mercoledì 1 marzo 2017

Per il suprematismo occidentale e liberale: l'establishment intellettuale della Sinistra Imperiale agita il ricatto di Weimar e si mobilita contro i "populismi" dopo averli generati



Come impedire il secondo declino dell’Occidente 

Le nostre coordinate politiche, culturali e spirituali sono in crisi proprio come un secolo fa Ma abbiamo capito davvero la lezione del passato?

ANGELO BOLAFFI Rep 28 2 2017
«Dopo il lungo trionfo dell’economia cosmopolitica e dei suoi interessi sulla forza politica creatrice, l’aspetto politico della vita dimostrerà di essere, malgrado tutto, più forte. La spada trionferà sul denaro. (…) La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza»: con queste parole un secolo fa Oswald Spengler annunciava il “Tramonto dell’Occidente”. L’opera terminata alla fine del 1917 e apparsa l’anno successivo segnò un’epoca e come già nel 1920 aveva pessimisticamente previsto Benedetto Croce produsse «follie, debo-lezze e danni materiali e morali». Oggi l’apocalittica profezia spengleriana sembra aver trovato una nuova, sorprendente attualità. Siamo dunque alla vigilia di un secondo “declino dell’Occidente”? Secondo lo scrittore indiano Pankaj Mishra, autore del saggio Age of Anger: A history of the present, sembrerebbe proprio di sì. Nonostante la realtà di un mercato globale che è più alfabetizzato, interconnesso e prospero che in qualunque altro momento della storia «ci ritroviamo a vivere in un’era di rabbia, con leader autoritari che manipolano il cinismo e lo scontento di masse furiose». E, se è vero che la crisi attuale è causata «dalla irruzione dell’irrazionale », a spiegarla non bastano neppure i fallimenti di un capitalismo globale «primo fra tutti la promessa mancata di garantire il benessere». Per questo le «élite del mondo politico, degli affari e dell’informazione sono confuse e disorientate» e barcollano tra “un’incerta indignazione” per la “politica della post-verità” e una ingenua denuncia del “nuovo nazionalismo”. Per decifrare i comportamenti politici bisogna esaminare i sentimenti delle masse e «ancorare il pensiero nella sfera delle emozioni». Serve Rousseau più di Kant, la religione più del calcolemus economico, la psicologia delle masse più dell’analisi concreta della situazione concreta perché «per orientarci un minimo dobbiamo, soprattutto, essere più precisi nelle questioni dell’anima».
Dunque, invece di rifondare le istituzioni politiche, riformare le società, governare i processi di globalizzazione economica, basterà chiedere consiglio allo psicoanalista? O, invece, pur consapevoli delle contraddizioni immanenti al “progetto del Moderno” dovremo lavorare alla sua evoluzione in direzione di quella “seconda Modernità riflessiva” auspicata da Ulrich Beck? Proviamo allora a ragionare e soprattutto a ricordare. Un sommovimento geopolitico di portata planetaria sta mettendo in discussione le coordinate culturali e spirituali dell’Occidente: la globalizzazione economica ha provocato una vera e propria “ribellione delle masse” su scala globale che alimenta la crescita apparentemente inarrestabile di movimenti populisti. L’ordine mondiale si ritrova in una crisi che Jacob Burckhardt nei sui Considerazioni sulla storia universale aveva chiamato crisi autentica: «il processo mondiale assume d’un tratto una rapidità spaventosa: evoluzioni che solitamente necessitano di secoli sembrano dileguarsi come fugaci fantasmi in mesi e settimane ». Il mondo nato un 9 novembre, quello del 1989, giorno in cui con la caduta del Muro di Berlino si era dissolto l’ordine deciso dalla Seconda guerra mondiale, è finito sempre un 9 novembre: quello del 2016 quando Donald Trump è diventato il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti mettendo fine, ci si passi il bisticcio di parole, alla “fine della storia”. Il risultato delle elezioni americane è stato l’epilogo spaesante di uno slittamento tettonico che in precedenza aveva riguardato società e opinioni pubbliche dell’intera Europa: dalla Spagna alla Turchia. E ha conosciuto