venerdì 28 aprile 2017

L'ottantesimo gramsciano. Il libro di Angelo d'Orsi





Ieri mattina Napolitano e Boldrini - con la supervisione di Beppe Vacca e del ministro Fedeli, che sono gli intellettuali del gruppo - hanno ricordato Antonio Gramsci come martire del Mondo Libero contro il totalitarismo nazi-sovietico di ieri e contro quello islamico e/o populista di oggi.
Nel pomeriggio al Senato si è tenuto un intervento del sen. prof. Mario Tronti sul tema "Gramsci e Renzi a Detroit con Marchionne". A seguire Toni Negri su "Gramsci europeista moltitudinario e teorico del reddito di cittadinanza in una dimensione biopolitica costituente sovranazionale". Ha concluso Roberto Esposito su " Gramsci precursore dell'Italian Theory e di Recalcati" [SGA].

Le istituzioni nei passaggi d’epoca. La lezione di Gramsci 
80 anni dalla scomparsa. L’anniversario dalla morte coincide con il centenario dell’Ottobre. Un alimento per discutere le istituzioni (europee) nei passaggi d’epoca 
Tommaso Nencioni Manifesto 27.4.2017, 23:59 
Le celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci si saldano quest’anno con il centenario della rivoluzione russa. Una notevole messe di studi ha teso a “depurare” il pensiero del Gramsci maturo – quello dei Quaderni del Carcere – dall’eredità del leninismo. 
Tuttavia, senza voler addentrarsi nella querelle che ha appassionato storici e filologi di diverse scuole, l’impatto dell’Ottobre sul politico comunista sardo non può essere rinnegato, e neppure sbiadito, in base a letture contingenti dettate dall’esigenza generale di rimozione dell’evento rivoluzionario dalla storia del XX secolo. 
Ciò che particolarmente persiste, della lettura che dell’Ottobre dette Gramsci – del suo tentativo di tradurre in italiano i fatti di Russia, verrebbe da dire con terminologia gramsciana – pare anzitutto una lezione di metodo, che si riflette in due intuizioni preponderanti. 
La prima è l’assoluto rifiuto di una visione lineare della storia, come se questa fosse agita da un demone di carattere progressivo. Ogni rivoluzione si presenta come Rivoluzione contro il capitale, come frutto della volontà umana di piegare la modernità ad un esito del conflitto favorevole alle classi subalterne, di per sé non scritto in nessuna legge aurea. La seconda è la ravvisata necessità per i subalterni di creare, nel cuore stesso del conflitto, le istituzioni avvenire, senza attardarsi nella difesa di quelle caratteristiche dell’epoca precedente – fossero anche istituzioni che ne avevano garantito un relativo benessere, quali ne furono effettivamente edificate nell’Italia giolittiana. Se ci si attende l’emancipazione da eventi “esterni”, come se ci si ripara all’ombra di istituti che una nuova condizione storica fa apparire come obsoleti, l’ondata storica è destinata a travolgere le vecchie conquiste e a renderne impossibili di nuove. Di qui lo “spirito di scissione” evocato da Gramsci contro le tradizioni tanto riformiste che massimaliste del socialismo dell’Italia liberale. 
Con l’Ottobre historia facit saltus, e una netta discontinuità si instaura nel pensiero gramsciano. Dal punto di vista della storia delle idee, la rivoluzione bolscevica mette concretamente il pensatore sardo di fronte al tema del marxismo, nella misura in cui, con la loro azione vivificatrice, con la loro Rivoluzione contro il capitale, i bolscevichi avevano ‘salvato’ Marx dai suoi esegeti ammalati di positivismo e determinismo. 
Ma il saltus dell’Ottobre segna sì una discontinuità nella maniera gramsciana di pensare la lotta politica – mette l’ipotesi rivoluzionaria all’ordine del giorno, pone di fronte alla necessità di pensare la presa del potere da parte del proletariato colui che fino a quel momento aveva teorizzato la funzione di stimolo al progresso borghese proprio della classe operaia – ma in esso allo stesso tempo si intravede una continuità di metodo: col volontarismo di cui è permeato, Gramsci non giudica, alla maniera dei riformisti italiani o degli stessi menscevichi russi, la rivoluzione in base a presunte leggi di sviluppo presenti a priori nella Storia; ma, operando un vero e proprio distacco logico rispetto a tali convinzioni, individua nell’atto rivoluzionario una fonte di norme dell’agire storico. Gramsci non giudica l’Ottobre con le lenti della storia, ma ne fa una lente per giudicare la storia. 
C’era prima della rivoluzione un Gramsci anti-giacobino, per il quale il giacobinismo in quanto ideologia democratica trascendente, fuori dalla storia, si risolveva forzatamente in un atto di negazione della libertà; questo Gramsci non a caso celebra la rivoluzione russa come rivoluzione anti-giacobina; e c’è un Gramsci, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, che accetta le logiche della dittatura (giacobina) nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo Stato. 
Da queste considerazioni emerge il teorico dello Stato – dell’Ordine – nuovo. Uno Stato/Ordine nuovo che però si forma, in Gramsci, già nella prassi rivoluzionaria, nella dialettica tra conflitto e istituzioni; questa funzione di collegamento sarà individuata nel Soviet, istituzione autonoma della classe operaia già forgiata nel corso della lotta per il potere e successivamente destinata a funzionare da perno dell’Ordine Nuovo. Nel momento in cui il Soviet da contro-potere si fa potere, Gramsci si trasforma insomma da teorico dell’antistato e teorico dello Stato (nuovo). Un omaggio operante alla lezione del Machiavelli dei Discorsi, per il quale «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». 
Anche nella fase attuale, a fronte di un rinnovato protagonismo dei popoli nello scenario politico che si articola in forme nuove e sconosciute, la sinistra storica si fa portavoce del dogma della modernizzazione – dell’espulsione, cioè, del conflitto dalla modernità – e si impantana nella difesa di istituzioni che sono state negli ultimi anni i perni della grande restaurazione neoliberale. In un simile contesto, una riflessione sul legame tra il pensiero di Gramsci e l’irruzione della rivoluzione nella storia umana costituisce un punto necessario da cui ripartire.


