sabato 1 aprile 2017

Hercule Florence e le origini dell'antropologia: una mostra


Il “secondo Robinson” che misurava le nuvole 

Una mostra a Montecarlo riscopre la straordinaria figura di Hercule Florence, esploratore di inizio Ottocento che con i suoi disegni precorse gli studi di Lévi-Strauss in Brasile e anticipò Daguerre con l’invenzione della fotografia 

Marco Vallora Stampa 31 3 2017
Dunque, di Hercule non c’era soltanto Poirot, ma anche lo sconosciuto Hercule Florence. E per fortuna una sorprendente mostra-monstre a Villa Paloma di Montecarlo (cinque anni di ricerche di due valenti «esploratorI»: Linda Fregni e Cristiano Raimondi) ce lo fa scoprire, nella sua imprevedibile complessità proteiforme. «Inventore», si definiva, a ragione. Geniale. Esploratore nato. Melanconico-cronico. Felicemente fallimentare. Indomito sperimentatore. Così precoce da meritarsi la damnatio memoriae più ingiusta e crudele. Un personaggio degno di un film di Herzog, da racconto di Roussel. Ma cominciamo dalle prime pagine.
Hercule si chiama così, in omaggio al nome rivoluzionario del Fort d’Hercule di Monaco. Anche se nasce, nel 1804, a Nizza, allora terra sabauda. Figlio e nipote di artisti eccentrici, Prix de Rome sostenuti dai Grimaldi, a 14 anni Hercule è già calligrafo di corte, ma poco dopo ha la (s)ventura di scoprire la figura di Robinson Crusoe, che gli cambia la vita e lo convince al giro del mondo. Presto convertito in una spedizione verso il Brasile (che ha riaperto le sue porte, dopo la clausura portoghese). Già scegliere un naufrago, come modello, è depressivamente significativo, lui si vorrà sempre «secondo Robinson». 
Parte con una spedizione-pionieristica, via fiume, del medico-geografo russo Baron Langsdorff, nel cuore nero del Brasile più sconosciuto. Florence ha il ruolo di disegnatore di bordo, un poco come succedeva nel Voyage pictoresque di Vivant Denon e Saint-Non, in Sicilia, anche perché la matrice è similare, partendo dai modelli di Hubert Giottino de Superville e dei «paesaggi della ragione» illuminista. Però poi, esattissimo, geometra della visione, etnografo in anticipo sui tempi, scrupoloso registratore di fisionomie «selvagge» e di costumi folklorici, entro queste rigorose griglie neoclassiche versa giù il suo immaginario esotico, leggermente fiabesco (talvolta ricorda addirittura il nordico Larsson), mitemente visionario. Con punte che annunciano l’orientalismo di Salgari e Karl May.
Come sempre, è un «replicatore», un traduttore di codici: amante della musica classica, inventa la «Zoophonie», un sistema, su pentagramma, per trascrivere il verso degli animali, con notazioni tanto fedeli, quanto eccentriche. Rispetto a un precedente pittore-tropicale come il connazionale Debret, risulta meno «colonialista»: non esagera con sottolineature caricaturali, prese di distanza razziali. Tra l’altro è tra i primi a documentare usi e costumi degli sconosciutissimi Bororo, secoli prima che arrivasse in visita, «pionieristico», Lévi-Strauss. Sorprendente vedere affiancati i disegni-fiches di Florence con le schede dattilografate dell’antropologo strutturalista: sintonie impressionanti, di taglio e dettaglio. 
Forse è in quei frangenti che questo «inventore nel Brasile» avverte l’esigenza bruciante di un’invenzione geniale, che permetta di documentare in modo svelto, economico, più oggettivo, quando si vede e registra, nel corso dei viaggi, magari traditi da una verve pittorica fiammante come la sua. Utile il confronto con altri viaggiatori-pittori, per esempio il Taunay, suo predecessore nella spedizione, che muore annegato (in mostra alcuni suoi commoventi taccuini, intrisi d’acqua funerea). Ma tutta la spedizione finisce male. Lo sponsor-zar Nicola si stufa di pagare somme immense; zanzare, animali feroci, indigeni vendicativi decimano gli esplorati. Langsdorff perde la ragione (qui il romanzo vira verso Conrad) e presto tutto si disfa. 
Hercule si arena (imprigionato dalla vita) nell’odierna Campinas, sposa una donna che gli dà tredici figli (la seconda, tedesca, altri sette; ed è una discepola del rivoluzionario pedagogista svizzero Pestalozza), ma non smette, galileiano, di sperimentare. Inventa un sistema, praticamente tridimensionale, per rendere «stereometrica» la pittura a olio (cioè più «vivente») un sistema per misurare la labilità di forma delle nuvole cangianti, una carta-moneta, visionaria e infalsificabile, propone un nuovo ordine architettonico «brasileiro», con capitelli a forma di palma, e una noria idrologica, che dovrebbe praticamente raggiungere il moto perpetuo. 
Nessuno gli bada. E lui, patetico e nobilissimo, manda invocazioni al mondo. Soprattutto all’Accademia delle Scienze di Torino - grazie, le faremo sapere, ma non c’è spazio per le sue idee. Poi s’accorge che, lavorando «dentro» la sua «camera ottica» (creata grazie al foro di una tavolozza!) può tentare di «fermare l’immagine». Con il nitrato d’argento, che gli concede un farmacista flaubertiano e la sua pipì, visto che in Brasile non esiste ammoniaca. Ha praticamente «inventato» la fotografia, (certamente il suo nome: «scrittura di luce») anni prima di Fox Talbot e di Daguerre, già nel 1833. Ma chi lo ascolta, esiliato nel fondo del Brasile? Forse ha inventato più la fotocopiatrice, che non la vera fotografia: duplica etichette di farmacia, editti massonici, il busto di Lafayette. Quando scopre, in pubblico, nel ’39, che Daguerre ha brevettato la sua stessa invenzione, sbianca, si sente morire, ma poi si fa subito ragionevole: «Non mi metterò in competizione con nessuno. Può darsi che la stessa idea venga a due persone diverse». Modesto genio infelix.
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