mercoledì 29 marzo 2017

Il restauro dell'Adorazione di Leonardo



Leonardo restaurato 
Alla Galleria degli Uffizi di Firenze torna “L’Adorazione dei Magi”, il grande capolavoro incompiuto del genio di Vinci

ANTONIO PINELLI Rep 28 3 2017
Dopo un restauro ben riuscito, la retorica consueta esalta la restituzione all’opera del suo “originario splendore”. Il rientro agli Uffizi dell’Adorazione dei Magi di Leonardo, felicemente risanata dopo un’ospedalizzazione durata quasi sei anni nei sapienti laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure alla Fortezza da Basso, merita frasi meno scontate. L’Adorazione, che è il dipinto vinciano su tavola di maggiori dimensioni giunto fino a noi (cm 240 x 244), non ha mai posseduto un suo “splendore originario”, se non altro perché l’autore, nel 1482, dopo pochi mesi di lavoro, decise di andarsene a Milano, dove rimase per quasi vent’anni alla corte degli Sforza, lasciandola incompiuta: un magmatico abbozzo brunastro, lumeggiato di biacca, in cui affiorano parti più definite ed altre assai meno, ma senza che nessuna di esse attinga lo stadio finale
di un’immagine policroma. Questa sua incompiutezza non l’ha resa meno suggestiva, anzi, ne ha aumentato il fascino, avvolgendola di un brumoso alone di inquietante mistero.
Le indagini riflettografiche compiute nel 2001-2002 sull’Adorazione avevano evidenziato sconnessioni della tavola e danni della pellicola pittorica che rendevano necessario un intervento di restauro, ma le furiose polemiche innescate da Maurizio Seracini, un bioingegnere italo-americano che nel frattempo preparava il terreno per sforacchiare gli affreschi vasariani nel Salone dei Cinquecento, alla vana ricerca del perduto fantasma della Battaglia d’Anghiari, avevano indotto Antonio Paolucci a una prudente pausa di riflessione. Dopo nove anni, furono Cristina Acidini, che era succeduta a Paolucci nel ruolo di Soprintendente al Polo museale fiorentino, e Antonio Natali, allora direttore degli Uffizi, a rompere coraggiosamente gli indugi, affidando il dipinto vinciano alle cure dell’Opificio delle Pietre Dure, che sotto la direzione di Marco Ciatti ha da tempo consolidato una fama di eccellenza internazionale nel campo del restauro.
Generosamente finanziato dall’Associazione “Amici degli Uffizi”, il progetto conservativo ha comportato preliminarmente una lunga e complessa campagna diagnostica, condotta con attrezzature avveniristiche, tecniche rigorosamente non invasive e metodo pluridisciplinare, integrando le diverse competenze professionali di restauratori, storici dell’arte ed esperti scientifici. Ne è scaturito un restauro esemplare. Le operazioni hanno rivelato segreti insospettati: ad esempio, che originariamente il dipinto era un po’ più grande, essendone stati resecati alcuni centimetri della parte inferiore. Si è appreso, inoltre, che Leonardo non si è curato di “incamottare” con una tela le assi di legno del supporto, come si usava a Firenze, ma ha steso uno strato di preparazione in gesso, colla e fibre vegetali, adottando una tecnica ben nota nel Quattrocento nordeuropeo e in Spagna, ma che, per quel che sappiamo, fu usata prima di lui in Italia solo nella Flagellazione di Piero e nella predella mantegnesca della Pala di San Zeno. Ne esce, dunque, ulteriormente confermata, quell’attitudine instancabile alla sperimentazione che è al tempo stesso la cifra più autentica del genio leonardesco, ma anche, ahimé, la causa della perdita di tante sue opere.
Ma c’è di più. La ripulitura della superficie pittorica ha reso leggibili, oltre a embrioni di figure che a malapena s’intravedevano, anche altre immagini del tutto insospettabili, che rivelano come Leonardo abbia elaborato il disegno direttamente sulla tavola, correggendo e inventando in corso d’opera, all’impronta. La tavola appare perciò eloquente incunabolo, quasi una radiografia in movimento, del febbrile processo creativo leonardesco, Solo lo sfondo architettonico fu delineato dall’artista sulla tavola senza ripensamenti e con grande rigore prospettico, seguendo i principi dell perspectiva artificialis brunelleschiana, che egli aveva avuto modo di discutere con il matematico Paolo dal Pozzo Toscanelli. Dal catalogo (Giunti) si apprendono altri misteri rivelati dal restauro. Come quelli iconologici, spiegati in un saggio di Antonio Natali, le cui precoci intuizioni circa l’influenza delle profezie di Isaia sul concetto sotteso all’Adorazione leonardesca hanno trovato nuove conferme dopo la ripulitura. Un intervento di Jonathan K. Nelson, inoltre, dimostra che l’Adorazione dei Magi, eseguita da Filippino Lippi 1496 per l’altar maggiore di San Donato a Scopeto, in sostituzione di quella lasciata incompiuta da Leonardo nel 1482, oltre ad essere ancor più influenzata dagli scritti di Sant’Agostino sull’Epifania come festa di tutti i popoli, in quanto annuncio di una religione universale, esibisce vari ritratti di membri del casato mediceo non previsti nella precedente versione leonardesca, perché, per le mutate condizioni politiche, i Canonici regolari di Sant’Agostino, committenti dell’opera, avevano sentito il bisogno di tutelarsi con un omaggio ai potenti banchieri.
La mostra, sapientemente allestita in tre sale continue dall’architetto Antonio Godoli, offre ai visitatori non solo la stupefacente epifania dell’Adorazione risanata, ma anche la possibilità di confrontarla con la pala di Filippino che la sostituì, fino a quando, nel 1529, la chiesetta di san Donato a Scopeto, su una collina poco fuori Firenze, fu demolita dalla Repubblica che aveva cacciato i Medici, per impedire che l’esercito imperiale assediante se ne avvantaggiasse installandovi le proprie artiglierie. In seguito, sia la tavola di Leonardo che la sua sostituta pervennero agli Uffizi, dove ora la prima attende che siano finiti i lavori nel terzo corridoio della Galleria, per trasferirvisi insieme alle due altre opere vinciane possedute dagli Uffizi: l’Annunciazione e il verrocchiesco
Battesimo di Cristo, in cui Leonardo, giovanissimo, esordì accanto al suo maestro.
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“Così siamo riusciti a ritrovare la sua vera pittura” 
Parla Marco Ciatti, che ha guidato il lavoro all’Opificio delle Pietre Dure “Sono riaffiorate le sfumature originali”

CARLO ALBERTO BUCCI Rep
Marco Ciatti è di solito «diffidente nei confronti dell’iperbole». Ma davanti all’Adorazione dei Magi di Leonardo lo studioso non ci pensa due volte a usare l’aggettivo «capolavoro». E lo fa a cantiere dell’Opificio Pietre Dure concluso: quello del lungo restauro, da lui diretto con Cecilia Frosinini, della tavola che il genio iniziò nel 1481 e che non portò a termine. Consegnandola alla storia come uno dei più affascinanti “non finiti” della pittura.
Ciatti, perché «capolavoro» se il dipinto non fu completato al momento della partenza di Leonardo da Firenze per Milano?
«Capolavoro perché basta contestualizzarlo al 1481. Un anno in cui a Firenze era ancora attivo un pittore come Neri di Bicci. Ebbene, il nostro lavoro, contribuendo a restituire la pittura originale sotto le ridipinture, permette di capire meglio che già Leonardo trentenne, ossia prima del secondo soggiorno fiorentino del 1504-5, è 50 anni avanti a tutti. E quando Vasari scriveva che Leonardo ha “iniziato la maniera grande” si riferiva alla fase giovanile ».
Cosa rende così importante la tavola?
«La composizione articolata. Gli altri pittori dipingevano ancora figure isolate. Lui crea continui scambi di gesti e di sguardi, ricerca a fondo con il disegno il “moto dell’anima” per ciascun personaggio. E li mette in relazione creando un turbinio di figure intorno al punto centrale della Vergine con il Bambino».
È grazie alla riflettografia MultiNir che avete potuto mettere in evidenza i segni nascosti?
«Quella tecnologia ci ha permesso di mettere in luce le tracce dell’incisione. Ma è stata la pulitura che ha fatto risplendere la pittura di Leonardo».
Ci siete andati con i piedi di piombo, però.
«Sì, grazie alla mano di Roberto Bellucci, che si è occupato anche delle complesse indagini diagnostiche, e di Patrizia Riitano, ci siamo limitati ad assottigliare lo spesso strato di colle, vernici e patine varie attraverso le quali il dipinto era stato, nel corso dei secoli, “rinfrescato” dai pittori addetti alla manutenzione delle collezioni granducali. E sotto la coltre c’era la pittura di Leonardo, con tutte le sfumature di un’opera in divenire».
Avete potuto ricostruire nel dettaglio le fasi della lavorazione della tavola?
«Sì, era una tecnica molto complicata che prevedeva le incisioni sulla preparazione al fine di creare la scatola prospettica, poi l’intervento del disegno, quindi le prime ombreggiature, l’acquarellatura nera ma anche blu, fino alla definizione del monocromo nelle figure più complete».
Quali le particolarità maggiori?
«L’altra cosa strana, eccezionale, è che Leonardo ha usato la tavola quadrata come fosse “carta”. Per trasferire la composizione sul supporto ligneo non usò, come da prassi, un cartone preparatorio. Ma, fatti alcuni disegni prima, tornò a delineare, abbozzare, ripensare, cercare le forme direttamente sul quadro. Attraverso il disegno, poi con la pittura».
Però qualche errore l’ha fatto. La tavola di pioppo è fatta di dieci assi di cattiva qualità. La tavola di pioppo è fatta di dieci assi di cattiva qualità.
Colpa sua o dei suoi aiutanti di bottega?
«Ma, no: il supporto era di solito fornito dai committenti che davano incarico ad esperti legnaioli di realizzarlo. Certo, in questo caso il taglio del legno è di mediocre qualità. Ciro Castelli, Andrea Santacesaria e Alberto Dimuccio hanno fatto però un ottimo lavoro sulla tavola che presentava, tra l’altro, quattro profonde fenditure. Il legno ha riacquistato ora solidità e funzionalità. Il supporto può tramandare ancora al futuro l’immagine inconfondibile di un capolavoro».
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