Gramsci il rivoluzionario ridotto a pedagogo Casi critici. Il rapporto con l’Urss, l’eliminazione di Bordiga dalla segreteria del Pci, Torino e la fase armata del partito... Angelo d’Orsi (da Feltrinelli) tratteggia un «Gramsci» ancorato a un’idea «intellettuale» del capo comunista: superata 
Giorgio Fabre Alias DOmenica 19.6.2017, 9:34 
L’ultima «fatica» di Angelo d’Orsi s’intitola Gramsci Una nuova biografia (Feltrinelli «Storie», pp. 387, euro 22,00). Il «nuova» del titolo si riferisce al fatto che ne esiste una «vecchia», quella gloriosa e godibilissima di Giuseppe Fiori, che risale a cinquant’anni fa; rispetto a quella, questa ha rinnovato la bibliografia (con qualche lacuna). Mentre non contiene documenti o dati nuovi. 
Non ci si sofferma qui sulla recensione impietosa del libro fatta da Nunzio Dell’Erba e pubblicata nel suo blog sull’Avanti! l’8 maggio scorso con il titolo Gli studi e gli scritti su Gramsci, tra fanatismo e pregiudizi storici. Dell’Erba ha rilevato diversi svarioni contenuti nelle sole prime pagine del libro: notizie presentate per nuove che invece non sono tali (clamoroso che a p. 24 d’Orsi scriva che «solo in tempi recenti» si sia arrivati alla conclusione che Gramsci era affetto dal morbo di Pott, diagnosticato dal professor Arcangeli nel 1933 – come segnala peraltro lo stesso d’Orsi a p. 345), errori nei riferimenti bibliografici, fonti a stampa usate ma non citate e così via. La recensione è perfino troppo impietosa, ma le osservazioni valgono un po’ per tutto il libro. 
Questa «nuova» biografia non è neppure leggibilissima ed è tirata via, forse al fine di cogliere la scadenza dell’anniversario della morte. Inoltre, si sofferma a lungo su dettagli pruriginosi ma non certo fondamentali e perfino problematici come le vicende à trois o addirittura à quatre del grande sardo con le sorelle Schucht (chissà se è tutto vero). O dedica pagine e pagine che ribadiscono la ragione «pedagogica» (addirittura «ossessione pedagogica», a p. 315) che avrebbe sospinto fin da giovane il leader comunista. 
Comunque sia, la vita di Gramsci continua a essere rilevantissima e poi, richiede ancora di essere esplorata. Magari anche attraverso questo libro. Interessante è ad esempio che d’Orsi discuta come «filo-mussoliniano» un controverso articolo di Gramsci del 1914; ma occorre ancora lavorarci. 
Segnalo poi in particolare un punto non secondario: quanto Gramsci fu effettivamente un concreto rivoluzionario e un capo rivoluzionario? Per d’Orsi fu soprattutto uno studioso di lingue e un filosofo. Sottolinea ad esempio che a Torino nel 1920-’21, nel momento più delicato della sollevazione operaia, «mancava un Lenin» (p. 118). È un punto ancora in gran parte da chiarire. La storiografia del Pci del dopoguerra, tutta proiettata a costruire l’immagine di un partito «di governo», ha avuto difficoltà a fare i conti con quella fase rivoluzionaria – e militarizzata – della propria storia. E invece le officine torinesi nel 1920 ma anche parecchi anni dopo, erano armate fino ai denti. Si veda in proposito il bel saggio di Roberto Gremmo La militarizzazione degli operai torinesi, uscito su «Storia ribelle» nell’autunno 2005 (Gremmo ha in uscita, per settembre-ottobre, un intero volume di documenti). E il partito era anche militarizzato. 
Su questo occorre rimeditare con attenzione i testi gramsciani, come quello anonimo, ma attribuito a Gramsci da Renzo Martinelli (con il quale concordo): intitolato I nostri compiti militari, uscì alla macchia nel giugno 1925 e parla senza mezzi termini di «azione armata e violenta». Se non si analizza Gramsci a 360 gradi si finisce per trasformarlo in un «capo» verboso o, appunto, «pedagogo», mentre fu un autentico capo rivoluzionario, anche duro e spregiudicato: si pensi a come fece fuori Bordiga da segretario del partito, questione qui praticamente ignorata. Questa durezza di Gramsci, insieme alla sua lucidità e acuta intelligenza, sono aspetti che stanno emergendo ancora meglio dall’Edizione nazionale delle sue opere pubblicata dall’Enciclopedia Italiana. Segnalo ad esempio l’ultimo volume degli Scritti, con i testi gramsciani del 1917. Forse, prima di riscrivere una biografia di Gramsci sarebbe meglio aspettare che quell’Edizione giunga quanto meno a buon punto, mentre al suo completamento mancano ancora molti volumi. 
L’impressione è che d’Orsi sia rimasto ancorato a una vecchia idea tutta «intellettuale» del capo comunista. Idea che invece, ormai da diversi anni, è stata messa in discussione, per far emergere un Gramsci non solo molto più concreto, ma anche fornito di uno sguardo sul mondo internazionale più solido e perfino più vasto e articolato di quanto si potesse immaginare. Anche su questo il libro è carente. Penso per esempio alle interessanti pagine dei Quaderni sul Mein Kampf e naturalmente al suo rapporto con l’Unione sovietica, temi ultimamente sviluppati da vari studiosi e con i quali d’Orsi ha poca dimestichezza. D’Orsi ignora del tutto il fondamentale saggio di Silvio Pons su «Studi storici» del 2004, da cui sono emersi documenti centrali sul rapporto di Gramsci con l’Urss, un paese (il paese di Stalin) su cui si appoggiò seriamente durante la prigionia, ma anche prima, con buona pace della vulgata antisovietica che si è voluta imporre nel dopoguerra. E poco spazio, su questo punto, d’Orsi lascia persino al libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci e alle pagine, talvolta discutibili ma rilevanti che esso contiene sui rapporti tra Gramsci e Mosca . 
Talvolta viene il sospetto che le questioni sovietiche non gli interessino. Succede così anche, forse non a caso, che (p. 262) Anatolij Lunacarskij, il celebre ministro della Pubblica istruzione amico di Lenin e uno dei veri «motori» della rivoluzione, divenga «ambasciatore russo a Roma», il che Lunacarskij non è mai stato. D’Orsi deve aver forse ricavato la notizia da un’infelice voce della Treccani online (http://www.treccani.it/enciclopedia/anatolij-vasilevic-lunacarskij/). 
Altro esempio. D’Orsi si sofferma a lungo sulla famosa lettera del 14 ottobre 1926, quella che Togliatti fermò a Mosca perché Gramsci vi aveva espresso dei dubbi sul conflitto in corso tra Stalin e Trotzki. Ma poi ignora completamente la lettera che proprio Pons ha trovato nell’archivio di Stalin, scritta dall’ambasciatore Keržencev (era lui l’ambasciatore a Roma, non Lunacarskij) al capo sovietico. Era del 6 ottobre e annunciava quella del 14, come Gramsci gli aveva chiesto di riferire. Il segretario del Pcd’I aveva indicato all’ambasciatore «tutto il danno» causato dai trotzkisti all’estero, anche al partito italiano. Il vero Gramsci era un politico che conosceva benissimo i rapporti di potere, anche in Unione Sovietica e colloquiava direttamente con Stalin. Negli ultimi anni Gramsci si è rivelato figura ancora più grande di quella forgiata nel dopoguerra da Togliatti. Mentre qui siamo rimasti a una sua immagine solo nazionale, ideologica e filosofica.

5 commenti:

Mario Galati ha detto...

Le iniziative su Gramsci riferite dal prof. Azzarà sono semplicemente indecenti. Questi ammazzano Gramsci una seconda volta.

Anonimo ha detto...

Se fossero vere.

Mario Galati ha detto...

Di questi tempi il confine tra surrealismo e realismo è molto labile. Se queste iniziative non fossero vere, sarebbero sicuramente veridiche.

materialismostorico ha detto...

Le iniziative sono invenzioni satiriche ma il discorso di Napolitano e di Boldrini sono perfettamente autentici e sono anche peggio.

Mario Galati ha detto...

La verosimiglianza li rende attendibili. Ottima satira.
Quanto al valore scientifico dei discorsi di Boldrini e Napolitano, non è neppure pari a zero, tanto sono falsificanti. Gramsci era un pensatore "totalitario" (che scandalo!) sul piano scientifico, gnoseologico e sociologico, sulla scia di Marx ed Hegel. Non certo nel senso banale e sciocco di Hannah Arendt.
Sul cosiddetto totalitarismo dello stato, i nostri alti rappresentanti istituzionali leggano o rileggano i passi di Gramsci sulla tendenza di ogni stato, in senso integrale, a strutturarsi intorno al suo principio informatore. Sotto questo aspetto, niente è più totalitario della nostra società capitalistica mercantile, particolarmente nella fase attuale, il cui principio informatore, la merce (e la sua immagine), pervade ogni aspetto dell'esistenza e dà forma ad ogni rapporto e sfera della vita.
Senza considerare la manipolazione mediatica, il controllo del sistema culturale, il fanatismo ideologico, la coercizione violenta, esercitata soprattutto all'esterno delle mura della metropoli.
Leggano o rileggano i passi sul "conformismo", "imposto" o "proposto". Forse indurrebbe una visione meno semplicistica e acritica dell'antitesi tra totalitarismo e pluralismo.
Povero Gramsci, continuamente aggredito dalla miseria che gli si vorrebbe attaccare per insudiciarlo e sopprimerlo.