mercoledì 1 febbraio 2017

L'impegno indefesso dei liberal e degli universalisti per consolidare il consenso di Trump nella piccola borghesia


La Repubblica
Il ritorno di Obama: “Valori minacciati” 

Inedita polemica tra due “presidenti”. “Sul divieto ai rifugiati sono confortato dal livello di mobilitazione” Washington Post: si valuta annullamento tutele per i gay che lavorano nel governo. Petizione a Londra contro Trump
FEDERICO RAMPINI Rep
BARACK Obama si vede costretto a tornare nell’arena politica, contro il suo successore, appena dieci giorni dopo il pensionamento. Rompendo con la tradizione di non intervento degli ex presidenti, si unisce alla vasta coalizione che protesta contro il bando anti-islamici. L’ex presidente è «confortato dal livello di mobilitazione, corrisponde esattamente a quello che vogliamo vedere quando i valori dell’America sono minacciati ». Attraverso un portavoce, esprime «disaccordo fondamentale rispetto al concetto di discriminare le persone in base alla loro religione». È un altro shock inaudito questo scontro fra due presidenti, ma è tutto senza precedenti nell’era Trump. Sembra quasi che il neopresidente se l’aspettasse, questo ritorno in forze del predecessore. Domenica sera, dopo 48 ore di caos provocato dal suo ordine esecutivo di venerdì, Trump si era difeso tirando in ballo Obama: invocando il precedente del 2011 in cui era stato sospeso per sei mesi l’afflusso di rifugiati iracheni; e attribuendo a Obama stesso la selezione dei sette Paesi più rischiosi come potenziali riserve di terroristi. Si accentua l’isolamento di Trump senza che questi dia il minimo segno di pentimento. Di ieri sera anche la notizia del Washington Post secondo il quale la Casa Bianca starebbe valutando la possibilità di annullare le tutele per i gay che lavorano nel governo federale.
All’estero le condanne sono venute dall’Onu, da alleati-ex-occupati come l’Iraq dove il Parlamento chiede ritorsioni, fino a includere la Gran Bretagna. A Londra una petizione per cancellare l’invito della Regina Elisabetta a Trump ha raggiunto in poche ore 1,5 milioni di firme. Perfino un populista del fronte Brexit come il ministro degli Esteri Boris Johnson ha definito “fortemente controverso” l’ordine esecutivo che ha chiuso le frontiere Usa a certe nazionalità. All’interno degli Stati Uniti il gesto estremo di Trump ha creato una fronda di diplomatici, con un memorandum dei ribelli al Dipartimento di Stato che vogliono ignorare le direttive. Ma il portavoce del presidente risponde secco: «Se non siete d’accordo, andatevene ». Più complicato per la Casa Bianca è l’ostacolo del federalismo: diversi ministri della Giustizia degli Stati Usa governati dai democratici fanno ricorso per incostituzionalità del decreto sigilla-confini. Questo accresce le forze messe in campo sul fronte giudiziario, dopo che vari magistrati federali avevano bloccato con ordinanze locali le espulsioni dagli aeroporti di New York, Boston, Washington, San Francisco. L’effetto immediato è un aumento della confusione, rasenta l’impazzimento: la polizia di frontiera che lavora negli aeroporti è strattonata da ordini contrastanti, non sempre le è chiaro a chi debba obbedire. Il caos regna anche dentro l’Amministrazione dove domenica sera il generale John Kelly, nuovo segretario alla Homeland Security, voleva esentare dal blocco i detentori della Green Card. Poi questo gesto deve essere sembrato un dietrofront che sconfessava il presidente, e quindi per le Green Card si è tornati a un limbo di controlli discrezionali. Trump ieri ha cercato di minimizzare, con un tweet surreale: «Solo 109 persone su 325.000 fermate e detenute per interrogatori. I grossi problemi negli aeroporti sono stati causati da un blackout informatico della compagnia Delta, e da qualche manifestante». Trump reagisce con una fuga in avanti. Accelera i tempi per la nomina del giudice costituzionale vacante, alla Corte suprema. È l’assalto all’ultimo bastione del potere che ancora gli manca, quello giudiziario. Una volta blindata la Corte suprema, con una maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, è convinto che l’opposizione sarà impotente. E il resto del mondo? America First.
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Obama in campo contro Trump “I nostri valori sono in pericolo” 

Prima dichiarazione pubblica dell’ex presidente. Onu: i decreti sono illegali e meschini Critiche anche da Wall Street e imprese. Casa Bianca: un buon giorno per la sicurezza 

Francesco Semprini Busiarda 31 1 2017
È muro contro muro tra Donald Trump e l’esercito di oppositori ai decreti sull’immigrazione voluti dal neopresidente, di cui assume il ruolo di capofila un ritrovato Barack Obama. Il predecessore di Trump, nella sua prima affermazione pubblica dalla fine del doppio mandato, si dice - tramite il portavoce -, in disaccordo con la discriminazione religiosa e «rincuorato» dalla risposta del Paese. Obama non fa riferimento al presidente Trump ma i suoi commenti sono riferiti ai suoi decreti, e si dice «in disaccordo» con le discriminazioni su base religiosa: «I nostri valori sono in pericolo».
Prima di lui era stato l’Alto commissario del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, Zeid Ra’ad al Hussein, a definire il bando verso i cittadini di 7 Paesi islamici «illegale e meschino e foriero di sprechi di risorse nella reale lotta al terrorismo». È poi il numero uno del Palazzo di Vetro a ribadire la speranza che «le misure adottate dall’amministrazione Trump siano temporanee». Malumori comuni a quelli che stanno animando una parte dello staff del dipartimento di Stato che in una comunicazione «dissidente» denominata «Canale di dissenso» che condanna la decisione di Trump, bollandola come «contraria al fondamento dei valori americani» e si sostiene che le restrizioni «alimenteranno il sentimento anti-americano». A scendere in campo è anche la Corporate America capitanata da Starbucks con l’annuncio dell’assunzione, nei prossimi cinque anni, di 10 mila rifugiati a partire proprio dagli Stati Uniti. Anche Google scende in campo contro il giro di vite di The Donald, creando un fondo da quattro milioni di dollari da destinare a quattro organizzazioni che si occupano di migranti e rifugiati. Mentre il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, avverte sullo stesso social che «dobbiamo mantenere questo Paese sicuro ma dovremmo farlo concentrandoci sulle persone che effettivamente rappresentano una minaccia». 
Critiche arrivano anche da destra, dai fratelli Charles e David Koch, considerati voce influente dell’universo conservatore, grazie anche ai loro ricchi finanziamenti. E da Wall Street con Jp Morgan e Goldman Sachs che elogiano «l’importanza della diversità». A schierarsi nel mondo accademico è Harvard che invita l’amministrazione, il Congresso e il sistema giudiziario a rivedere e abolire il decreto sull’immigrazione. Le associazioni musulmane d’America invece annunciano una causa federale contro il bando sui musulmani, come spiega Nihad Awad, leader del Council on American-Islamic Relations. È poi il turno del procuratore generale dello Stato di Washington Bob Ferguson pronto a lanciare un’azione legale contro il presidente Trump, la prima del genere. La protesta vola poi sulle note di Bruce Springsteen che da un concerto ad Adelaide, in Australia, con la sua E Street Band, afferma: «Stasera vogliamo aggiungere le nostre voci a quelle di migliaia di americani che manifestano negli aeroporti in giro per il Paese». Trump sembra tuttavia impermeabile alle critiche, anzi rilancia. «In realtà ieri è stato un buon giorno in termini di sicurezza nazionale... speravamo di poter agire e abbiamo deciso di fare una mossa», afferma durante l’incontro con i leader della piccola impresa. Il presidente ha bollato come «lacrime finte» quelle del senatore democratico Chuck Schumer, leader di minoranza al Senato, che ha pianto criticando il bando. 
Il presidente, forte della maggioranza repubblicana al Senato e del granitico appoggio del suo entourage, prosegue a colpi di decreti esecutivi. Anche se un primo neo emerge dal suo cerchio magico, ed è del vice Mike Pence. A suo discapito riemerge un tweet dell’8 dicembre 2015 in cui l’allora governatore dell’Indiana sposava posizioni di tenore ben diverso da quella assunta venerdì sui migranti: «Impedire ai musulmani di entrare negli Stati Uniti è offensivo e anticostituzionale».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


“Donald è un demagogo Nei gesti del suo governo ci sono i segni dell’odio” 

Il fumettista Spiegelman: peggio di quanto mi aspettassi Vuole distruggere le fondamenta dell’America 
Paolo Mastrolilli Busiarda 31 1 2017
Quando risponde al telefono, Art Spiegelman chiede un momento per riflettere, «altrimenti il mio primo istinto sarebbe rovesciarle addosso una valanga di insulti, che non potrebbero essere pubblicati sul suo giornale». Poi l’autore di «Maus» si ricompone, e attacca: «Steve Bannon, il consigliere di Trump autore dei suoi decreti, è uno xenofobo, antisemita e misogino, legato ai gruppi neonazisti di Alt Right. Trump non è abbastanza sofisticato per capirlo, ma tutto questo è parte di un piano preparato e annunciato pubblicamente da tempo dai suprematisti bianchi. Non a caso, il decreto sul bando dei musulmani è stato firmato proprio nel Giorno della Memoria dell’Olocausto».
Sta dicendo che lo hanno fatto apposta?
«Certo, sono antisemiti. Non vi siete accorti che nel comunicato per il Giorno della Memoria non c’era nemmeno la parola ebreo? Qualcuno lo ha fatto notare, pensando che si trattasse di una svista, ma la Casa Bianca ha confermato che non voleva citare di proposito gli ebrei, ricordando l’Olocausto».
Secondo lei perché?
«Era un segnale lanciato ai gruppi neonazisti di Alt Right, che Trump ha sempre tollerato al suo fianco. America First è uno slogan razzista e suprematista».
Lei è nato in Svezia da una coppia di ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto, e quando era bambino vi trasferiste negli Usa. Sta paragonando la sua esperienza a quella dei rifugiati di oggi?
«Esatto».
E sta dicendo che l’America ha perso il senso di solidarietà e accoglienza offerta a voi?
«La storia dell’accoglienza degli ebrei negli Stati Uniti dopo l’Olocausto è meno rosea di quanto si racconti, e ora quella stessa repulsione viene applicata ad altri esseri umani. Trump è molto peggio di quanto mi aspettassi, nel suo governo ci sono tutti i simbolismi iniziali del fascismo».
Lui dice che il bando non è contro i musulmani, ma contro i terroristi che minacciano di colpire l’America.
«È fuori dalla realtà. Primo, nella lista dei Paesi banditi non ci sono Egitto e Arabia, quelli da dove venivano gli attentatori dell’11 settembre, e anche quelli dove Trump ha interessi commerciali. Secondo, dal 2001 ad oggi gli Usa non sono stati più colpiti da terroristi venuti dall’estero: o siamo stati fortunati, oppure le misure di prevenzione adottate dalle amministrazioni repubblicane e democratiche hanno funzionato. Terzo, tutti gli esperti di sicurezza sostengono che per proteggere il Paese bisogna concentrarsi sugli individui che vogliono attaccarlo, non su interi Stati in maniera indiscriminata. Questo è un provvedimento che non ha alcun senso pratico, è solo un atto politico demagogico. Qualcuno ha detto che la Statua della Libertà piange: vogliono distruggere le fondamenta dell’America».
Però oltre 60 milioni di elettori hanno votato Trump, aspettandosi questo genere di provvedimenti. Perché?
«Dicono che sia stata una risposta alla crisi economica. In parte è vero, ma io vedo soprattutto una reazione a dove sta andando l’America. Abbiamo avuto il primo presidente nero, i matrimoni gay, il dibattito sui bagni bisex, come peraltro sono in tutte le nostre case. Una parte della popolazione si è ribellata. Io devo dividere il bagno con un finocchio? Farmi ordinare da un nero come comportarmi, e poi da una donna? Le elezioni di novembre sono state il colpo di coda, l’ultimo conato della parte peggiore della mia generazione. Ma quando passerà, se Trump non farà troppi danni, torneremo sulla strada che stavamo percorrendo».
Come?
«Dobbiamo riscoprire la mentalità dei miei cari Anni Sessanta, quando la gente decise di organizzarsi e mobilitarsi contro un potere che violava i suoi diritti. Io sono stato alla marcia della donne, un esempio della resistenza permanente da costruire. Per fortuna, il sistema giudiziario sta già reagendo. Dobbiamo tornare al volontariato, l’organizzazione di base dell’origine. Poi è necessario riformare il Partito democratico, affinché a guidarlo non sia solo un settantenne come Sanders. Bisogna fare in modo che l’America esca da questo disastro, usandolo per mettersi definitivamente alle spalle l’ideologia che lo ha provocato». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


La mobilitazione del capitalismo Usa “Il bando contrario ai nostri ideali” 

Non solo la West Coast ma anche le banche a Wall Street e i petrolchimici di Koch ora dubitano di Trump e prendono le distanze
FEDERICO RAMPINI Rep
NON si ricorda una simile mobilitazione del capitalismo americano contro un presidente. Stavolta Donald Trump ce li ha contro tutti, non solo le aziende digitali della West Coast ma il capitalismo più tradizionale, le banche di Wall Street, perfino i petrolchimici della dinastia Koch. È riuscito a unirli tutti all’opposizione, contro il suo decreto blinda-frontiere.
Il coro di critiche dall’establishment economico coincide con una giornata di calo delle Borse, un altro segnale che la luna di miele con Trump è in crisi. E nella condanna unanime dal mondo delle imprese giocano fattori che vanno oltre gli interessi materiali. Certo, le imprese americane da mezzo secolo sono abituate a potersi rifornire di manodopera e cervelli attingendo a un mercato del lavoro globale, l’idea di creare barriere etnico-religiose ha un impatto dannoso sul business. Ma c’è anche un appello ai valori che viene da tanti imprenditori e banchieri loro stessi immigrati o figli d’immigrati, compresa la componente ebraica che ricorda l’Olocausto. Infine il decreto anti-musulmani è la goccia che ha fatto traboccare il vaso: confermando i sospetti di tipo caratteriale su Trump, il dilettantismo e l’improvvisazione uniti alla presunzione formano un cocktail micidiale. I poteri forti dell’industria e della finanza di colpo dubitano che lui possa mantenere anche le promesse “positive” (meno tasse, deregulation) visto il disastro in cui è incappato al primo test serio.
«Goldman Sachs critica il governo di Goldman Sachs», è il titolo ironico usato dall’agenzia Bloomberg News. In effetti la potente merchant bank ha piazzato ben tre suoi dirigenti come ministri o alti consiglieri del presidente. Eppure il suo
chief executive Lloyd Blankfein non esita a mandare un messaggio vocale ai 34.400 dipendenti, sull’ordine esecutivo di venerdì che blocca gli accessi da 7 paesi: «Non è una politica che sosteniamo». Un altro colosso di Wall Street, la JP Morgan Chase, sottolinea che «l’America è rafforzata dalla diversità».
Clamorosa la presa di distanza della Ford. La casa automobilistica era protagonista di un idillio con Trump, a cui aveva promesso di ri-localizzare in Michigan una nuova fabbrica inizialmente destinata al Messico. In cambio si era vista offrire un abbattimento della tassa sui profitti e lo smantellamento delle norme anti- smog di Obama. Ma di fronte al decreto anti-islamici il presidente e il chief executive della Ford non ci stanno: «Contraria ai valori della nostra azienda». La città natale della Ford, Dearborn, è la “capitale islamica” degli Stati Uniti, il 30% degli abitanti sono di origine araba. I più beneficiati dalla “contro-rivoluzione fossile” di Trump, i fratelli Koch, hanno rotto la solidarietà con la Casa Bianca: «È possibile mantenere l’America sicura, senza escludere coloro che vogliono venire per migliorare la vita delle loro famiglie». La Silicon Valley californiana, e in generale tutta la West Coast, vede una sollevazione anti-Trump di tutti i grandi nomi dell’imprenditoria. Il chief executive di Apple, Tim Cook, ricorda che il compianto Steve Jobs era figlio di siriani. Mark Zuckerberg di Facebook ha subito condannato Trump, come lui hanno preso posizione Microsoft, Netflix e tanti altri.
Dopo le proteste scatta la solidarietà con le vittime. Da Seattle Starbucks annuncia che assumerà diecimila rifugiati entro i prossimi cinque anni. Da San Francisco si muovono le app digitali: Airbnb offre alloggi gratis ai profughi, Uber offre prezzi scontati a chi ha bisogno di un passaggio per andare a manifestare negli aeroporti. Google vara un fondo di solidarietà di 4 milioni con chi ha subito i danni del blocco degli ingressi, Lyft fa lo stesso con un milione di dollari.
