mercoledì 1 marzo 2017

Il fiuto politico dei sovranisti eurasiatisti italiani "oltre destra e sinistra" non pare superiore a quello dei Liberal










Va detto che cresceva anche con Vendola nero. E infatti non c'era bisogno di prendere posizione tra i due [SGA].

Barone: «Gli eccessi di Trump? Distinguete stile e la sostanza ... Corriere

Trump, Difesa da record 54 miliardi di spesa in più Tagli agli aiuti all’estero 

Colpite le agenzie per l’ambiente e il sostegno allo sviluppo Ma servirà l’ok anche di parte dei democratici al Congresso
FEDERICO RAMPINI Rep
«La mia America ricomincerà a vincere le guerre». Donald Trump mantiene la promessa: il suo riarmo non è solo uno slogan. +54 miliardi di stanziamenti alla Difesa, un aumento del 10% della spesa militare: è un record storico in tempi di pace, avendo lui ereditato da Barack Obama il rimpatrio di quasi tutte le truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq. Per non sfasciare l’equilibrio dei conti pubblici, quei soldi arriveranno da altre voci di bilancio: le più colpite sono l’agenzia per l’ambiente e gli aiuti allo sviluppo. È un’America che si ripiega bellicosamente su se stessa, vuole essere più sicura non spegnendo le ragioni dell’instabilità mondiale e i focolai di futuri conflitti, ma armandosi più che mai fino ai denti.
La logica la spiega Trump in un discorso ai governatori repubblicani, 24 ore prima il suo intervento al Congresso in seduta congiunta (stasera tardi, nella notte italiana). «Questo bilancio — dice Trump — realizza la promessa che ho fatto in campagna elettorale, di mantenere gli americani più sicuri. Include uno storico aumento della spesa per la difesa, con cui ricostruiremo la forza militare che era stata indebolita. È un messaggio al mondo sulla forza e la determinazione dell’America. Dobbiamo ricominciare a vincere le guerre. Quando ero giovane, al liceo e all’università, la gente diceva che noi non avevamo mai perso una guerra». È singolare il richiamo agli anni della sua giovinezza. Da un lato perché contiene un ennesimo falso — negli anni Cinquanta l’America non riuscì a vincere la guerra di Corea che finì in un brutto pareggio dalle conseguenze interminabili; negli anni Sessanta fu sconfitta in Vietnam. D’altro lato perché quando era studente universitario Trump come molti figli di privilegiati evitò di andare al fronte in Vietnam lasciando che a rischiare la vita andassero i non raccomandati.
È innegabile che il boom di spesa per il riarmo sia un’altra promessa mantenuta. In campagna elettorale Trump aveva dato anche i seguenti numeri: aumentare di 50.000 soldati le truppe dell’esercito di terra (dai 490.000 attuali) e di 12.500 i marines. Aveva promesso inoltre la costruzione di 75 fra navi e sottomarini, e l’acquisto di 100 cacciabombardieri per arrivare a 1.200. Ha annunciato anche costosi investimenti per l’ammodernamento dell’arsenale nucleare. Ora è arrivato il conto. La proposta di super-budget della difesa dovrà passare al vaglio del Congresso, con un iter non semplice perché bipartisan. È in vigore infatti da cinque anni una sorta di «austerity automatica» che impone tagli fissi e indifferenziati a tutte le voci della spesa pubblica federale, inclusa quella militare. Gli automatismi furono il frutto di un compromesso fra Barack Obama e la maggioranza repubblicana, per sbloccare l’impasse quando la destra aveva condotto alla paralisi il bilancio pubblico. Per smontare quel meccanismo, e consentire il boom di spesa bellica, ci vorrà una maggioranza qualificata e quindi un consenso almeno di una parte dell’opposizione democratica. Quest’ultima non può condividere i tagli all’ambiente. Tra le voci di spesa che Trump vuole sacrificare per reperire fondi per il Pentagono, c’è l’Environmental Protection Agency. Anche qui