martedì 21 marzo 2017

Gore Vidal, Giuliano e il romanzo storico imperiale

GiulianoGore Vidal: Giuliano, Fazi traduzione di Chiara Vatteroni pagg. 586 euro 19,50

Risvolto
Pubblicato per la prima volta nel 1964, Giuliano è uno dei romanzi di maggiore successo di Gore Vidal. La fortuna ininterrotta che i lettori gli hanno tributato dalla sua uscita e gli apprezzamenti favorevoli della critica letteraria lo fanno annoverare tra le opere di narrativa più importanti della letteratura americana del Novecento. Il romanzo racconta la vita privata e politica di Giuliano, l’imperatore romano del quarto secolo, nipote di Costantino, che durante i brevi anni del suo regno tentò di soffocare la diffusione del cristianesimo e di restaurare il culto degli dèi, passando per questo motivo alla storia con l’appellativo di “Apostata”. Morirà assassinato nel 363, tre anni dopo essere diventato imperatore, avendo completamente fallito la realizzazione del suo progetto. Il racconto di Vidal comincia diciassette anni dopo la morte di Giuliano e prende le mosse dalla corrispondenza tra due potenti e influenti uomini politici del tempo. Senza scrupoli, portati a privilegiare gli intrighi della politica e del potere, non esitano a farcire le loro lettere di osservazioni malevole, pettegolezzi e maliziose digressioni che interpolano al diario scritto dall’imperatore, destinato a essere la sua autobiografia. Nelle pagine di Giuliano troviamo così l’affascinante rappresentazione di un conflitto politico e religioso in cui già si profila il declino dell’Impero Romano; ma troviamo, soprattutto, il sentimento di un’epoca, raffigurato con maestria e con l’inconfondibile stile di Gore Vidal. Nella lotta senza speranza contro il cristianesimo ormai trionfante, nel tentativo – che egli stesso sa essere destinato a fallire – di restaurare una religione che lo spirito del tempo non sente più sua, si nasconde il tormento di un’anima spaventata e smarrita di fronte al futuro. Un sentimento che appartiene a ogni epoca e che fa della tragica parabola dell’imperatore romano una storia attuale anche ai giorni nostri.



Domus of Cards 
Dal “Giuliano” di Vidal alle serie tv così la fiction riscrive il passato L’identikit del potere nei grandi romanzi sull’impero romano

MAURIZIO BETTINI Rep 14 3 2017
Michel de Montaigne deprecava l’abitudine di distinguere gli imperatori romani in buoni e cattivi a seconda che fossero stati o meno dalla parte dei cristiani. Magari attribuendo false lodi ai “nostri” e condannando qualsiasi azione compiuta dagli altri solo perché non stavano con “noi”: com’era avvenuto nel caso di Giuliano, detto l’Apostata, imperatore dei Romani dal 360 al 363. Tradizionalmente esecrato perché aveva abbandonato Cristo per tornare alla religione dei padri, Montaigne considerava invece Giuliano «un uomo assai grande e raro», un filosofo eccellente in ogni virtù. Per capire l’importanza delle riflessioni (oggi diremmo revisioniste)
dedicate a Giuliano da Montaigne, basta ricordare che stavano in un saggio dal titolo Della libertà di coscienza: il quale prendeva le mosse dalle sanguinose guerre di religione che, in quegli stessi anni, devastavano la Francia. In sostanza egli rifiutava il principio che ci fosse un dio unico e solo, quello propugnato dai cristiani: inteso come il creatore dell’universo e il signore dell’intera umanità. Al contrario l’imperatore filosofo — che così sarebbe meglio chiamarlo, anziché l’Apostata — sosteneva che ci fosse sì un unico creatore, che era però il Demiurgo, il quale, dopo la creazione, aveva affidato ciascuna nazione a una diversa divinità. In altre parole galli, germani, greci, romani e così via avrebbero fatto capo ad altrettanti singoli dèi, capaci di rispecchiarne gli specifici caratteri etnici e morali di ciascun popolo: Ares per le nazioni bellicose, Atena per quelle bellicose e sagge insieme, Hermes per quelle più prudenti che audaci. Di questa rosa faceva parte anche il dio degli ebrei, quello che i cristiani avevano a loro volta fatto proprio. Oggi diremmo che Giuliano preconizzava un modello religioso ispirato ai principi della geopolitica, tale da mantenere pace e armonia tanto fra le diverse divinità. Ovviamente i cristiani non accettavano di veder ridotto il proprio dio al rango di una divinità nazionale; ma è altrettanto chiaro che agli occhi di Montaigne, il quale vedeva le diverse nazioni europee, e la sua stessa Francia, insanguinate da guerre di religione, questa “geopolitica federativa” degli dèi poteva apparire una via di salvezza. Perché dunque non tornare a riflettere sulla soluzione “geopolitica” proposta da Giuliano in materia di divinità, e sulla figura dell’imperatore filosofo? Tanto più che possiamo farlo anche con l’aiuto della letteratura — e almeno in questo caso, non si tratta di un aiuto da poco.
L’editore Fazi, infatti, manda nuovamente in libreria il grandioso romanzo che, alla metà degli anni Sessanta, Gore Vidal dedicò all’imperatore: Giuliano.
L’eroe di Vidal cresce in un mondo cupo, in cui dietro ogni tenda può nascondersi un sicario e ogni bevanda può contenere un veleno. La sua giovinezza è sorvegliata da vescovi dotti e infidi, eunuchi dall’onnipotente obesità, e da un fratello, destinato ben presto a divenire Augusto, bello e crudele come una bestia selvaggia. La cosa che più colpisce, in questa densa biografia dell’imperatore, è il fatto che non sembra esserci scarto fra la “immaginazione storica”, come Vidal stesso la definisce, e la storia: se è vero che, come raccontava Ammiano Marcellino, il giorno in cui a Giuliano fu concesso di salire sul cocchio dell’Augusto (rarissimo onore) egli lo fece sussurrando fra sé questo verso di Omero: «Lo colse la morte purpurea e il fato onnipotente ». Nei sontuosi palazzi di Antiochia, di Milano o di Costantinopoli regnare e morire erano spesso sinonimi, tanto più se su quel trono non si era ancora saliti, ma si era sospettati di poterlo fare.
Di questo Giuliano era stato cosciente fin dall’inizio. Nella battaglia di Adrianopoli cadrà trafitto non dalla lancia di un persiano, ma dal giavellotto che gli piantò nella schiena uno dei suoi soldati, fanatico cristiano. Ma il Giuliano di Vidal non è quello della sua tragica fine. È il giovane intellettuale cauto ma ribelle, che frequenta i maestri “proibiti”, anteponendo i libri alle crudeli gozzoviglie predilette dal fratello — e forse proprio per questo scivola miracolosamente illeso fra le maglie di un potere spietato. Fino al momento in cui, divenuto Augusto, cercherà di realizzare il suo grandioso sogno di filosofo: restituire all’impero quel passato splendore culturale che il fanatismo aveva distrutto. Irreparabilmente, ma di questo Giuliano non si era reso conto.
Dall’uscita del Giuliano di Vidal sono passati cinquant’anni. Adesso che il romanzo torna in libre- ria, con tutta la potenza della sua “immaginazione storica”, quale antichità trova ad attenderlo? In altre parole, qual è l’immagine del mondo antico che sembra oggi prevalere sulle tante altre possibili? Ogni epoca, si sa, ha avuto la propria rappresentazione dell’antico, e non parliamo solo di quella “scientifica” tipica dell’Ottocento tedesco o di quella vanamente retorica dell’Italia fascista. Dunque guardiamoci intorno. Di certo il Giuliano di Vidal si troverà in amichevole compagnia, innanzi tutto perché al momento i romani, soprattutto quelli di età imperiale, almeno in libreria sembrano averla vinta sui greci: e non è un cambiamento da poco, rispetto ai fasti ellenici di qualche decennio fa. Ma con che genere di romani abbiamo a che fare? Basta solo scorrere qualche titolo per capirlo. Ci sono i bei libri di Mary Beard, una studiosa la cui “immaginazione storica” è fuori discussione. C’è il recentissimo Dynasty. Ascesa e caduta dei Cesari di Roma, di Tom Holland, in cui le vicende della famiglia Giulio Claudia (da Cesare a Nerone) sono raccontate con la vivacità e la minuzia di uno storico che non disdegna di guardare House of Cards. Poi ci sono numerose biografie di Livia, come quella di Anthony Barrett (dall’eloquente sottotitolo La first lady dell’impero), ce ne sono più d’una di Cesare (come quella di Adrian Goldsworthy edita da Castelvecchi) e di Augusto (una d’autore è di John Williams, sempre Castelvecchi), e così via. Insomma i romani che sembrano oggi interessarci sono quelli delle loro vicende storiche intese come fortemente biografiche e insieme quotidiane. Sono i romani che vanno in sintonia con serie quali Hercules o Rome — per quanto, in verità, quelli televisivi esagerino un po’ col trash — e che si sposano bene con una visita a Pompei fatta di persona o (tramite Bbc) in compagnia di Mary Beard. Sono insomma i romani in cui, a quanto pare, si rispecchia la nostra passione per le vite private e gli amori dei grandi, la nostra visione della politica non come pratica del governo di un paese, ma come intrigo costante: mentre i bisogni delle persone qualunque vengono compressi fra le quinte di un palcoscenico in cui spiccano Trump e le sue mogli, la sorridente coppia degli Obama, Elisabetta e Filippo divenuti fiction cinematografica già prima che lei abbia lasciato il trono e lui il mondo. Insomma, romani che sembriamo noi.
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