Trump in campagna elettorale aveva messo in conto che l’establishment capitalistico potesse remargli contro: questo rientrava nella sua narrazione, che lo descrive come l’outsider, il difensore del popolo contro le élites. Poi però aveva lanciato una serie di segnali pro-business, sulle tasse o contro l’ambiente, per recuperare consensi su quel fronte. Ieri ci ha riprovato, con un ordine esecutivo che promette di abrogare due norme ogni volta che ne viene creata una nuova. È anche tornato a promettere uno smantellamento della legge Dodd-Frank, la riforma della finanza che varò Obama e non piace a Wall Street. Ma almeno ieri il grande comunicatore ha fatto cilecca, questi due annunci sono stati quasi ignorati nel fracasso generato dal bando di venerdì.
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Bannon, l’uomo forte che ha dettato a Donald la linea anti-immigrati 

Da Harvard alla finanza, dal sito delle “fake news” a consigliere del presidente. Ecco chi ha ispirato le prime mosse
VITTORIO ZUCCONI Rep
C’È QUALCOSA di marcio nel castello del nuovo sovrano, c’è un uomo che dalla curva più estrema della Destra americana più scalmanata controlla dall’interno della Casa Bianca i pensieri e le opere di Donald Trump. Il suo nome è Steve Bannon. Il suo potere è immenso. Le sue impronte digitali sono sulle prime decisioni prese dal presidente.
Bannon è per la nuova corte di King Donald quello che gli Schlesinger e i Soerensen furono nell’immaginario Camelot di John F Kennedy, il “consigliore” al quale il re affida la costruzione della propria immagine e della propria politica, come gli aveva affidato con successo la leggenda della propria campagna elettorale. A sessantaquattro anni, senza nessun precedente di governo o di amministrazione pubblica, senza esperienza internazionale, senza cravatta sulle camicione scozzesi che predilige per mostrarsi astutamente “uomo del popolo”, Bannon non è entrato soltanto alla Casa Bianca come assistente personale di Trump. Da domenica, è parte integrante del “Consiglio per la Sicurezza Nazionale”, quel circolo di consiglieri, divenuto potentissimo grazie a Henry Kissinger che ne fece un governo ombra sotto Nixon, che decide la strategia politica e militare dell’Amministrazione Usa. Per fargli posto, Trump ha escluso il Direttore dei servizi di intelligence e il Capo degli Stati Maggiori riuniti, dunque i due uomini che dovrebbero informare il Capo dello Stato e aiutarlo nelle scelte di vita o di morte. E custodire l’arsenale nucleare.
Da bizzarro, efficace, spregiudicato polemista nascosto dietro un popolarissimo sito di propaganda in Rete, Breitbart, celebre per titoli come “La pillola anticoncezionale rende le donne brutte e ripugnanti” o “Le cliniche abortiste hanno fatto già la metà dei morti dell’Olocausto”, Bannon è ora l’abilissimo stratega che guiderà il presidente nei suoi rapporti con la nazione americana e con il mondo. La sua mano si è già mostrata nelle tre principali ordinanze firmate da Trump nella prima settimana di presidenza: il primo passo verso la demolizione della Riforma Sanitaria, la “Obamacare”; l’annuncio del completamento della Grande Muraglia al confine con il Messico e il blocco dell’immigrazione di viaggiatori legittimi, con visti e permessi di soggiorno, provenienti da alcuni Paesi musulmani. Questi e altri “Ordini Esecutivi” che sicuramente verranno a tappeto sono la messa in atto di promesse elettorali che lui, Bannon, aveva saputo sfruttare conoscendone la efficacia con l’elettorato più ruvido e disperato.
Fanaticamente reazionario, ammirato dalla Destra Suprematista fino al Ku Klux Klan, devoto del potere alla Dart Fenner di Star Wars che aveva esaltato in una sua dichiarazione, Steve Bannon è tutt’altro che uno sprovveduto o uno zotico pescato da quella “pancia” dell’America ruspante e frustrata che ha fatto vincere Trump. Viene da una famiglia di lavoratori della Virginia che lo avevano allevato come Democratico, fino alla devastante delusione di Jimmy Carter alla fine anni ’70, che spinse Steve dall’altra parte del fossato e poi nella prateria selvaggia della alt-right, la destra alternativa anche alla destra tradizionale dei Repubblicani, prima Tea Party, oggi trumpista.