mantiene una promessa, quella di smantellare le riforme con cui Obama puntava a raggiungere gli obiettivi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico. L’opposizione può ricordare che lo stesso Pentagono mette il cambiamento climatico tra le minacce strategiche per la sicurezza degli Stati Uniti, sia per i rischi di nuovi conflitti legati alla scarsità dell’acqua in alcune zone del mondo, sia per gli esodi di “rifugiati climatici” provocati da calamità ambientali. Anche gli aiuti allo sviluppo dovrebbero aiutare la prevenzione dei conflitti, anziché intervenire ex post con le armi. La risposta di Trump è nota: lui punta il dito verso un mondo nel caos, come conferma che le ricette di sinistra hanno fallito. L’impronta populista del suo progetto di bilancio è confermata da una non-notizia: zero tagli al Medicare (sanità pubblica per gli anziani) e alla Social Security (pensioni), che sono le due voci più grosse della spesa, ma sono anche due vacche sacre dell’anziano elettorato repubblicano.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Tra realisti e falchi le due anime della Casa Bianca McMaster e Mattis spingono Donald a cercare sostegni al centro, Bannon e Miller rifiutano ogni compromesso Gianni Riotta Stampa 1 3 2017
Il libro più letto a Washington per decifrare la presidenza di Donald Trump è stato scritto 20 anni fa, si intitola «Dereliction of Duty», abbandono del proprio dovere, e lo ha compilato come tesi di laurea il generale H. R. McMaster, oggi Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Schizzato in testa alle classifiche su Amazon per l’editore HarperCollins, il manuale di teoria militare capovolge la tradizionale critica storica alla guerra in Vietnam. 
Dsempre si accusavano i civili, Kennedy, Johnson, McNamara, Kissinger, di aver ficcato il paese in una tragedia, mentre i militari si sacrificavano invano nelle risaie. McMaster mette invece sul banco degli imputati, con durezza, proprio i generali. Toccava a loro, argomenta, spiegare ai Presidenti che la strategia era sbagliata, obbedirono in silenzio per conformismo e carrierismo, tradendo così il proprio dovere.
Tra duri e moderati
La tesi di McMaster è compulsata con l’occhio non alla Washington di mezzo secolo fa, ma a quella del 2017. Il duro McMaster saprebbe dire di no, se servisse, a Trump, come i suoi colleghi non seppero fare? Nei corridoi del potere, dai think tank Brookings e Carnegie, all’Università di Georgetown, tra i reporter ribelli di Breitbart alla loro nemesi del «New York Times», tra gli scranni del Congresso, McMaster appare come l’uomo che, per ruolo e carattere, potrebbe invitare il Presidente a non eccedere in foga irruenta. Dietro di lui potrebbero muoversi il segretario di Stato Rex Tillerson, il ministro del Tesoro Steven Mnuchin, il ministro della Difesa James Mattis detto «cane rabbioso», con i due Stephen, i militanti consiglieri populisti Bannon e Miller, a caricare invece Trump da leader di un’agenda protezionista in casa e oltranzista nel mondo. Il capo di gabinetto Reince Priebus e il vicepresidente Mike Pence sarebbero i mediatori tra le fazioni, con Priebus più vicino ai falchi e Pence ai moderati.
Che per vaticinare la strategia di Trump ci si affidi a un arcano testo accademico, prova quanto il neo presidente abbia sconvolto le analisi classiche della politica Usa, con alleati di partito e nemici giurati dell’opposizione che stentano, allo stesso modo, a decifrarne la rotta. Il Presidente aveva in programma di parlare ieri sera al Congresso, difendendo la scelta di puntare su un bilancio della Difesa che aumenta la spesa militare di 54 miliardi di dollari (cambio euro dollaro 1,06), tagliando altri capitoli di spesa, dagli aiuti ai Paesi terzi al bilancio del ministero degli Esteri, stralciato del 30%.
No a visioni apocalittiche
Trump è stato pressato dai moderati per presentare un quadro meno apocalittico dell’economia, anche perché le Borse vanno bene, scommettendo sulla spesa per il Pentagono e le infrastrutture pubbliche, oltre ai tagli fiscali, per cittadini e aziende, annunciati in campagna elettorale ma non ancora definiti. Colpite solo le compagnie come Walmart, la catena di supermercati, che puntando sulle importazioni temono di dovere alzare i prezzi di prodotti popolari che i consumatori pagheranno più cari. Il Presidente lascerà sulle spalle di Obama il peso «del caos che ho ereditato», ma senza adottare i toni lacrime e sangue del discorso dell’inaugurazione, quando Bannon dettò il titolo «carneficina americana».
Le poche settimane di governo hanno dimostrato al focoso Donald Trump quanto aspro sia il mestiere del Presidente. Il decreto contro l’emigrazione da sette Paesi a rischio terrorismo langue in tribunale, le svolte su Cina e Medio Oriente sono rientrate dopo nette reazioni diplomatiche, la tattica protezionista ha bocciato il patto asiatico di commercio Tpp che esisteva però solo sulla carta ma non avanza contro il Messico, le riforme fiscali e gli investimenti sulle opere pubbliche sono ostaggio dei repubblicani conservatori che detestano allargare il debito pubblico. Trump aveva prima giustificato le spese con tagli paralleli, poi ha parlato di coprirli con «la ripresa economica».
Il carattere del Presidente, con i tweet dell’alba irati, lo porta a fiancheggiare i militanti Bannon e Miller, ma la smania di vincere lo rende cauto e, come tante volte da costruttore a New York, farà marcia indietro se necessario. Nei Big Data e sondaggi di popolarità Trump resta amatissimo dalla base repubblicana, ma non guadagna consenso tra indipendenti, centristi, democratici. Le due ali trovano quindi forza ai propri opposti argomenti, Bannon sostiene che unire gli elettori è la sola strada in una America spaccata, i rivali sostengono che non si può governare in un clima di campagna elettorale perenne.
Dai toni di Trump della notte appena trascorsa capiremo meglio chi ha il vantaggio tattico alla Casa Bianca. Silicon Valley attende i fondi della spesa militare, le aziende tecnologiche tagli fiscali per riportare capitali in patria e i governi stranieri, alleati o nemici, l’ultima manovra diplomatica. Solo da qui al G7 estivo sarà pero chiaro chi avrà saputo dire di no al Presidente, e a chi il presidente Trump avrà invece voluto dire di sì.
Facebook riotta.it BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il Cremlino teme il riarmo degli Usa e vuole diventare mediatore in Libia Mosca: reagiremo. Domani il presidente Sarraj da Putin Anna Zafesova Stampa 1 3 2017
La Russia «non potrà fare altro che reagire», se Donald Trump decidesse di aumentare le spese militari. Lo ha sostenuto il presidente del comitato per gli affari Esteri della Duma, Leonid Sluzky, nel corso di una tavola rotonda sulle relazioni russo-americane che si è tenuta al Parlamento russo e che ha messo in evidenza lo scarso ottimismo di Mosca al riguardo. Il viceministro degli Esteri Serghey Ryabkov ha certificato lo stato della fiducia reciproca tra i due Paesi a «sotto zero», e che i «nostri nemici nel Congresso» cercano di chiudere la Russia nella morsa di un «assedio economico». Rimane la speranza di una mossa decisiva del nuovo presidente americano, con l’abolizione delle sanzioni, ma Ryabkov ha ammesso di «non farsi illusioni» e di «giudicare solo dai fatti».
L’aumento delle spese militari prospettato da Washington equivale a circa l’80% di tutte le spese belliche russe, e l’incremento dell’arsenale nucleare americano prospettato da Trump incrinerebbe l’equilibrio strategico che Mosca fatica già a sostenere. In attesa di vedere confermati, o smentiti, gli scenari di una svolta nei rapporti con Washington, Vladimir Putin è impegnato in un tour nell’Asia Centrale ex sovietica, dove uno degli argomenti principali era il mantenimento delle basi militari russe. Ma la partita più delicata si sta giocando ora in Libia, dove la Russia conta di diventare un player cruciale. Dopo la firma, qualche giorno fa, di un accordo di cooperazione tra la statale Rosneft - guidata dal fedelissimo del presidente Igor Sechin, uno degli uomini chiave nella diplomazia del Cremlino - e la compagnia petrolifera libica Noc guidata da Mustafa Sanalla: una mossa cruciale per accedere ai giacimenti libici, e per permettere ai russi di riconquistare influenza e investimenti perduti con il rovesciamento di Gheddafi. E buona parte dei pozzi libici si trovano nel territorio controllato dal generale Khalifa Haftar, che ormai si posiziona apertamente come «l’uomo di Mosca».