con la Brexit la sua manifestazione più clamorosa. L’Inghilterra sembra intenzionata a rinnegare i principi del costituzionalismo liberale e cosmopolitico – secondo Theresa May «chi si ritiene cittadino del mondo è in realtà un cittadino di nessun posto» – e persino del liberismo economico di cui quel Paese era stato anche dal punto di vista ideologico fervente sostenitore. E l’attuale presidente americano che usa accenti “no global” a sostegno del protezionismo e dell’autarchia culturale economica è esponente dello stesso partito di Ronald Reagan che, in un lontano giorno del 1987 a Berlino, aveva esortato Gorbaciov ad «aprire questa porta e abbattere questo Muro».
Difficile non temere che stia franando il fondamento sul quale ha poggiato dalla fine del secondo conflitto mondiale l’Occidente inteso non come mera categoria geografica e neppure solo come dimensione geopolitica, ma come sistema di valori etico-spirituali e come rappresentazione di una specifica idea dei diritti politici di libertà e di democrazia. Lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, appare oggi nel segno di quello che i francesi chiamano il dégagisme: un desiderio di “rovesciamento totale” coniugato, ma la contraddizione è solo apparente, con una forte richiesta di autorità. Qualcosa di analogo accadde negli anni ’20-’30 del secolo scorso, quando la Grande Guerra mise fine, anche allora, ad un ciclo di globalizzazione economica e alla spensierata fiducia della belle époque. In tutta l’Europa si diffuse un radicale disprezzo nei confronti della democrazia rappresentativa, un ve- ro e proprio disgusto verso la ragione illuministica. La storia, indecifrabile alla ragione, venne presentata come un tragico destino: l’Europa assistette impotente alla “distruzione della ragione”. In particolare alla fine dell’età guglielmina e poi nella repubblica di Weimar si affermò l’egemonia della Kulturkritik – un mix di timore nei confronti della democrazia rappresentativa, isteria da decadenza e odio razziale che spianò la strada al nazionalsocialismo – cara agli esponenti della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” quali Moeller van der Bruck, Hans Freyer, Ernst Jünger, Ernst Niekisch, Martin Heidegger.
Anche allora tornò al centro del dibattito il tema della sovranità dello Stato sollevata in modo clamoroso nel 1922 dal saggio di Carl Schmitt Teologia politica, il cui incipit «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» fece epoca. Mentre, invece, inascoltata restò la saggia esortazione profeticamente attuale di Hans Kelsen che suggeriva di sbarazzarsi di quella categoria: «il concetto di sovranità dev’essere radicalmente rimosso, è questa la rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno».
Lo storico ebreo-tedesco Fritz Stern scomparso nel maggio dello scorso anno esaminando le nuove, laceranti contraddizioni della società e della politica in America, Paese dove si era rifugiato negli anni ’30 per sottrarsi alla persecuzione hitleriana, con accenti molto preoccupati e pessimisti, aveva pronosticato l’avvento di “nuova età della paura” nel mondo occidentale. Con la sensibilità sismografica dell’animo di chi ha conosciuto l’esilio, Stern aveva messo in guardia sulle pericolose conseguenze politiche che il Kulturpessimismus avrebbe potuto avere sulla politica americana: una previsione la sua che si è puntualmente verificata. Resta ovviamente la questione fatidica del “che fare?”.
Questo il tema discusso in un simposio tenutosi a Francoforte in sua memoria qualche giorno fa al quale hanno partecipato Jürgen Habermas, gli storici Norbert Frei e Jürgen Osterhammel e l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, che ha ribadito un concetto caro a Fritz Stern. E cioè che «quello che accadrà dipende da noi»: proprio la memoria della barbarie nazista («sappiamo come allora è finito il film» ha sottolineato Fischer) ci obbliga a opporci a che si avveri nuovamente la profezia di un “secondo declino dell’Occidente”.
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