Che ha sancito una sorta di inversione a “U” della politica italiana, dalla Seconda Repubblica alla Prima, dal maggioritario al proporzionale, dall’epoca delle leadership forti, a quella, durata quarantacinque anni, dal 1948 appunto al ’93, della partitocrazia e dei governi nati in Parlamento.
Ventiquattro anni fa i Popolari (ex Dc) e il Pds (ex Pci), cioè i due principali soci del Pd, arrivarono all’appuntamento del referendum consapevoli, ma impreparati. E pur avendo contribuito all’approvazione della nuova legge elettorale, il «Mattarellum», che inoculava nel meccanismo maggioritario scelto dagli elettori una quota del vecchio proporzionale, alla resa dei conti si dimostrarono incapaci di partecipare al gioco, presentandosi divisi nelle elezioni del 27 marzo 1994 e favorendo la vittoria di Berlusconi.
Subito dopo, abili nella manovra parlamentare di cui erano maestri nella Prima Repubblica, detronizzarono l’ex Cavaliere, capovolgendo, grazie a un «ribaltone», la sua maggioranza nelle Camere, e lo sconfissero, stavolta coalizzati, nelle urne nel ’96, approfittando della scelta di Bossi di rompere l’alleanza di centrodestra. Fin qui, è ormai storia. Come lo è il fatto che solo Prodi, nel ’96 e nel 2006, sia riuscito a vincere su Berlusconi, mentre i leader della coalizione giunti alla guida del governo per vie parlamentari, come D’Alema e Amato, non poterono presentarsi con la loro faccia, e anche gli altri, vedi Rutelli e Veltroni, pur conseguendo risultati elettorali lusinghieri, nella partita uno contro uno risultarono sconfitti.
Era poi evidente, in tutti questi anni, che una larga parte del centrosinistra rimpiangesse la vecchia partitocrazia. Lo si intuiva dal modo in cui si erano battuti contro le riforme costituzionali e soprattutto contro la legge maggioritaria a due turni proposte da Renzi, e se n’è avuta conferma in occasione del referendum del 4 dicembre, quando il Pd, formalmente, aveva preso posizione per il «Sì», ma una larga fetta del suo apparato, D’Alema e Bersani in testa a tutti, s’è schierata con il «No».
Ma il paradosso è che di fronte a una situazione nuova - o vecchia, secondo i punti di vista - come quella del ritorno al proporzionale, Renzi rischi di fare un errore eguale, ancorché opposto, a quello compiuto da Occhetto e Martinazzoli nel ’93. Mentre Berlusconi ha subito intuito il cambiamento, ha raffreddato di molto i rapporti con i suoi ex alleati e si prepara a correre per Forza Italia, costi quel che costi, sapendo che la partita vera si aprirà dopo il voto, il segretario del Pd si muove ancora con la logica dell’uomo forte con cui ha guidato il partito e il governo. Sottovalutare le numerose candidature alla guida del suo partito, gli annunci di scissione, le promesse di collaborazione che seguono alle separazioni, significa non aver capito che tutto ciò che sta accadendo è frutto della riedizione (o brutta copia) del sistema partitocratico, in cui ognuno porta la sua piccola dote a un ammasso di cui niente si sa, ma di cui presto o tardi salterà fuori un federatore. Può darsi, come Renzi si augura, che il suo Pd, benché acciaccato, raggiunga il 40 per cento, conquistando a dispetto di ogni previsione il premio di maggioranza che la Corte costituzionale ha collocato nell’iperuranio. Ma se non ci riesce, il rischio vero, per il Rottamatore, è ritrovarsi all’opposizione, sepolto dalle macerie della Seconda Repubblica. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Ecco la lista D’Alema: “Vale il 10%” Ma Bersani si sfila: battaglia nel Pd 
L’ex premier rilancia in tv: “Se non fa il congresso, è Renzi che spaccherà tutto” La rete del nuovo partito: Emiliano, prof del No, ex Ds. Corte a Bassolino

TOMMASO CIRIACO Rep 31 1 2017
La scissione è adesso. O meglio, arriverà quando Matteo Renzi chiederà elezioni senza cambiare prima la legge elettorale: «La reazione - promette Massimo D’Alema - dovrebbe essere quella di preparare un’altra lista a sinistra, che supererà sicuramente il 10% dei voti. Senza un congresso, sarà lui a rompere». Un nuovo passo verso la frattura è compiuto. Proprio nel giorno in cui Francesco Boccia, a nome di Michele Emiliano, lancia un referendum tra gli iscritti per un’assise anticipata e pianifica una consultazione parallela sui social con un quesito fotocopia: «Non è meglio scegliere prima il segretario e poi tornare al voto?». I puntini della strategia della minoranza, insomma, iniziano a unirsi. E disegnano un big bang che minaccia il segretario dem, convinto però di poter recuperare l’ala bersaniana alla causa. «Io sto girando l’Italia per la mia candidatura alla guida del Pd - si mantiene cauto Roberto Speranza - E sto combattendo la mia battaglia dentro il partito ».
Alla vigilia del raduno al centro Frentani, un sms di un professore universitario fa sorridere D’Alema. «Ecco - lo mostra agli amici - se anche personalità moderate sono così arrabbiate con Renzi, vuol dire che la scissione dobbiamo farla per davvero». E in effetti il PdD - il partito di D’Alema - è qualcosa più di una bozza. Uno spazio a sinistra, ha verificato Ipr-Tecné, può puntare all’11%. Se fosse guidato da Emiliano, è opinione dell’ex premier, potrebbe addirittura puntare più in alto: «Michele ha tanti difetti e magari non sarà il leader ideale della sinistra per atteggiamenti e convincimenti, ma è una brava persona e può recuperare molto nel confronto con i cinquestelle ».
Tutto nasce con la stagione dei comitati per il No al referendum. «E però - ricorda l’eurodeputato Massimo Paolucci, mentre recluta truppe - quando abbiamo iniziato quella campagna sembravamo dei pazzi, mentre adesso il clima è cambiato ». Di ceto politico al fianco del leader ne è rimasto pochino. Oltre a Paolucci, il parlamentare europeo Antonio Panzeri e il senatore Paolo Corsini. Agli ultimi summit si sono visti Pietro Folena, Valdo Spini, il professor Guido Calvi e Cesare Salvi. Antonio Bassolino no, mentre sono stati avvistati due storici bassoliniani come Michele Caiazzo e il sindacalista Cgil Michele Gravano. Un segnale, utile a colorare la mappa d’Italia con qualche puntino rosso.
In cima alle speranze di consenso c’è naturalmente il Sud. «In alcune regioni - ragiona D’Alema - possiamo prendere più di Renzi. Anche perché nel Mezzogiorno il Pd ha raccolto il peggio degli ex cuffariani e cosentiniani, mentre la gente per bene se ne va». Non solo Meridione, però: i dalemiani indicano sacche rosse in Lombardia e Veneto. In quest’ultima regione, in particolare, si prova a convincere Flavio Zanonato a partecipare all’avventura. Ma è la Puglia il cuore pulsante della scissione. L’assalto alla segreteria da parte di Emiliano è in corso, le firme per un referendum interno saranno raccolte nelle prossime ore. «E Renzi non riuscirà a reggere pubblicamente un rifiuto - confida ai colleghi Francesco Boccia - Mica siamo la Casaleggio associati...».
Molto si muove, dalle parti del Pd. Nessuno sottovaluta il segnale che arriva dalla Francia, dove la scalata dell’outsider socialista fa sognare D’Alema e gli avversari dell’ex premier. Chi però preferirebbe affrontarlo restando nel partito sono soprattutto i bersaniani, consapevoli dei rischi della concorrenza interna delle altre sinistre dem. «Hamon è un altro Davide contro Golia che ce la fa giura Speranza - E io penso che serva un congresso e un momento di chiarezza prima delle elezioni». Si vedrà. Di certo l’ex capogruppo ha ripreso a sentirsi con il Nazareno. E Pierluigi Bersani continua a frenare i suoi. Non minaccia scissioni, pur invocando una profonda discontinuità. L’importante, ha spiegato ai fedelissimi, è non restare vittima del “divide et impera” di Renzi nei confronti della minoranza. Una tecnica già sperimenta in passato dal leader, ha ricorato l’ex segretario, «con ottimi risultati».
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