E stato ufficiale di Marina per quattro anni, studente con lauree in università di grande prestigio, come Georgetown e Harvard e poi, sempre per la leggenda della “Piccola Classe Media” dimenticata, dirigente della Goldman Sachs, quella finanziaria dalla quale provengono ben sei dei massimi consiglieri nel Team Trump. Dalla Goldman uscì per crearsi una propria “boutique” finanziaria per speculazioni ardite e, fatti abbastanza milioni, poi venne il passaggio alla pubblicistica online con la creazione di Breitbart e la produzione di notizie “fake”, prima che le “notizie false” diventassero di moda. I suoi scoop immaginari divennero, insieme con la propaganda dei commentatori radiofonici vicini all’estremismo della destra neonazionalista, il pane quotidiano di milioni di consumatori, avidi di odio per “il nero usurpatore” Obama e per i “liberal”, per i progressisti.
«I travestiti sono i più affetti dall’HIV». «Le donne nere sono disoccupate perché falliscono nei colloqui di lavoro». «La pillola rende le donne brutte e ripugnanti ». «Huma Abedin (la amica più stretta di Hillary) è legata al terrorismo islamico». «Lesbiche devastano un negozio di abiti da sposa». «Planned Parenthood (la rete di cliniche ginecologiche e abortiste) ha origini naziste ». «Bill Kristol (opinionista repubblicano che sconfessò Trump) è un ebreo rinnegato». «Il tour dei froci torna nei Campus Universitari». E questo crescendo di pseudogiornalismo culminò in una domanda che Steve Bannon fece nella versione radiofonica del suo sito: “Preferireste che vostra figlia diventasse femminista o avesse un cancro?”.
Ora l’autore di questi titoli siede nel circolo più stretto e segreto che condiziona il presidente, senza dover rispondere a nessuno, non al Parlamento, non ai tribunali, perché il Consiglio per la Sicurezza Nazionale è formato, e funziona, a totale discrezione del Capo. E la “Formula Bannon”, si è vista all’opera nella stessa tecnica utilizzata per costruire prima i notiziari calunniosi e poi nella campagna elettorale che lui, di fatto, ha guidato negli ultimi mesi decisivi. È la tecnica che in radio fu definita quella dello “Shock Jock”, del fantino degli shock, colui che frusta il cavallo dell’opinione pubblica con sferzate sempre più forti per fare dimenticare gli errori di ieri e per sbalordire con la botta di domani.
Il prevedibile caos creato dall’ordinanza presidenziale sull’immigrazione, pubblicato prima che le guardie di frontiera, gli uomini della Sicurezza Nazionale, il Dipartimento di Stato fossero consultati o avvertiti, ha creato, nella polarizzazioine di folle apparse agli aeroporti e nell’applauso dei “boia chi entra”, il perfetto diversivo. È stata la sensazionale arma di “Distrazione di Massa”, sempre costruita con lo strumento della paura indispensabile nella cultura del nazionaltrumpismo, per fare dimenticare l’unmiliazione subita dal Messico con l’annullamento della visita di stato del presidente Peña a Washington e l’imbarazzo dei parlamentari repubblicani di fronte alla demolizione del sistema assicurativo per il quale non hanno nessuna alternativa credibile. Il fatto che centinaia di viaggiatori, residenti, profughi con documenti e visti in perfetto ordine, uomini e donne anziani, bambini, siano stati bloccati nella confusione o fermati all’imbarco dalle compagnie aeree, che il mondo intero sia rimasto sbigottito di fronte alla irrazionalità di un decreto imposto a sorpresa, non ha turbato il piccolo, formidabile Richelieu della corte di Trump, ma ne ha accresciuto la statura agli occhi del sovrano, che infatti lo ha promosso a membro permanente del Consiglio. L’ombra di un maestro del falso giornalismo e dell’elettroshock propagandistico si allunga, come vero burattinaio, dietro la sagoma di cartone di Donald Trump.
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NELLE SCELTE DI TRUMP L’ODIO COME POLITICA TAHAR BEN JELLOUN Rep 3 2 2017
LA DECISIONE di Donald Trump di proibire l’ingresso in America ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana — al di là dell’aspetto del razzismo, senza precedenti negli annali della politica — è un’istigazione a passare dal semplice odio nei confronti dell’Islam ad azioni terroristiche che prendano di mira i musulmani. Può anche darsi che il terrorista che ha compiuto l’attentato in una moschea del Québec, provocando sei morti, non sia da mettere in collegamento diretto con la decisione del neo presidente, ma dobbiamo prendere atto della coincidenza. Chi ha perpetrato questo massacro avrebbe ammesso di provare ammirazione per Donald Trump e Marine Le Pen. La caccia ai musulmani è dunque stata aperta dal presidente della più grande potenza del mondo, un presidente impreparato e che dell’Islam in senso stretto non sa nulla.