Il Cremlino punta a diventare il mediatore chiave nella crisi libica, e domani il leader del consiglio presidenziale libico, Fayez al-Sarraj, dovrebbe volare a Mosca. Secondo l’inviato speciale russo per Medio Oriente e Africa e vice ministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov, i colloqui saranno incentrati sulla «necessità di costruire un dialogo significativo» e sanare il conflitto tra Tripoli e Tobruk. Molti osservatori traducono questa frase come un tentativo di Mosca - dopo il fallimento del negoziato patrocinato dal Cairo - di trovare un compromesso per far entrare nel governo riconosciuto di Tripoli Haftar, che però viene visto da molti in Occidente come un alleato di Putin. Il monito del ministro della Difesa britannico Michael Fallon, «l’orso non deve mettere le sue zampe» in Libia, riassume i timori di un altro pezzo del Mediterraneo, dopo la Siria, che cade sotto l’influenza di Mosca. Haftar ha visitato la capitale russa due volte, e a gennaio è salito a bordo della portaerei russa Admiral Kuznezov a Tobruk, per una videoconferenza con il ministro della Difesa russa Serghey Shoigu, durante la quale, secondo Al Jazeera, avrebbe promesso ai russi due basi militari a Tobruk e Bengasi. In questo caso Putin potrebbe contare su un asse di alleati arabi laici e autoritari - Assad in Siria, Haftar in Libia e al Sisi in Egitto - che ricostituiscono un pezzo del tradizionale risiko sovietico, rinforzato dai contratti petroliferi e dalle forniture di armi russe.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Usa-Russia corsa al riarmo  Il super budget di Trump per la Difesa incrina l’asse con il CremlinoPer aumentare i fondi ai militari prospettati tagli del 37% al Dipartimento di Stato e all’Agenzia per gli aiuti FEDERICO RAMPINI Rep 1 3 2017
«DOBBIAMO ricominciare a vincere le guerre ». Così Donald Trump giustifica il boom della spesa militare, quei 54 miliardi aggiuntivi al Pentagono, il 10% di aumento degli stanziamenti bellici, un record storico in tempo di pace. Ma quali guerre vuole «ricominciare» a vincere, tenuto conto che Barack Obama gliene ha lasciate in eredità così poche? I “rimasugli” di Afghanistan e Iraq, più gli interventi “chirurgici” giustificati in chiave anti-terrorismo e per lo più affidati a droni o commando, reparti speciali, poche migliaia di uomini? Perché lanciare un riarmo generalizzato, con massicci aumenti di forze armate, di navi e di cacciabombardieri, più un ambizioso programma di ammodernamento degli arsenali nucleari? Tutto questo, poi, con una presidenza dichiaratamente isolazionista, un Trump che dice in modo sprezzante: «Rispondo solo agli americani, non sono stato eletto dal resto del mondo, non esiste una bandiera mondiale né un inno mondiale». America First, il suo slogan elettorale, lui lo ha spesso declinato in questo modo: smettiamola di andare in giro per il mondo a raddrizzare torti, a fare i gendarmi, a spegnere conflitti altrui, occupiamoci di ricostruire un’America a pezzi. Tanto che l’aumento delle spese belliche sarebbe compensato da un taglio del 37% a Dipartimento di Stato e Usaid (l’agenzia per gli aiuti all’estero). Ma America First è uno slogan che indica anche uno strappo con una tradizione neo-imperiale che in chiave aggressiva o progressista ha unito Wilson e Roosevelt, Nixon e Reagan, Kennedy e Obama. Ma allora perché il riarmo a tutto campo? Quale nuova guerra fredda ha in mente Trump?
