mercoledì 1 febbraio 2017

L'ex presidente del Pds ricorda il suo Maestro politico




Ernesto Rossi: onestà e rigore le virtù perdute della politica
Tra gli autori del Manifesto di Ventotene che anticipò il progetto europeo A cinquant’anni dalla morte, Stefano Rodotà ricorda il suo maestro

Mirella Serri Busiarda 31 1 2017
Perché siamo stati capaci di guardare così lontano? Vicino a noi non c’era niente: dovevamo per forza avere una visuale in grado di superare la linea dell’orizzonte delimitata da sassi e mare»: così, con ironia, Ernesto Rossi illustrava a un giovane interlocutore, Stefano Rodotà, l’origine del celebre Manifesto di Ventotene. «Era una necessità l’andare oltre», diceva il noto antifascista minimizzando la scelta fatta con Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann ed Eugenio Colorni - durante il periodo trascorso al confino sull’isola di Ventotene - di mettere nero su bianco il sogno del federalismo europeo.
Il 9 febbraio saranno i 50 anni dalla morte di Rossi e il 25 agosto i 120 dalla sua nascita e oggi Rodotà ricorda con un pizzico di rammarico i suoi incontri con l’autore de I padroni del vapore: «Mi dispiace non aver mai registrato le nostre conversazioni che riguardavano la politica italiana, la Confindustria, le lotte operaie», spiega il giurista e politico che conobbe il fustigatore del malcostume italiano nella redazione del settimanale Il Mondo a cui Rodotà aveva appena cominciato a collaborare.
Rossi fu un importante esponente del Partito d’Azione. Tra i fondatori del Partito Radicale, agguerrito militante a fianco di Marco Pannella nelle lotte per i diritti civili rifiutò nel neonato organismo politico ogni carica direttiva. Come mai? «Non amava i ruoli istituzionali. Nei rapporti umani era diretto e sincero e io, quando lo conobbi, ero un neolaureato pieno di curiosità», rammenta il professore che aderì anche lui al Partito Radicale. «Quando gli ponevo qualche quesito dava l’impressione di essere indaffarato, di non voler mai perdere tempo. Ma era solo l’apparenza: si spendeva molto, era generoso e disponibile».
Il 25 marzo si celebreranno i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma che sono stati il battesimo della grande famiglia europea. Già allora Rossi deprecava l’assenza d’integrazione tra gli Stati del Vecchio Continente e la cecità delle sue classi dirigenti. Sono ancora valide le sue indignazioni?
«Per anni il Manifesto è stato dimenticato. Eppure era un testo che non permetteva nessuna banalizzazione. Non era un generico auspicio ma un concreto progetto politico che metteva insieme la cultura liberale con quella socialista e si confrontava polemicamente con i comunisti. Auspicava il rinnovamento sociale e l’eliminazione delle diseguaglianze», osserva Rodotà che è stato anche tra gli estensori della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. «Adesso il “Manifesto” è spesso tirato in ballo ma in forma retorica: così è avvenuto durante l’incontro tra Matteo Renzi, François Hollande e Angela Merkel quando hanno deposto “fiori europei” a Ventotene».
Spadaccino dal pizzetto pepe e sale, Rossi infilzava le tonache svolazzanti Oltretevere, l’illegalità, «le cricche e le clientele» della classe politica ed esortava ad «abolire la miseria». Sono superate queste disamine?
«Per nulla. Era molto severo con se stesso. E dunque lo era anche con gli altri. Cominciammo a incontrarci assai di frequente nei pressi di corso Francia dove entrambi eravamo andati ad abitare, e poi lo vidi spesso alla rivista Astrolabio a cui davo il mio apporto. Sapeva mettersi in discussione: partecipò come volontario alla prima guerra mondiale e scrisse per il Popolo d’Italia di Benito Mussolini. A salvarlo, diceva, fu Gaetano Salvemini che gli “ripulì il cervello”. La sua attività clandestina contro il regime gli costò una condanna a 20 anni di reclusione».
Rossi scelse come punto di riferimento l’opera di Piero Gobetti, anche lui un grande moralista. Nominato nel dopoguerra presidente di un’azienda, l’Arar, Rossi chiese, per esempio, che la sua indennità non fosse superiore al suo stipendio di docente negli istituti superiori e fu il dirigente di alto livello meno pagato della penisola. Era accanito contro la corruzione: «Molti degli espedienti usati dagli uomini politici per finanziare i partiti non possono essere messi in pratica senza la connivenza dei funzionari preposti ai più importanti sevizi pubblici e così i più alti papaveri della burocrazia romana diventano intoccabili», scriveva. Voleva essere un modello?
«Al contrario. Non si poneva affatto come un esempio ma le sue prese di posizione ancora oggi segnano una strada che bisogna percorrere. Ricordare Rossi vuol dire aver presente l’articolo 54 della Costituzione: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Quando parlo con giovani e studenti il loro rammarico maggiore è che la parola «onore» attualmente sia venuta a mancare. Chi ha vent’anni o giù di lì percepisce quest’assenza come una grave perdita. Il pensiero e l’esempio di Rossi incarnano gli anticorpi contro le distorsioni della nostra epoca».  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Ernesto Rossi un maestro in redazione 
Dal Manifesto di Ventotene al “Mondo”. Il suo ricordo a cinquant’anni dalla morte
EUGENIO SCALFARI Rep 9 2 2017
Conoscevo il nome, le opere e la vita di Ernesto Rossi da molto tempo, direi dal 1945 quando cominciai a interessarmi di politica; quella remota di Dante, del Petrarca, di Machiavelli, di Guicciardini e poi soprattutto di Alfieri, di Mazzini, di Garibaldi, di Cavour, della destra storica e del trasformismo che ne seguì. Insomma la storia d’Italia dopo il fascismo.
Ero stato fascista dalle scuole elementari ma nel 1943 fui espulso dal Guf e mi resi conto che la vera Italia era altrove. Avevo 19 anni e cominciai allora a leggere i classici, quelli antichi e quelli moderni e fu allora che scoprii
l’esistenza di Ernesto Rossi: nove anni di carcere duro e non so quanti al confino di Ventotene, dove insieme ad Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni scrisse il Manifesto sulla necessità di costruire gli Stati uniti d’Europa. Fu quello a consegnare i suoi autori alla storia d’Italia.
La conoscenza personale avvenne nel 1949, quando ebbe inizio la mia collaborazione al Mondo, fondato da Mario Pannunzio. Pannunzio era un liberale di sinistra, Ernesto era iscritto al Partito d’Azione. Il Mondo nacque dal loro accordo ed ebbe una vita e una funzione politica e culturale fino a quando quell’accordo resse. Oltre al giornale, cui Ernesto collaborava soprattutto alla parte economica, ma non soltanto, ci furono i Convegni degli “amici del Mondo”, nei quali Ernesto fu uno dei protagonisti e ci fu anche la fondazione del Partito radicale, il nostro Partito radicale, che ebbe fine nel 1962. Ci dimettemmo tutti e l’eredità del nome la prese Marco Pannella che mantenne le nostre insegne e il nostro nome ma ne cambiò l’essenza: il nostro era ispirato al liberal-socialismo dei fratelli Rosselli, quello di Pannella diventò libertario con tutti i pregi e i difetti che il libertarismo comporta.
Ernesto, l’ho già detto, l’avevo conosciuto nell’estate del ’49 e forse è interessante e divertente raccontarlo.
Il Mondo aveva organizzato un ciclo di dibattiti sull’economia europea di quegli anni e io partecipai al primo, diretto da Panfilo Gentile nel salone della redazione del giornale in via di Campo Marzio a Roma. Era la pima volta che varcavo quella soglia, debbo dire con batticuore perché era da tempo che aspiravo a conoscere quel gruppo e a farne parte. Partecipai al dibattito e fui notato da Pannunzio e da Nicolò Carandini che a dibattito terminato vennero a trovarmi. I giovani erano molto rari in quella redazione e questo attirò la loro attenzione. Pannunzio si informò dei miei studi e mi invitò a collaborare. «Vieni quando vuoi, dal primo pomeriggio fino a tarda sera io sono sempre qui».
