mercoledì 5 aprile 2017

Una vita per la lotta di classe dei ricchi e contro l'invasione di negri e i beduini: Giovanni Sartori scienziato della politica e del fallacismo

Aveva 92 anni. Autore di decine di saggi, nel corso della sua attività accademica ha ricevuto otto lauree ad honorem. Fine intellettuale e polemista, il suo motto era: "Il mondo è diventato così complicato che sfugge alla comprensione anche degli esperti". Il cordoglio di Gentiloni, affettuoso il ricordo del presidente del Senato Pietro Grasso






Sartori, la lezione di un grande conservatore 
Il politologo si è spento nella notte tra domenica e lunedì. Aveva 92 anni 

Antonio Floridia Manifesto 5.4.2017, 23:59 
Si farebbe un torto alla memoria di Giovanni Sartori, morto ieri a 92 anni, se la sua figura fosse abbinata soltanto alle polemiche politiche e giornalistiche degli ultimi vent’anni o all’invenzione di alcune formule di successo (come il Mattarellum e il Porcellum). No, Giovanni Sartori va innanzitutto ricordato come uno dei maggiori scienziati politici del Novecento, e come una delle (non molte) figure di intellettuali italiani dotate di un respiro internazionale. 
Già con il suo primo importante lavoro, Democrazia e definizioni, pubblicato in Italia nel 1957 e poi negli Usa (Democratic Theory, 1962) Sartori si pone come una figura di primo piano della scienza politica contemporanea: e il suo lavoro può ben essere collocato alla stessa altezza di autori come Robert Dahl. Un approccio, quello di Sartori, che si muoveva nel segno di Schumpeter e del suo elitismo competitivo, ma arricchito da una sensibilità teorica che nasceva dalla sua formazione filosofica. A ciò, Sartori aggiungeva un tono e un atteggiamento «realistico», che gli veniva dalla tradizione della scuola elitistica italiana del primo Novecento: una visione disincantata della democrazia, che rifuggiva da un sovraccarico di aspettative normative e idealizzanti, o da quelle visioni «perfezionistiche» che presumevano di attribuire virtù salvifiche alla partecipazione politica o confidavano nell’ideale di un cittadino informato, attivo e consapevole. Anche per questo Sartori divenne oggetto di polemiche, molto rispettose, ma anche molto accese, già nel corso degli anni Sessanta, da parte dei primi teorici della «democrazia partecipativa» (come Carole Pateman). Accanto alla teoria della democrazia, a cui dedicò nel 1987 The Theory of Democracy Revisited , i partiti e il sistema dei partiti sono stati l’altro grande asse tematico della sua ricerca: il suo Parties and party systems, del 1976, si può considerare oramai un classico della scienza politica contemporanea. 
Sartori ha contribuito in mode determinante, dalla sua cattedra alla “Cesare Alfieri” di Firenze, alla nascita e al consolidamento anche accademico della scienza politica in Italia; ma ha vissuto con disagio, e persino con apprensione, il movimento del 68 e il suo impatto sull’università italiana. Ciò che lo portò, agli inizi degli anni Settanta, a trasferirsi negli Usa, dove a lungo ha insegnato alla Columbia University.
Sartori assume una concezione rigorosa ed esigente della scienza politica: non una scienza «esatta», ma nondimeno una scienza che è in grado di produrre asserzioni verificabili empiricamente, fondata sull’uso comparato di concetti ben definiti e controllati, e perciò anche suscettibile di essere «applicata». Da qui anche il suo aperto richiamo alla possibilità di un’ingegneria costituzionale o elettorale. Ma, si badi, ingegneria, non bricolage: ossia, una possibile proiezione applicativa che avvenisse in modo rigoroso, sulla base di asserzioni ipotetiche e controfattuali, senza i pressapochismi che abbiamo visto e vediamo spesso all’opera e a cui Sartori ha rivolto i suoi sarcastici strali. Una lezione di rigore intellettuale, consegnata a una serie di saggi metodologici, recentemente tradotti e raccolti in italiano (Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, 2011) che possono essere considerati come una delle sue eredità più preziose (a fronte di una scienza politica sempre più incline alle sofisticherie quantitative, e sempre meno attenta alla precisione dei concetti e delle teorie). Insomma, la lezione di un grande conservatore, in grado di insegnare molto anche a chi non ne condividesse le premesse politiche e culturali.