Una spiegazione è di tipo elettorale. Trump si vanta di avere avuto consensi plebiscitari nelle forze armate. Gli conviene curarsi la simpatia di quelle “tute mimetiche” che sono state a lui favorevoli quanto i colletti blu. Poi c’è l’ideologia nazionalista, il vero collante delle sue politiche. America First si concilia con una deterrenza a 360 gradi, che scoraggi qualunque nemico dell’America dal tentare manovre ostili. E qui colpisce la discrezione nelle reazioni dalle due capitali più coinvolte, Mosca e Pechino.
Vladimir Putin forse si sta chiedendo se sia stato un buon investimento favorire l’elezione di Trump. Quando a Mosca qualche esponente di secondo piano dice «risponderemo al riarmo Usa», scatta il paragone con l’epoca Reagan-Gorbaciov: oggi come allora, Mosca non ha un’economia in grado di sostenere spese militari come quelle americane. Una delle ragioni per cui l’Urss andò al collasso fu lo sforzo per tener dietro al riarmo reaganiano. In questo caso sarebbe Trump a “vedere il bluff” di Putin, che ha saputo recuperare influenza geostrategica negli ultimi anni, ma si regge su un’economia debolissima. Usando dati Onu, il Pil della Russia è inferiore a quello dell’Italia o della Corea del Sud, poco superiore a quello della Spagna. È un miracolo che Mosca riesca ad apparire come una superpotenza alla pari della Cina quando invece il suo reddito nazionale è una modesta frazione di quello cinese.
In quanto alla Cina, i suoi bilanci militari in effetti stanno crescendo a ritmi “trumpiani”, anzi ben superiori al 10% annuo, e da molti anni. Nonostante questo, il livello tecnologico e la proiezione globale delle forze armate cinesi resta molto indietro. La retorica militarista di Trump è basata sull’assunto che le forze armate della prima superpotenza mondiale siano state “debilitate” dalla cura Obama. In realtà gli esperti continuano ad assegnare agli Stati Uniti una forza bellica che è superiore a quella delle cinque o sei potenze successive addizionate fra loro (e queste includono ovviamente Cina e Russia).
Debilitata? In passato, soprattutto negli anni Settanta (Vietnam) e all’inizio del nuovo millennio (Afghanistan, Iraq) si fece strada la teoria dell’overstretch. Questa teoria ammoniva sul rischio di una dilatazione eccessiva dell’impero americano, fino a raggiungere dimensioni e costi insostenibili rispetto alla capacità dell’e- conomia Usa. La teoria dell’overstretch si arricchiva di paragoni storici con altri imperi, da quello romano a quello britannico. Altre interpretazioni indicavano che le guerre perse dall’America (Vietnam, in parte anche i risultati disastrosi dell’invasione in Iraq) non lo sono state per mancanza di risorse militari, bensì per errori politici. Un detto riassume la trappola in cui si caccia chi ha un esercito troppo più forte di tutti gli altri: quando l’unico strumento che hai in mano è un martello, tutti i problemi ti sembrano chiodi.
L’ideologo che ispira Trump, Stephen Bannon, ha preso la sua visione del mondo da un libro del 1997, “The Fourth Turning: An American Prophecy”, il cui autore Neil Howe fu consultato da Bannon per la produzione di un documentario. Libro apocalittico ma non nel senso religioso, propone una visione della storia americana (e mondiale) con grandi cicli di Rinascite e Distruzioni, guerre ineluttabili seguite da ricostruzioni economiche ed anche etico-politiche. Oggi secondo Howe ci sono le condizioni per il prossimo ciclo catastrofico, la Quarta Svolta, che potrebbe includere anche un nuovo conflitto mondiale. La lettura “dark” che ne dà Bannon fornisce una chiave possibile per il riarmo di Trump: il mondo è un caos, l’America è circondata di nemici, oltre a elevare Muri di ogni genere, è meglio che a guardia delle fortificazioni ci sia una potenza spaventosa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: