domenica 5 febbraio 2017

L'astuto Quirico, che si fece rapire dai suoi amici, sulle tracce del treno di Lenin. Le mani della Busiarda sull'Ottobre russo


Quei binari del treno di Lenin che rovesciarono la Storia 
Domenico Quirico ha ripercorso le ultime tappe del viaggio che il leader russo grazie all’aiuto della Germania, fece nel 1917 per guidare la rivoluzione bolscevica 

Domenico Quirico Busiarda 5 2 2017
Ah! il treno non è certo quello, quello su cui viaggiò Lenin nel 1917. Adesso il convoglio che fa servizio tra la Finlandia e Pietroburgo si chiama «Allegro», sì, in italiano, con bella parola presa dalla musica: l’unica cosa, in fondo, in cui siamo ancora universali. 
Non ci sono più le colonne di fumo che salivano al cielo come scale senza fine e scottavano le nubi di inverno con nuvole bollenti di vapore, non prorompono i fischietti dei manovratori e i rochi sibili delle locomotive. Alla fine del viaggio, laggiù, a mille verste, allora c’era la Russia scompigliata torbida strisciante saltante miserabile, con l’enorme macina della Rivoluzione già in moto. Oggi ci attende la Russia di Putin, capitalista, apparentemente monolitica e soddisfatta. Indecifrabile, un po’ come il suo capo, all’inizio, quando lo dicevano uomo senza volto. 
Tetra, quasi senza neve ma con blocchi di scuro fango ghiacciato, la Finlandia mi accoglie con la sua luce di sempre, artica, un cielo che pare intriso di neon e di ghiaccio, che dà alla testa. Per mezzo secolo questa è stata periferia di Europa e i rapporti con l’ingombrante, diffidente vicino comunista non erano certo agiati e ovvi. «Finlandizzazione» si diceva, ad indicare un metodo politico e ideologico per sopravvivere, improntato a una quieta reticenza: indipendenti, sì, ma con giudizio, senza mai infrangere le ferree regole di una autocensura dabbene. E mi viene in mente che la parola rischia di tornar di moda, trent’anni dopo, per soccorrere altri vicini di nuovo in affanno: la Ucraina, i baltici, la Polonia chissà… Gli imperi purtroppo non dimenticano. 
Cento anni! Cento anni dalla Rivoluzione: tanti. Forse troppi per rivivere quell’anno in cui gli uomini vissero più che non altri in un secolo intero. Anzi: le due Rivoluzioni, quella di febbraio che fu vera e popolare insurrezione. Le mani dello zar sullo Stato erano già aggranchite ma la Storia dice le cose senza fretta, perché non trova subito la parola necessaria. E poi Ottobre, che fu invece un golpe dei bolscevichi e di Lenin, e che cambiò il mondo. Come si fa a restituire nelle parole, quel senso che nelle strade di San Pietroburgo tutto fermentava, cresceva al magico lievito della esistenza, e la Storia avanzava a larghe ondate senza sapere dove come un vento silenzioso attraverso le terra e le città e i corpi, abbracciando tutto quello che incontrava sulla sua strada? L’insurrezione sembrava una poesia di Block. L’aria la trasportava sulla Neva leggera come il polline e dura come il piombo e quei semi cadevano nei solchi e nelle teste dando alle cose già aria di primavera, produceva insieme fiori e proiettili. E poi… Che ne resta oggi? Quando coloro che vorrebbero celebrarla sono sconfitti, e gli altri, i vincitori, preferirebbero dimenticarla… Eppure questo è, più di altri, un anniversario obbligatorio. Perché ci obbliga a rispondere alla domanda: dove sta il confine tra ciò che è lecito e ciò che è illecito fare in nome del fine che giustifica i mezzi. Il crimine contro l’umanità non inizia con la condanna staliniana di vari milioni di innocenti ma con la condanna già nel 1917 del primo individuo innocente. Se si comincia a usare la vita umana come un capitale di investimento subito si spalanca un abisso senza fondo. Il terribile tranello delle Rivoluzioni. Nei tempi di fanatismi non più ideologici ma religiosi rispondere è vitale.