 Giovanni Sartori  La gaia scienza della politica

Liberale, democratico, “molto poco italiano”: a 92 anni è morto il grande studioso e polemista
FILIPPO CECCARELLI Rep
Un grande merito, di sicuro, e anche una particolarissima gratitudine si debbono alla memoria del professor Giovanni Sartori che ieri se n’è andato alla bella età di 92 anni, e che tanti giornalisti della politica seguivano con sollievo perché le sue convinzioni, espresse con splendenti invettive e amaro sarcasmo consentivano loro di sentirsi mai troppo poco scettici, esigenti e perfino severi nei confronti dei protagonisti della vita pubblica. Articoli, libri, interviste, collegamenti televisivi via satellite: con impeto tutto fiorentino, dall’alto dell’autorità che gli conferiva l’essere il massimo scienziato
della politica, per vent’anni almeno “Vanni” Sartori allegramente si è scagliato contro il ceto politico in nome di quella democrazia liberale che pure, nella sua testa, doveva fare i conti con le umane debolezze. E adesso che è morto non solo se ne sentirà la mancanza, ma quel che è peggio verrà pure meno quel deterrente che le sue ragionate rampogne — l’ultimo suo libro è intitolato significativamente La corsa verso il nulla
(Mondadori, 2015) — suscitavano contro l’eterna cialtroneria italiana e i cattivi propositi regolarmente messi in opera dai potenti di turno.
Fu comunque il primo, già in tempi insospettabili, a teorizzare l’instaurarsi in Italia di una vera e propria “asinocrazia”. Così, al tramonto ormai della Seconda Repubblica poteva capitare che Sartori designasse i maggiori protagonisti, impelagatisi nella perenne palude delle loro immancabili Riforme, come dei «bestioni». E se l’epiteto aveva un’ascendenza alta, da Giambattista Vico, in tal modo funzionava il laboratorio semantico del professore: una cultura assai vasta, ma prodigiosa nell’alleggerirsi, semplificarsi, farsi limpida, viva, ora tagliente, ora contundente, sempre sferzante nei riguardi di un paese che lui definiva “Sognilandia”, ma anche “Ridilandia”.
Era amico di altri benemeriti toscani, da Spadolini a Montanelli, che nelle migliori tradizioni di quella terra feroce ed elegante sapevano alternare lo studio e il sarcasmo, l’accademia e l’analisi da caffè. Superbo nell’arte raffinatissima della demolizione, gli bastava una parola per ridicolizzare un progetto costato soldi, tempo, energie di consulenti e “bischeraggini” varie. Si deve a lui il conio del “Mattarellum” e del “Porcellum”. L’autore di questa seconda e sciaguratissima legge elettorale, il rubizzo medico padano Calderoli, auspicò che fosse mandato in Papuasia. Rispetto agli ultimi e per lui non meno incoraggianti sviluppi istituzionali ed elettorali sentenziò che l’Italicum sapeva “di treno”. E concluse, quando si dice il dono della sintesi: “Bastardellum”.
Quasi tutti i politici lo cercavano, a loro rischio e pericolo. Indipendente e irriverente, fu un’autentica peste prima per i democristiani, poi per Craxi, quindi per i fan di Mani Pulite, per D’Alema, per Berlusconi, per Prodi e per quanti — in pratica tutti — fossero allettati da quello che lui nel frattempo aveva fantasticamente definito un «presidenzialismo preterintenzionale».
Ora, di Sartori è impossibile non rimarcare il valore in ambito scientifico: uno dei pochi maestri italiani che poteva insegnare in America, dove andò richiestissimo alla metà degli anni Settanta — si disse anche per paura dell’avanzata del Pci — prima a Stanford e poi alla Columbia. Fondatore della Rivista italiana di Scienza politica, nell’arco di una lunga vita ha approfondito la teoria della democrazia, la tipologia dei partiti e le dinamiche del sistema con straordinaria competenza nella comparazione.