Fu per me una splendida giornata pensando che la mia vera vita da quel giorno avrebbe avuto inizio. Era estate e andavo speso a Fregene a fare il bagno. Il giorno dopo, tornato a Roma nel primo pomeriggio, decisi di passare al Mondo come Pannunzio mi aveva invitato a fare. Salii le scale di corsa e chiesi alla segreteria di redazione se potevo incontrare il direttore. Mi dissero, le due giovani donne della segreteria, se avevo l’appuntamento. Dissi di sì e mi guardarono assai stupite perché indossavo la maglietta e i calzoni corti. Comunque una di loro andò nello studio di Pannunzio; c’era una porta a vetri con impenetrabili tendine verdi e dopo poco mi fecero entrare. Avevo già in mente di proporre un articolo sulla chiusura della società Breda, un’azienda di siderurgia che non reggeva più il mercato. «Il tema va bene, i lavoratori sono oltre un migliaio e si trovano sul lastrico. Ma è bene che ne parli con Rossi. Vieni con me», disse Pannunzio.
Ernesto aveva una scrivania nella parte opposta del salone. Andammo fin lì, Pannunzio mi presentò, disse il tema che volevo trattare e propose a Ernesto di aiutarmi a scrivere con lo stile del giornale che, in realtà, era lo stile di Ernesto per quanto riguardava gli articoli economici. Accolse l’invito e fu gentilissimo con me, mi prese a cuore, mi aiutò, mi fece una sorta di corso accelerato per quanto riguardava lo stile e la filosofia che stava dentro quello stile: chiarezza, lucidità polemica, una tesi da sostenere ed un’altra da avversare, parole comuni da usare ma non da professore bensì da giornalista e quel mio primo articolo di fatto lo scrivemmo insieme. Lo consegnai già battuto a macchina a Pannunzio che lo lesse subito, l’approvò e lo passò al capo redattore che allora era Flaiano. Salutai Pannunzio che mi invitò a frequentare la redazione quando volevo. «Magari – mi disse – vieni con i calzoni lunghi». Così tutto cominciò.
***
Ho accennato prima allo scioglimento del nostro partito e al sodalizio tra Pannunzio e quelli di noi che non condividevano quelle sue idee dopo tanti anni passati insieme e quasi tutte le sere (l’ho raccontato in uno dei miei libri) le passavamo insieme a via Veneto che era il nostro club notturno. Ma a quel punto della nostra amicizia le idee differivano notevolmente. Mario insieme al gruppo carandiniano erano favorevoli ad un’apertura a sinistra ma non alla partecipazione al governo dei socialisti. Io viceversa, insieme a Piccardi e ad Ernesto eravamo a favore dell’alleanza con il Psi, insieme a Parri, a De Martino, a Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti.
Fu uno scontro durissimo che durò parecchi giorni di dibattito. Ernesto ad un certo punto perse le staffe e accusò Pannunzio di criticare Piccardi di razzismo ricordandogli che lui aveva collaborato per anni col settimanale fascistoide di Longanesi (la testata si chiamava Omnibus). Alla fine tutto andò in pezzi: Ernesto, Piccardi ed io da una parte, Pannunzio e tutto il gruppo carandiniano dall’altra. Decidemmo di dimetterci tutti e di non occuparci più di politica, ma naturalmente non andò così: politica e giornalismo ci stavano nel sangue e non potevamo certo estirparli.
Frequentai a lungo Ernesto e sua moglie Ada. Facemmo un ultimo congresso intitolato agli “amici dell’Espresso” di cui nel frattempo ero diventato direttore. Il tema di quell’ultima iniziativa fu in parte la nazionalizzazione dell’industria elettrica ed in parte la riforma delle società per azioni. Fu l’ultimo. Poi lui cominciò a sentire il peso degli anni, firmò ancora una piccola rivista con pochi lettori. Morì cinquant’anni fa, il 9 febbraio 1967. Io seppi la notizia ascoltando una trasmissione radiofonica, ebbi una stretta al cuore di quelle che segnano l’inizio di un lutto la cui memoria ti accompagnerà per tutta la vita.
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