I Paesi presi di mira sono sette, ma l’elenco potrebbe allungarsi in funzione dell’umore di Trump. Con lui, tutto è possibile. L’efficacia di questo decreto non è garantita: Daesh o al-Qaeda hanno militanti che vivono nei Paesi che sono intenzionati a colpire. I terroristi non entrano in un Paese da turisti. Hanno le loro reti, e spesso sono individui isolati che prendono da soli l’iniziativa di colpire, commettendo attentati pur sapendo che la loro vita non vale niente. Si tratta di persone che hanno scelto di loro spontanea volontà di trasformare l’istinto di vita in un istinto di morte, una morte data e subita. La loro logica non segue quella delle persone razionali normali. Per altro, non sono neanche pazzi, perché chi è pazzo fa qualsiasi cosa. La loro determinazione elude la vigilanza delle forze dell’ordine.
In ogni modo, la decisione americana nasce da una politica demagogica non suffragata da analisi né da conoscenze specifiche. Procede dalla spirale terroristica. Si limita a stigmatizzare ed esacerbare ancora di più le popolazioni di religione musulmana che soffrono come tutti gli altri a causa del terrorismo e delle sue ripercussioni.
Dopo gli attentati in Paesi come Egitto o Tunisia, l’economia locale che si reggeva sul turismo è crollata. Nessuno è stato risparmiato. In ogni caso, il terrorismo jihadista non sparirà creando difficoltà ai musulmani che devono recarsi in America per motivi di lavoro o vogliono riunirsi alle loro famiglie che già vi abitano legalmente. Al contrario.
Il razzismo procede per generalizzazioni. E da qui hanno origine pregiudizi difficili da estinguere. Trump è ignorante. Peggio ancora, è convinto che l’origine del male assoluto sia la religione di Maometto. Non sa nulla di questa religione, ancora meno della sua civiltà, e niente dell’epoca d’oro degli arabi che tra il IX e il XII secolo hanno dato validi apporti alla civiltà universale. Ignora perfino dove si trovino alcuni Paesi musulmani.
La cosa grave, in tali circostanze, è che Donald Trump riflette abbastanza fedelmente l’opinione di un buon numero di americani. Incarna un tipo di mentalità assai diffusa, chiusa e ripiegata su sé stessa, disinteressata nei confronti del resto del mondo. Si sente forte ed è determinato perché persuaso di essere stato eletto da chi lo ha delegato espressamente a varare questa politica, che non conosce moderazione né diplomazia e ancor meno giustizia. Agisce come un texano che non ha mai messo piede fuori dal suo ranch e che nutre soltanto pregiudizi assurdi sull’Islam, sugli arabi, sui messicani. L’ignoranza, sommata all’arroganza che si accompagna alla ricchezza, porta all’odio, e l’odio predispone alla guerra.
Il nuovo segretario delle Nazioni Unite ha fatto bene a esprimere la sua viva preoccupazione. Invece di smussare le relazioni già molto turbolente tra i vari Paesi, ecco che Trump getta benzina sul fuoco e va avanti con le provocazioni. Dimentica che l’America è formata da tanti immigrati, che deve la sua forza ad apporti diversi, che la sua anima sta tutta in questa smisurata diversità, che l’Islam appartiene alle religioni che si praticano da tempo in questo grande Paese.
Per fortuna, i cittadini americani manifestano la loro opposizione a questa politica di odio e razzismo, e un giudice ha permesso alle persone colpite da questo decreto di entrare in America. Gli americani che si stanno mobilitando per respingere questa politica di odio e di esclusione sono sempre più numerosi. Forse, soltanto la rabbia della popolazione riuscirà a cambiare la situazione.
Nel frattempo, i musulmani degli altri Paesi non reagiscono, non esprimono solidarietà agli altri musulmani discriminati. Sarebbe normale, invece, se i musulmani indignati dal razzismo in versione Trump reagissero insieme e insieme manifestassero il loro rifiuto nei confronti di quest’America, presa in ostaggio da ciò che ha di peggio.
( Traduzione di Anna Bissanti) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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