Sette le lauree honoris causa in Italia e all’estero. Non molto tempo fa, un cospicuo volume — La politica come scienza (Passigli, 2015) — ha raccolto gli scritti in suo onore di tanti allievi e più giovani amici, tra gli altri Amato, Calise, Cazzola, Cheli, Cotta, Diamanti, Fisichella, Ignazi, Mastropaolo, Passigli, Pellicani, Tarchi, Urbani. Ma di tutti i politologi per così dire tradizionali gli va pure riconosciuto di essere stato anche il più attento alle trasformazioni dei linguaggi e alla rivoluzione visiva che ha stravolto il campo della politica, e in questo senso si colloca un’altra sua opera spiazzante, Homo videns (Laterza, 1997), pubblicata con successo all’inizio dell’era berlusconiana. E seppure considerava l’Auditel «una fonte di perversione », con la lingua lesta e la faccia appuntita che si ritrovava, con lui in scaletta gli ascolti arrivavano copiosi. Quando Mariotto Segni, all’apice del successo referendario, gli chiese un giudizio su Berlusconi che cominciava ad agitarsi ai bordi del campo, si sentì rispondere: «Prenda un coltello lungo e affilato e alla prima occasione lo pianti nella schiena del Cavaliere». Il timido Segni si mise a ridere: «Ma io dicevo sul serio — replicò il professore — così intanto avremmo risolto un problema». Al berlusconismo, nella sua fase più matura (e olgettinesca) dedicò un saggio dal titolo: Il sultanato (Laterza, 2010).
Da Matteo Renzi, qualche anno dopo, rimase sgradevolmente sorpreso, specie dopo una cerimonia in cui il presidente rottamatore lo aveva accolto schioccandogli un bacio su una guancia con automatica e calorosa disinvoltura, senza essersi nemmeno presentato. Ma non solo per questo, dall’iniziale “Giamburrasca” (e siamo sempre a Firenze), Vanni Sartori prese a chiamarlo “il ragazzotto”.
Gigioneggiava anche, ma vivaddio se lo poteva permettere. Era un piacere sentirlo esprimere pillole di cinica sapienza tipo: «Vincere è una cosa, aver ragione un’altra». Così come desta qualche malinconica preoccupazione una delle sue ultime valutazioni, gettata quasi con noncuranza in un lucido saggio sul conflitto di civiltà e i buoni e facili sentimenti a proposito dell’immigrazione: «L’Italia è una società in putrefazione, già bella che andata...».
Tutto lascia pensare che avrebbe respinto con sdegno l’ipotesi di essere in realtà più che un ferratissimo studioso, un grande giornalista. Forse, pur con i dovuti limiti, avrebbe valutato con miglior favore chi gli avesse attribuito, semmai, le qualità sintetiche di un eccellente moralista, in senso ovviamente letterario e settecentesco, tanto battagliero quanto dotato di retroterra e di senso del ridicolo.
Lo aiutava senz’altro il carattere, superbo anzi che no, e il gusto consapevole del suo stesso personaggio che lo portava — ebbe a lamentarsene una volta il suo più giovane amico Angelo Panebianco — a considerare ignoranti «tutti coloro che non condividevano le sue preferenze ».
Contro i periodici «topolini» e gli «allegri pastrocchi» generati a getto continuo dagli ingegneri elettorali, Sartori fu sempre ragionevole fautore di un sistema a doppio turno, alla francese. Nella seconda metà del secolo scorso la proposta che si era sforzato e degnato di elaborare a beneficio degli eterni, sgangherati, retorici e sempre bastonatissimi costituenti all’italiana entrò nel dibattito con il suo cognome, sia pure declinato al femminile: “la Sartori”, come se fosse la moglie. Ma invano.
Di lì a un decennio l’anziano e vitale professore, da tempo vedovo, si sposò con una giovane, bella e simpatica signora, Isabella Gherardi, l’unica da allora a meritarsi il titolo, oltre alla soddisfazione di vivere al fianco di un ingegno fino all’ultimo smagliante. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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