mercoledì 29 marzo 2017

L'elefantessa di Napoleone


La schiava pachiderma che spezzò le catene 

Storie di animali. L'avventurosa vita dell'elefantessa di Napoleone, dall'India a Versailles fino al museo di Pavia, narrata nel libro scritto da Paolo Mazzarello per la collana Passaggi di Bompiani

Federico Gurgone Manifesto 30.3.2017, 17:23 
La nave Gange la rapì dal Bengala, caldo umido e piogge monsoniche le diedero l’addio. Il viaggio, fosse stato di piacere, avrebbe realizzato il sogno di chiunque. Lei vide le stoffe e i velluti di Pondicherry, avamposto francese scampato alla Guerra dei sette anni. Sentì odore di ebano e canna da zucchero nelle Mauritius. 
A RÉUNION, appena a nord del tropico del Capricorno, fu vegliata dai tremila metri del vulcano Piton des Neiges e a Capo Agulhas, dove il Nord geografico coincideva con quello magnetico, trovò in accordo gli aghi della bussola. Poi, l’Oceano Indiano si confuse col freddo dell’Atlantico e le acque si intorbidirono nel triangolo della morte: tra le onde si commerciavano schiavi, mentre a destra l’Africa si incurvava profilando l’irreversibilità di un incubo.
Sbarcò in Francia d’inverno, impossibile continuare a piedi. A Lorient dovette aspettare sei mesi, prima della marcia per la Versailles di Luigi XV. Arrivò dopo quaranta giorni, il 19 agosto 1773. Aveva due anni e quattro mesi. Era alta un metro e ottantasei. Era un’elefantessa indiana e la notte del 24 settembre 1782 avrebbe spezzato le catene, intonando la sua canzone di redenzione, sette anni prima della Rivoluzione. Il fato volle che dal 1805 riposi tassidermizzata e senza nome a Pavia, dove l’8 aprile sarà esposta a un pubblico finora ignaro della sua metafora esistenziale, al termine di un restauro che anticipa il riallestimento del museo Spallanzani. 
PAOLO MAZZARELLO ci racconta finalmente la sua vicenda in L’elefante di Napoleone, edito nella collana Passaggi di Bompiani (pp. 192, euro 13): un saggio arricchito da stimolanti riferimenti bibliografici. L’autore, che insegna storia della medicina all’Università di Pavia e presiede il suo sistema museale, ha scritto nel contempo una dichiarazione d’amore per gli elefanti.
«Come l’islandese dell’Operetta morale di Leopardi, anche l’elefantessa di Pavia si ribellò al mondo che l’aveva imprigionata, finendo sconfitta», ci dice. «Lei non cedette alla sabbia che mummifica, ma all’acqua dell’imbalsamatore. Volevo recuperasse la sua voce». 
PRIMA DI TUTTO, colpisce la fantasia di Mazzarello la sineddoche magica dei due organi che meglio qualificano il nostro: la proboscide dal multiforme ingegno, chiamata «mano» da Aristotele e Cicerone; le zanne d’avorio, eterna delizia e croce irredenta.
In secondo luogo il carattere speciale. In India il re dei pachidermi era celebrato nel sacro corpo chimerico dalla testa elefantina e dalle quattro braccia di Ganesha nato dalla sofferenza di due omicidi e dal bisogno di protezione dalla madre Shiva. Emblema di rigenerazione e fortuna, incapace nel suo spirito vegetariano di danneggiare altri fratelli del regno animale, ispiratore di poesia e protettore dei viaggiatori. Soprattutto, mite e forte. Dante lo sapeva: la Natura si è pentita di aver generato la protervia dei giganti umani, ma contempla serena l’esistenza di balene e elefanti.
Scopriamo nel saggio che i proboscidati, con l’uomo, condividono l’ambiguità. Leggiamo di Plinio, che ricorda come nel 55 a.C., durante cruenti giochi voluti da Pompeo, elefanti in cerca di scampo tanto commossero il pubblico che l’organizzatore fu riempito di maledizioni. In India però venivano utilizzati per le condanne a morte, schiacciando le vittime. E secondo Alberto Magno si lasciavano catturare con la tecnica del poliziotto buono e di quello cattivo, piegandosi a quei ricatti morali che da millenni rendono schiava l’ingannevole buona fede umana. Quella capace, in breve, di abbandonare la rivoluzione per l’impero.
«Nel 1803, scrive Victor Hugo, quando a Parigi si imbatté in una corona d’alloro dedicata a Voltaire, Napoleone grattò via d’istinto le ultime tre lettere», ricorda Mazzarello. Au grand Volta: più che il paladino della libertà di pensiero, il condottiero apprezzava la concretezza della pila elettrica. Alessandro Volta insegnava a Pavia. Poteva non interessare alla sua università il corpo impagliato di un elefante? 
«LEI È COSÌ VITTIMA di una duplice violenza – spiega l’autore – In vita pedina della strategie di Chevalier, un avventuriero arruolatosi nella Compagnie des Indes che, donandola a Luigi XV, voleva solleticare l’attenzione della Francia su un continente sempre più abbandonato alle brame inglesi. Da morta, messaggera di scientismo, intrappolata nel paradigma cartesiano dell’animale macchina».
Null’altro che merce di scambio per la diplomazia degli uomini, come altri prima di lei. Abul Abbas, l’olifante di Carlo Magno, il primo a raggiungere l’Europa dopo il crollo di Roma, spedito nella fredda Aquisgrana dal califfo di Baghdad. Malik, regalato dal sultano d’Egitto a Federico II. Annone, l’albino di Leone X che non disdegnò di sputare acqua in faccia al pontefice in persona. Infine, Salomone da Goa, dono di Giovanni di Portogallo a Massimiliano d’Austria. Un resistente silenzioso la cui anima è stata illuminata dalla smisurata penna di José Saramago.



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