Per questo ho deciso, ingenuamente, di arrivare a San Pietroburgo non in aereo ma con il treno: come Lui, l’esule di Zurigo, impaniato fino ad allora nel ciarpame quotidiano di quella Svizzera filistea e rancida, nei dibattiti sterili del «club dei birilli». Via, finito tutto questo, finalmente! si parte per la Russia con il plotone di moglie, amante, attendenti bolscevichi. Approfittando della strategia volpina della Germania che li vuole usare come un bacillo per atterrare il nemico russo. 
Sì, voglio scendere come fece Lenin alla stazione Finlandia quando Pietroburgo era appena stata risciacquata dalla piena della rivoluzione. Illusione, forse: cercare di far rivivere il passato come se sfregassi sui vetri. 
Provo a immaginare quell’uomo terribile, febbrile, impaziente che vede scorrere, in quel vagone che la leggenda descrive piombato e invece era teatro di incontri e trattative ambigue, le stazioni e i Paesi: la Germania, la Svezia neutrale e poi la Finlandia che era già Russia, sotto la finzione di un granducato satellite. Aveva appena annunciato, un Lenin rassegnato, ai fedelissimi che il mondo nuovo sarebbe venuto per un’altra generazione: noi non vivremo le battaglie della rivoluzione nascente… E invece! Era un regalo della storia una guerra così! 
Non assomigliava davvero ai vecchi rivoluzionari russi, imbevuti di idealismo, parolai. La sua energia era l’odio. Il partito che aveva inventato doveva essere votato alla guerra totale, allo sterminio fisico del nemico di classe, un darwinismo implacabile, animale che avrebbe assicurato la vittoria. Odio e bugie: i due fattori più importanti della educazione politica subiti dagli uomini del ventesimo secolo. E di quello che è appena iniziato.
Questa piccola, antica stazione di Helsinki ha imprevedibile quiete e paesane assonanze russe. Non solo architettoniche. Le vecchie porte di legno sono presidiate da una donna che propone icone e libri sacri. Sul legno qualcuno ha inciso una scritta: musulmani fuori! 
Il treno, russo, è modernissimo, di lusso. Solo che marcia alla tranquilla velocità dei «direttissimi» della mia infanzia. Come se la modernità si fosse fermata a mezzo, il futuro fosse rimasto in sospeso. E anche in questo assomiglia alla Russia di oggi.
I viaggiatori sembrano usciti da tempi gorbacioviani, tempi di penuria: carichi cioè di involti, pacchi e borsoni, che immagino frutto di giudiziose incursioni consumistiche nei centri commerciali finlandesi. A più basso costo rispetto a quelli putiniani? Difficile crederlo, con la svalutazione del rublo e l’inflazione.
Il treno si muove. Con poca neve i luoghi, la campagna finlandese, assumono un’aria tetra e inaccostabile. Ci lasciamo dietro le stazioni: Tikkurila, Lathi, Kuovola… Tutte deserte di uomini, scale mobili ferme e vuote, nei parcheggi auto che sembrano relitti di una immemorabile glaciazione.
Nel mio vagone una ragazza russa interrompe furibonde liti telefoniche con il fidanzato solo per bere lattine e lattine di birra. Una coppia matura, amanti moderatamente espliciti, prepara le giornate di San Pietroburgo. 
Vainnikala è l’ultima stazione finlandese. Ecco la frontiera, e la russa Vyborg. Siamo già alle permanenti conseguenze della Rivoluzione. Fino al 1940 Vyborg era finlandese, l’arraffò Stalin con una guerra brutale e il consenso dell’alleato Hitler. Violenza che è risultata indifferente alla dissoluzione dell’Urss, ai revisionismi di bandiere e frontiere. 
Adesso la ferrovia è un binario tra due alti e fitti reticolati come se fosse entrata in una gabbia. Sul treno salgono truccatissime poliziotte russe per i controlli: congegni elettronici moderni e vecchi tamponi. La ragazza, già abbastanza ubriaca, viene prelevata e sparisce con loro…
Accanto a me viaggia un professore universitario, torna da un convegno in Finlandia. Parliamo di Pasternak, il Grande Muto della letteratura russa: noi che abbiamo vissuto la seconda rivoluzione quella capitalistica degli Anni Novanta assomigliamo molto ai personaggi di «Zivago»: «Anche noi come nel ’17 abbiamo vissuto in fondo cose che accadono una volta sola nella storia dell’umanità, la fine degli zar, la caduta del comunismo, poteri infrangibili, eterni. Alla Russia di nuovo era stato strappato via il tetto e, di colpo, ci siamo trovati allo scoperto sotto il cielo. E’ stato terribile, ogni volta. Guardi: sulla rivoluzione non troverà pareri unanimi, il tema è controverso».
L’uomo dell’Est europeo costretto a cercare di sopravvivere alla storia piuttosto che compierla. Che entrati nel ventunesimo secolo può insegnarci molte cose perché come lui siamo rimasti soli in senso etico. Ci ha abbandonato il Dio universale, i nostri miti universali e ci ha abbandonato anche la verità universale. Cento anni dopo la caduta del palazzo d’inverno al posto della speranza del futuro hanno avuto il sopravvento le frustrazioni per gli errori del passato storico, i sentimenti del nazionalismo ferito e la collera del rancore. Ha ragione il professore: dobbiamo pensare a una rivoluzione lunga che inizia nel 1905 e si compie forse oggi nel fragile termidoro dell’età putiniana. 
Ecco: stazione Finlandia, sgualcita, mediocre, provinciale come allora, simile a una sosta ferroviaria a Faenza o Voghera. Arrivo per caso alle ventitré, come allora. Era in ritardo Lenin. Festeggiavano già la vittoria i giovani soldati che non volevano andare al fronte, gli operai delle Putilov che avevano conosciuto nello stesso momento alfabeto e rivoluzione. Esultavano i contadini che si erano spartiti onestamente le vacche del padrone e che temevano la resurrezione dalla tomba dei vecchi poliziotti. L’ex zar, ingenuo, spaccava legna e attendeva che «i bambini» (erano in età da marito!) guarissero dal morbillo per andare in esilio. E invece c’era, come destino, la cantina insanguinata di Ipatiev, laggiù a Ekaterinburg. Che restava da fare? Ma Lenin sapeva: che le Rivoluzioni le vincono non gli ingenui, gli eroi che le fanno sulle barricate, ma gli Altri, chi arriva dopo e ha idee e volontà. Verità amara e sempre valida come insegnano le primavere di Tunisi e del Cairo. 
Lo aspettavano, quella sera, soldati schierati e una banda che suonava in mancanza di meglio la Marsigliese! Lo portarono per le riverenze e i saluti della «delegazione» nella saletta riservata dello zar, su un’autoblinda improvvisò un comizio fustigando i suoi che già civettavano con i nemici di classe, i menscevichi, i liberali. La sua statua ciclopica oggi sembra continuare quel comizio all’infinito, con gesto perentorio, a indicare il mare e i radiosi destini. 
Esco sulla piazza, i lampioni hanno sulla neve accecanti riflessi da sala chirurgica. So che accanto, a cento metri, c’è un luogo che bisogna vedere subito: se non si vuole dimenticare che il dio ha fallito. Sì, bisogna affacciarsi sul vuoto glaciale della necessità storica, dei Grandi Fini e delle soluzioni finali. Sul lungo fiume, accanto alla stazione, incombe lugubremente silenziosa una gigantesca costruzione di mattoni rossi, piccole finestre irte di grate, una altissima ciminiera come di fornace lancia fumo verso il cielo e divide le quattro ali che divergono e gli danno il nome. Sono «le croci», la prigione delle croci. Qui passarono i primi deportati degli inverni terribili del ’17 e del ’18: era un’epoca che non teneva conto degli uomini ma imponeva ciò che voleva lei. Si nominavano già commissari con poteri illimitati, uomini dalla volontà di ferro, con nere giubbe di cuoio, armati di leggi di terrore e di rivoltelle «nagant». 
Davano la caccia ai controrivoluzionari, sembravano non dormire mai. Accanto al muro del carcere un giardino è pieno di giochi per bambini. Dall’altro lato della Neva Pietroburgo brilla ancora di luci. La città che fu la rivoluzione (Mosca le venne dietro) ed è la città di Putin, dove è nato e ha costruito la sua carriera. Una città dove la vita sembrava impossibile fra stagioni con venti ore di luce e notti con venti ore di buio, inverni che tolgono il respiro e abortiscono in primavere palpitanti, città che di questa impossibilità ha tutti i segni e i deliri e gli incubi. E’ piombata, per l’ennesima volta, in un’altra vita, vede una umanità che non riconosce per sua nessuna delle forme per cui crebbe la città e vi cammina come attraversando per errore la scena di un teatro. E chi vi giunge, straniero, ha l’impressione di trovarsi in un mondo passato e questo passato sia la sua vita stessa.
Sì, il 2017 che si annuncia di grandi sconvolgimenti, in un tempo in cui il sentimento dominante è un senso di impotente disorientamento, può iniziare qui, da una città e da un anniversario. Dove si è schiantato l’ultimo pilastro dell’ottimismo ottocentesco troncando la corsa all’ultima utopia dell’umanità. Il viaggio di Lenin ci insegna che nessun bilancio teorico delle perdite e dei vantaggi di una rivoluzione potrà cambiare il fatto che in pratica essa si rivela improduttiva. Le rivoluzioni si mantengono al potere proprio perché cessano di esser rivoluzioni, dopo il febbraio arriva sempre un ottobre. E dobbiamo accettare, noi uomini del ventunesimo secolo, che non esista una strada facile e poco costosa per l’utopia. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Nella delusa San Pietroburgo dove a trionfare è il fatalismo Domenico Quirico è tornato nella capitale della Rivoluzione bolscevica Dietro l’aggressività con l’Ucraina e la Siria emerge la fragilità interna Domenico Quirico Busiarda 9 2 2017
Vi sono città dense di una brutale violenza simbolica, sono cerimonie di pietra, riti urbani, esorcismi del vento e degli uomini, sacri addobbi della Storia, allegoriche tenebre di neve e di nebbia. Pietroburgo è uno di questi luoghi, deve essere necessariamente abitato da uomini tenaci, votati a una severa eguaglianza delle anime e dei destini, a una solitaria devozione alla collettività: luoghi che vogliono esser descritti e interpretati, destinati nel tempo ad essere esperienza interiore, qualcosa che accade dentro di noi come se fossero paesaggio dell’anima. Passo accanto alla zona dove Dostoevskij scrisse «Delitto e castigo»: ecco, sì, su queste strade e piazze agisce intensamente il mito del peccato, dell’espiazione, dell’errore, ma anche quello della morte finale delle cose, delle utopie dalla Storia. 
San Pietroburgo non è stato semplicemente lo sfondo della rivoluzione, è la rivoluzione. Solo qui avrebbe potuto avere svolgimento e catarsi, solo qui i rugginosi cerchi di ferro che stringevano la Russia avrebbero potuto tendersi, e le masse sfavillare della fiamma rivoluzionaria. Solo qui tanti eventi avrebbero potuto pigiarsi in un solo giorno, nell’anno che vide quello che cento non vedranno. La città paiolo in cui cuoceva a mille gradi la nuova vita.
La rivoluzione la leggi non nei libri ma sui muri, nella pietra. Non volti pagine, imbocchi una strada. Vicino all’Ammiragliato mi imbatto per caso in una stele, il profilo di un uomo grifagno, dall’aspetto crudele. Ma è lui Derzinskij l’inventore della polizia politica bolscevica, il creatore dell’industria democida a nastro trasportatore, funzionante senza interruzioni! Questo palazzo sciccheria neoclassica ornato di colonne, fauni e disponibili ninfe è dunque la prima sede della «Commissione Straordinaria». Entro. L’ufficio è ancora lì, intatto: una scrivania coperta di panno verde, due antichi apparecchi telefonici, il calamaio in cui intinse la penna per firmare ordini terribili e incitamenti tremendi: fucilate i sabotatori, eliminate i doppiogiochisti, morte immediata ai controrivoluzionari: non esitare, stanare, colpire, uccidere. 
Nella sala accanto sfoglio i dossier inquisitori, fitti di accuse di timbri di firme. Mi assalgono vite esposte senza pudore, tagliate dalla falce di un potere implacabile, di in forsennato cannibalismo sociale: 1919 Gulin zubelki detta Dasha, ha partecipato al comitato dei ribelli di Kronstad condannare. Vassily Bakilev operaio condannato per sabotaggio il padre chiede pietà respingere e eseguire. 
Certo: sono in Europa. Nel senso che posso avere tutto, purché sia futile, irrilevante e inutile. I monumenti di Putin sono i negozi. Ma le persone che conosco da anni mi appaiono stranamente sbiadite, spente come non erano neppure nei torbidi tempi eltsiniani quando li incontrai l’ultima volta. Eppure la loro condizione economica e sociale è evidentemente migliorata. Ma nessuno sembra aver conservato la propria personalità, le proprie idee. Parlano solo di cosa comprare, di vacanze, di denaro: una ossessione. O forse semplicemente li avevo sopravvalutati. Forse è la eterna «poshlost», russa: un insieme di volgarità, kitsch, conformismo quotidiano, compiaciuto, non solo estetico ma anche morale. La descrisse Cechov ma la vedevi nelle strade degli effimeri nuovi ricchi della Nep, ai tempi della stagnazione, e poi degli oligarchi post sovietici. E nei tempi di Putin. 
Anche il Paese che in Occidente ci appare aggressivo, tetragono nel suo desiderio di ritrovata potenza, visto dal di dentro mi sembra più fragile. Non nel futuro politico che appare segnato per anni. Mi descrivono, però, una economia che solo vive di petrolio e di armi, moderne quelle sì, da vendere più che da usare. Mediocri gli investimenti nell’industria e nell’agricoltura, tutto viene importato e semplicemente assemblato per il mercato interno. L’orgoglio nazionalista contro l’America arrogante e ostile compensa il crollo del potere di acquisto a causa della svalutazione ma per quanto tempo? Questo è il posto dove, paradossalmente, meno ho sentito parlare di Trump: vedremo che farà, è pur sempre un americano. La vittoria siriana non appassiona, molto di più fanno fremere e indignano le «provocazioni» degli ucraini.
Il museo che cerco è proprio accanto alla grande moschea azzurra. Fu costruita alla fine dell’Ottocento imitando la meraviglia di Samarcanda. Oggi appare chiusa e vuota ma il venerdì, per la grande preghiera, è un fiume di gente, di ex sudditi di fede musulmana, caucasici azeri kazachi, la metropolitana ne rigurgita. È la versione russa delle Migrazione che ci affanna. Tenuta a bada qui con ukaze draconiani. 
Il museo si trova in quello che era lo splendido palazzo di una étoile, la Ksesinskaja, una divina che dicevano amante di Nicola secondo. Molte splendide fotografie ne restituiscono, con intatta ambiguità, la conturbante bellezza: nera di capelli, esile, con grandi occhi. A distanza di tempo, osservandola, ci prende quell’ardente tenerezza e quel timido stupore che costituiscono sempre l’inizio di una passione. I bolscevichi le requisirono la casa nel 1917 per farne la sede del partito. Qui portarono Lenin appena sceso dal treno alla stazione Finlandia per farsi insegnare l’assalto al potere. 
Era, un tempo, museo della Rivoluzione: con cauta imparzialità è divenuto «museo della storia politica russa». Attraverso le radicali revisioni nell’allestimento e nel materiale esposto entriamo per capire cosa questo Paese pensa del proprio ingombrante passato. E di sé.
Alcune cose colpiscono. Nella prima sala tre schermi proiettano a ciclo continuo rari filmati del 1917. Uno è dedicato a Lenin che infuria allo Smolnyi, nei corridoi dove svolazzavano un tempo giovani nobildonne e ussari azzurri. Nell’altro c’è Kolciak, il generale dei Bianchi che quasi conquistò San Pietroburgo e avrebbe cambiato la Storia. E poi Kerenskij il commissario del governo provvisorio, l’avvocato che amava sentirsi parlare e pensava di incantare così quel mondo in subbuglio. Fuggì travestito da donna, nell’Ottobre fatidico, sulla sua locomobile rossa scialacquando l’occasione storica di una democrazia russa. I tre hanno lo stesso spazio e lo stesso rilievo, niente spinge, anche nel commento, il visitatore a scegliere buoni e cattivi. 
Nel museo ti accorgi che c’è pochissimo Lenin e moltissimo Stalin. In un passaggio obbligato della sale Lui ti aspetta: un gigantesco ritratto in divisa da maresciallo, sembra venire verso di te, lento, regolare, pesante, il passo del padrone, del signore del mondo. Lui non ha fretta, espressione di un potere rozzo, il potere del soldato e del burocrate. Ma il quadro è interamente inserito in una spessa grata di prigione. E se guardi con attenzione il modo in cui è infissa nel muro ti accorgi che dietro le sbarre ci sei tu, visitatore. È lui, il tiranno, che guarda la Russia che ha stretto nei ceppi. 
Innumerevoli manifesti sono dedicati alle donne, le nuove donne sovietiche, fattezze dure, giubbe chiuse fino all’ultimo bottone, fazzoletti (rossi) che coprono i capelli, volti tesi, disciplinate, socialiste, scientifiche. Per cui la maternità è diventata «una preoccupazione sociale». Mi chiedo se non sia meglio affidarsi a rivoluzioni popolate di Marianne frenetiche, sensuali, disobbedienti e travolgenti. 
Cammino nei giardini davanti a Sant’Isacco: la neve accumulata i tenui raggi di luce velata da nubi portate dal vento e un silenzio così profondo che ad ogni passo ogni scricchiolio delle scarpe sulla neve mi rimbomba nelle orecchie. Lo stesso cupo silenzio di quando questa città, lentamente, solennemente moriva di congelamento e di fame, i novecento giorni dell’assedio tedesco. Nei sotterranei dell’Hermitage la gente lavorava e viveva fino alla morte. Fu in quell’inverno che apparvero gli slittini, ovunque, sulla Nevskij, verso Piskarevskji, verso gli ospedali: il lieve continuo cigolio dei pattini pareva più alto e sonoro delle esplosioni. Assordava. Gli slittini servivano a portare i malati, i moribondi, i morti. I cadaveri erano gelati, rimandavano lievi tintinnii metallici quando venivano gettati in grandi mucchi perché non c’era la forza per seppellirli. Ho visto una targa su un muro ricorda quando in un giorno morirono diecimila persone! La città moriva come aveva vissuto per mesi, stringendo i denti.
Tutto questo sarebbe stato possibile senza la Rivoluzione, senza i falò e le giornate tempestose che si portarono via gli uomini? Sarebbe stato possibile senza che al di sopra delle tenebre si ergesse il titanico difensore della rivoluzione, Stalin? Con il suo nome sulle labbra l’esercito rosso attaccò e polverizzò la fortezza dei demoni hitleriani. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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