mercoledì 1 febbraio 2017

Nel 2017 ci sono ancora cinque Brigatiste Rosse in Alta Sicurezza

Le brigatiste irriducibili che non vogliono uscire dal carcere 

Sono cinque, recluse da quasi trent’anni a Latina Rifiutano di avere qualsiasi rapporto con lo Stato

MASSIMO LUGLI CLEMENTE PISTILLI Rep 31 1 2017
Irriducibili. Chiuse nel loro passato di sangue, si aggrappano con tutte le forze a ideali ormai frantumati, usano il linguaggio degli anni di piombo, si chiamano “compagne” tra loro e rifiutano, con ostinazione incrollabile, qualsiasi rapporto con le istituzioni e con quello che continuano a definire “lo Stato borghese”. Potrebbero uscire dal carcere, in semilibertà o ottenere facilmente benefici di legge o permessi temporanei con una semplice domanda ma nessuna di loro lo fa. Vagheggiano la lotta armata, inneggiano alla rivoluzione, si trincerano dietro slogan ormai sbiaditi dal tempo nonostante la stragrande maggioranza dei loro ex compagni, quelli che avevano imbracciato le armi come tanti altri di una generazione perduta, siano ormai liberi, tra pentiti, dissociati, graziati, collaboratori di giustizia.
È un mondo a parte, un mondo in bianco e nero quello della sezione di Alta Sicurezza del carcere di Latina, tetro istituto di pena costruito nel 1934, un rettangolo di mattoni color rosa spento, circondato da una barriera di metallo, dove, dalla fine degli anni 80, sono detenute le ultime cinque brigatiste ancora votate allo scontro senza quartiere. Si chiamano Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo e Vincenza Vaccaro, hanno tutte una condanna all’ergastolo sulle spalle e un curriculum fatto di arresti, sparatorie, omicidi e rivendicazioni. Sono sulla sessantina, non parlano con nessuno che rappresenti, in qualche modo, un’istituzione e, a guardarle, sembrano tranquille signore che si avviano alla terza età e che, in qualche modo, cercano di curare aspetto e forma fisica (qualcuna non rinuncia a truccarsi). Per il resto, chiusura totale. Negli ultimi mesi, al gruppo si sono unite altre due detenute politiche, Anna Beniamino e Valentina Speziale, provenienti dalle file del terrorismo anarchico. La stessa sezione di Alta Sicurezza, una versione un po’ ammorbidita del carcere duro, è divisa in due piani: quella delle ex terroriste e quella delle donne condannate per mafia o narcotraffico. Nessun rapporto tra i due gruppi. Una sorta di gineceo blindato all’interno di un carcere maschile dove tutto sembra immobile da anni, il computer (ovviamente non collegato in rete) è arrivato soltanto di recente e poche delle detenute hanno mai usato un bancomat o un telefono cellulare.
Su questa piccola isola, unica nel suo genere nell’arcipelago carcerario, gravano alcune ombre, specialmente in un periodo in cui l’incubo del terrorismo nazionale e internazionale torna ad affacciarsi. Una sorveglianza a scartamento ridotto denunciata dal sindacato Ugl della polizia penitenziaria. «In tutta la sezione di alta sicurezza ci sono 35 detenute ma, per sorvegliarle, soltanto 13 agenti donne. Ne servirebbero almeno 4 o 5 per turno ma in servizio ce n’è soltanto una», denuncia il segretario nazionale Alessandro De Pasquale, che si è rivolto al prefetto di Latina e al Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. «In queste condizioni, garantire la vigilanza è praticamente impossibile».
Nadia Fontana, la direttrice del carcere, rifiuta educatamente, ma fermamente, qualunque colloquio con i cronisti. Eppure le sette recluse “politiche”, almeno ideologicamente, non hanno mai deposto le armi e sono ancora un pericolo: nel corso delle indagini sull’omicidio di Massimo D’Antona, il giuslavorista assassinato a Roma, in via Salaria, il 20 maggio del 1999 (un omicidio che fu l’esordio di sangue delle Nuove Brigate Rosse), nelle celle delle irriducibili, a Latina, vennero trovate le bozze di un volantino di rivendicazione, scritte in parte a mano e in parte a macchina, nascoste tra le pagine di libri e riviste.
L’inchiesta si concentrò soprattutto su Maria Cappello, una figura emblematica del gruppo. Coinvolta nell’assassinio del sindaco di Firenze, Lando Conti, ucciso con 17 colpi di pistola il 10 febbraio 1986, è rinchiusa nella sezione di Alta Sicurezza da quando aveva 34 anni. Oggi ne ha 63. Ogni anno viene accompagnata con un mezzo blindato a Trani, per incontrare il marito, Fabio Ravalli, che sta scontando l’ergastolo per gli stessi reati, arrestato nell’88 in un covo di via della Marranella a Roma. “Anna”, questo il suo nome di battaglia, aveva inventato una sorta di codice segreto, basato sul gioco degli scacchi, per sfuggire alla censura. A trovarla in carcere va, regolarmente, il figlio che abbandonò quando aveva 8 anni per entrare in clandestinità.
Costrette ad accettare i pochi incarichi remunerati disponibili, come la pulizia interna, le brigatiste, nel 2010, protestarono per la riduzione di queste opportunità: prima guadagnavano circa 400 euro e in seguito la paga si ridusse a 30. Ultimamente, grazie all’associazione Solidarte, si sono dedicate a lavori di artigianato in cuoio creando un piccolo marchio, “Pig” che ha un doppio significato: la pelle del maiale che usano per creare alcuni oggetti e la sigla “Pellacce in gioco”.
Per far passare le interminabili giornate nelle celle singole e negli spazi riservati alla socialità, le ex terroriste hanno aderito per qualche tempo a un progetto dell’associazione “Centro Yoga e Shiatsu Shiayur”. «Si sono consultate tra di loro e hanno detto sì» spiega il direttore, Rosario Romano. «Le ricordo intelligenti, educate, collaborative. A un certo punto però decisero di smettere: continuare a seguire il corso voleva dire accettare le istituzioni che loro rifiutano». Irriducibili.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: