mercoledì 1 febbraio 2017

Silvia Ronchey sulla conquista turca di Costantinopoli



Quell’eclissi di luna che segnò la caduta di Costantinopoli 
Nel 1453, pochi giorni prima della conquista di Bisanzio in cielo apparve una falce sottile 
Il sultano Mehmet II la adottò come simbolo, lo stesso che ora è sulla bandiera turca

SILVIA RONCHEY Rep 31 1 2017
Il 24 maggio 1453, cinque notti prima che Costantinopoli fosse conquistata dai turchi – segnando secondo alcuni il primo atto di ciò che oggi, dopo la caduta dell’impero ottomano all’inizio del Novecento e dell’impero zarista, poi sovietico, alla sua fine, è impropriamente definito scontro di civiltà – vi fu un’eclissi parziale di luna. Nicolò Barbaro, medico di bordo veneziano durante l’assedio, la descrisse con accuratezza: «L’aria era senza nubi, limpida e pura come il cristallo». Ma quando la luna sorse, un’ora dopo il tramonto, anziché un cerchio completo comparve «una luna come di tre giorni», di cui era visibile non più di una falce
sottile. Per quattro ore il volto della luna rimase così finché l’ombra della terra proiettata dal sole «si ritirò a poco a poco e all’ora sesta della notte si riformò un cerchio intero». Nel frattempo, terrore e tremore invasero entrambi i campi. Era un segno funesto, ma per chi?
Da più di un millennio la luna era il simbolo di Costantinopoli. La Città era sacra ad Artemide- Ecate, l’ipòstasi greca della Dea Bianca, che recava sulla fronte la falce, residuo, secondo un’intuizione di James Frazer poi sviluppata da Robert Graves, di un’antichissima tradizione matriarcale. Secondo questa teoria, le religioni dei popoli indoeuropei avevano avuto origine dal culto comune di una divinità femminile, conosciuta sotto diversi nomi, ispirata e rappresentata dalle fasi lunari. Il mutevole volto della dea si celava dietro le diverse personificazioni femminili del mito pagano, ma anche dietro il culto cristiano, che quanto meno nell’adorazione di una coppia sacra madre-figlio rielaborava credenze e riti di un corpus religioso preesistente. Dall’eclissi della dea lunare sarebbe sorto il mondo storico, che dopo l’introduzione di nuovi dèi maschili nell’olimpo ellenico avrebbe ceduto il passo al dio onnipotente del monoteismo, che avrebbe spezzato la ciclicità della storia introducendo un’idea di elezione e linearità legata a una promessa escatologica.
Ma questo processo non si era compiuto del tutto nel cristianesimo bizantino. La Madonna, raffigurata con una falce di luna sotto i calzari nella persistente iconografia attinta al dodicesimo capitolo dell’Apocalissi di Giovanni, non era che un’altra ipòstasi della divinità lunare, in particolare della sua personificazione isiaca, e come tale sarebbe stata venerata in lunghi secoli.
Grande era la Diana degli efesini; ma anche dei costantinopolitani. Si dice fosse stato Costantino stesso, nel 330, dedicando la sua Polis alla Vergine Madre di Dio, ad aggiungere alla mezzaluna di Diana il simbolo mariano della stella, fondendo paganesimo e cristianesimo, come in tutti i suoi atti politici e religiosi, anche in questo atto simbolico. Per più di un millennio Costantinopoli, città lunare e femminile per eccellenza, aveva continuato ad avere nella falce di luna il suo emblema, perpetuando, nella teologia politica come nel culto religioso, il principio femminile che animava il paganesimo antico. Per più di un millennio quell’effigie era stata impressa nelle monete, aveva adornato di lunette i portoni della “Città vergine”, della «giovane sposa cui avevano aspirato molti re e sultani dell’islam » – in particolare Bajazid e Murad II– e che era «città promessa nell’hadîth di Muslim», come scrive Tursun Beg, biografo di Mehmet II, il ventenne sultano che con nevrotica sconsideratezza e fino a quella notte ben poca fortuna aveva deci- so di cingere d’assedio la Polis in cui era racchiuso l’impero bizantino e che pochi giorni dopo, per un’imprevista e irrazionale svolta della sorte, sarebbe riuscito a renderla capitale di quello ottomano, peraltro continuando a chiamarlo “impero di Rûm”, cioè impero romano.
Fortezza inespugnata, hortus conclusus dietro le altissime mura di Teodosio, nel folto dei suoi giardini, la Città era una grande fessura profonda tra il Mar Nero e l’Ak Deniz, «che può accogliere nel suo seno infiniti vascelli e contiene giardini meravigliosi e odora dei soffi profumati del nord e del nord-est». A conquistarla Mehmet era spinto da un’attrazione che era insieme politica e fisica, mistica e erotica, come per una donna desiderata in modo spasmodico dopo un estenuante corteggiamento. Per tutto l’assedio «il pâdishâh, Signore della Conquista», racconta Tursun Beg, «parlava della seduzione della novella sposa, attendeva il momento di unirsi a lei e di contemplarne da vicino le grazie». Costantinopoli era «la compagna inseparabile delle sue notti». La prosa del cronista si contrae in versi: «Spero di espugnarti con il cannone dei miei sospiri».
Mehmet II disegnò l’eclissi sul taccuino che teneva dei giorni d’assedio e che è tuttora conservato negli archivi del Topkapi. O meglio, raffigurò una mezzaluna, ma molto diversa da quel crescente onnipresente che da secoli era diventato anche insegna di varie tribù turche, inclusa quella di almeno uno dei khanati da cui sarebbe emerso l’impero osmano, che l’aveva adottata, secondo alcuni, già dal tempo di Osman ghâzi. La quasi totalità dei popoli maomettani, d’altronde, aveva e avrebbe mutuato quel simbolo, ulteriormente trasmesso, tramite l’islam, fino all’Asia Centrale. Può sembrare strano, nell’ottica di Graves, che proprio il più gelosamente maschile dei monoteismi avesse ripreso nei suoi vessilli un simbolo femminile e pagano. Della sua ascendenza il mondo musulmano ha avuto e ha tuttora tanta consapevolezza che oggi alcuni degli stati più rigoristi rifiutano di riconoscervi l’emblema della fede islamica, considerando la mezzaluna un’antica icona pagana: non a caso né nella bandiera dell’Arabia Saudita né in quella dell’Iran compare la falce, rimasta invece incisa sul campo rosso sangue di quella ottomana.
Nel fiorire infinito di leggende sulla sua origine, una delle più diffuse è che il giovane conquistatore la creò proprio in quel limpido maggio e proprio in seguito all’eclissi. Nel disegno del taccuino il cerchio lunare è appena intaccato dal globo che lo oscura. Che Mehmet abbia visto l’eclissi fin dal principio è fuori di dubbio, così come le osservazioni continue del cielo che conduceva con i suoi astrologi, per cui un’apposita specola era stata ricavata nella sua tenda piazzata fuori dalle Mura di Terra. Ma ciò che la leggenda non dice, o non esplicita, è che, se questo è vero, Mehmet innovò radicalmente l’ancestrale significato simbolico della mezzaluna. Se è vero, come le fonti narrano, che la falce ottomana nella variante in cui la vediamo ancora oggi, con le due punte più ravvicinate di quanto non fossero nelle precedenti versioni del crescente lunare di Iside o di Artemide o anche della Madonna, nacque all’indomani della Con- quista, quello che Mehmet fece non fu semplicemente adottare nel proprio vessillo l’antico simbolo della città-sposa, ma segretamente rinnovarlo inglo- bandovi sé stesso e il suo dio: il cono d’ombra astronomico-sacrale di un carisma maschile che da questo momento in poi entra a farne parte e che nell’icona è incluso come in un abbraccio. Fu forse così, allora, che non il cristianesimo ma l’islam eclissò l’antica luna, e la religio dell’antica Madre fu oscurata dal proiettarsi dei raggi di quell’invitto astro solare che come l’avanzata turca si muoveva da oriente a occidente e in cui ogni popolo riconosceva il dio Padre. Fu forse questo, allora, anche il momento della storia in cui per la prima volta il Padre Eterno del monoteismo prese davvero a eclissare la Madre Eterna, che per più o meno segreti aspetti si era conservata nell’ibrido cristianesimo ellenico instaurato a Bisanzio da Costantino.
Qualche decina di anni fa, alla fine della Guerra Fredda, tra le gole del fiume Akhurian che congiungono l’Anatolia all’Armenia, lungo il crinale vulcanico che custodisce, pietrificata dalla lava di un’antica eruzione, la città di Ani “dalle mille e una chiesa”, si fronteggiavano due bandiere rosse. La sentinella turca e il soldato russo dagli occhi a mandorla, ai due lati dell’esiguo crepaccio che segnava il confine, erano così vicini che si poteva chiedere una sigaretta all’uno e fumarla con l’altro. Le due bandiere erano altrettanto prossime: la falce di luna e la stella, la falce operaia e il martello. I due imperi eredi di Bisanzio si fronteggiavano. Oggi, dopo la caduta del muro di Berlino, lo sciame sismico di conflitti etnici che la psiche occidentale tenta di interpretare come un “unico” scontro frontale, il movimento tellurico rovinoso che in un continuo e asimmetrico riattivarsi di antiche faglie di attrito ha cambiato la faccia del mondo, porta il sultano, ultimo califfo, e lo czar, ultimo dei cesari, a riaffrontarsi. La rivista dell’Isis si chiama oggi Roumiya, il nome che ai tempi di Bisanzio l’islam dava a Costantinopoli.

Nessun commento: