lunedì 29 maggio 2017

Gli intellettuali dal Medioevo al Rinascimento: "L'eccezione italiana" di Ronald G. Witt


Ronald G. Witt: L’eccezione italiana. L'intellettuale laico nel Medioevo e l'origine del Rinascimento (800-1300), Viella 

Risvolto
Il libro indaga l’elemento distintivo e caratterizzante della vita culturale italiana: la nascita della prima classe intellettuale laica dell’intera Europa e il fondamentale ruolo che i laici esercitarono sulla cultura. Coprendo un arco di tempo di oltre quattro secoli e mezzo, dalla conquista carolingia al Duecento, lo studio offre la prima analisi esaustiva degli scritti in latino prodotti nel regno d’Italia. Esaminando i testi religiosi, letterari e giuridici, ma non solo, Ronald G. Witt mostra come i cambiamenti presenti in questi testi siano il risultato dell’interazione del pensiero con le tendenze economiche, politiche e religiose della società italiana, nonché con le influenze intellettuali provenienti dall’estero.
Il punto di arrivo della ricerca è costituito dall’insorgere dell’Umanesimo nell’Italia settentrionale: proprio il precoce sviluppo di una classe intellettuale laica e la sua partecipazione alla cultura latina incoraggiarono infatti la nascita di quel movimento culturale che, da ultimo, avrebbe rivoluzionato l’intera Europa.
 
Il notariato laico, chiave dell’evoluzione dell’Italia 

Storiografia umanistica. Prima di lasciarci, Ronald G. Witt è riuscito ad aggiornare il suo «The Two Latin Cultures» (2012), che ora esce per Viella con il titolo «L’eccezione italiana». È una sintesi di ricchezza informativa e di alto rilievo storiografico 
Francesco Stella Alias Domenica 289.5.2017, 20:53 
Gli studi sul Rinascimento italiano sono sempre stati profondamente influenzati da grandi figure di ricercatori non italiani, che a questo movimento culturale si accostavano spesso con una devozione mitizzante: i riflessi di massa si riscontrano ancora nell’atteggiamento dei turisti americani che talvolta, visitando a Firenze monumenti medievali come la basilica di San Miniato o il Battistero di San Giovanni, sono convinti di ammirare testimonianze del Rinascimento pensando che in Italia tutto ciò che ha un valore debba essere ricondotto a quel periodo. Basterà ricordare, dopo Michelet e Burckhardt, Hans Baron e Paul Oskar Kristeller che, ognuno con motivazioni diverse ben analizzate da Christopher Celenza ne Il Rinascimento perduto (Carocci 2014), hanno dedicato a questo fenomeno culturale ricerche di importanza assoluta, nella convinzione che qui siano da individuare le radici della modernità europea e occidentale in genere. L’ultima di queste sintesi ad ampio respiro è The Two Latin Cultures and the Foundation of Renaissance Humanism in Medieval Italy (Cambridge University Press 2012) di Ronald Gene Witt, meritatamente onorata di premi accademici negli Stati Uniti e ben tradotta ora in italiano da Anna Carocci per Viella (euro 59,00) col titolo L’eccezione italiana L’intellettuale laico nel Medioevo e l’origine del Rinascimento (800-1300). 659 pagine di straordinaria ricchezza informativa e indubbio rilievo storiografico, che Witt ha fatto appena in tempo ad aggiornare rispetto all’originale inglese, grazie anche al dialogo con molti studiosi europei: proprio mentre usciva L’eccezione italiana, infatti, questo gentiluomo di signorile brillantezza e contagioso entusiasmo veniva a mancare a Durham, nel North Carolina.
Ricordando la sua vita dedicata a insegnare, nelle università di Harvard e di Duke, quelle discipline storiche che l’avevano incantato fin da quando frequentava Scienze Politiche nel Michigan, il New York Times lo ha definito, proprio in riferimento alla sua ultima fatica, come «l’uomo che ha dato al Rinascimento una nuova data di nascita». Il libro è una sorta di prequel dell’altro suo capolavoro, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’Umanesimo, a sua volta tradotto da Donzelli nel 2005, mirato a valorizzare il cosiddetto «pre-umanesimo» padovano e toscano come prima fase della rinascita vera e propria e Salutati, la figura cui Witt aveva dedicato i primi studi, come colui che «fece di Firenze la capitale dell’Umanesimo italiano» catalizzando i diversi fattori culturali, politici, didattici che quella novità avevano preparato anche altrove, ma in forma più occasionale e discontinua.
L’obiettivo stavolta è ricostruire le dinamiche culturali e sociali che portarono all’Umanesimo e le motivazioni per cui questo processo si realizzò in Italia e non altrove. La tesi di fondo è che nel medioevo si possano individuare due filoni di cultura latina, uno manifestatosi nella produzione libraria, diffuso in molte regioni d’Europa, l’altro attestato dai documenti notarili, rintracciati soprattutto in Italia, e poi consolidatosi con la riscoperta dei libri giuridici di ascendenza tardo-romana. Il focus è sull’Italia del nord, nelle città del regnum fondato da Carlo Magno e poi assorbito nel Sacro Romano Impero ma rimasto unità culturale (e, dall’età dei Comuni, spesso anche politica) sempre relativamente autonoma rispetto alla compagine imperiale. L’esplorazione è condotta sulla base di imponenti e accurati spogli archivistici, di statistiche sulla diffusione dei manoscritti, di analisi dei documenti relativi alla scuola e delle leggi in materia di formazione, mettendo anche a frutto strumenti talora poco praticati come l’analisi dei rotoli dei morti, paragonati a riviste letterarie su cui ogni fedele lasciava a turno un proprio pensiero, o il concetto di comunità testuale, promosso per gli studi medievistici da Brian Stock e finalizzato da Witt a grandi affreschi di storia letteraria.
La cultura libraria sarebbe espressa soprattutto da personalità e istituzioni ecclesiastiche, come le scuole monastiche e cattedrali, legate a una formazione (education, nel libro tradotta spesso con «educazione») tipicamente grammaticale, con destinazione elitaria; quella documentaria si riconosce invece in uno strato di «intellettuali laici» identificati nella classe dei notai e dei giuristi, legati a un apprendistato più retorico e giuridico e a un pubblico più aperto, se non proprio all’agone politico: questa seconda categoria fu appannaggio esclusivo dell’Italia e delle sue scuole private. Naturalmente Witt è ben consapevole dell’impossibilità di applicare al medioevo divisioni così nette come quella moderna fra laico e religioso e lo premette con chiarezza nell’Introduzione, ricordando che le sovrapposizioni furono continue (chierici notai, giuristi ecclesiastici, scuole e manuali condivisi) e che non ci sono tracce di un’autoconsapevolezza contrastiva delle due fasce sociali. Ma soprattutto sull’attività notarile la documentazione raccolta gli fornisce, sia pure con qualche forzatura (sempre onestamente dichiarata), sostegno sufficiente per rintracciare una differenziazione sociale interpretata come elemento determinante dell’evoluzione autonoma dell’Italia.
Witt articola la sua ricostruzione partendo dalla conquista carolingia dell’Italia settentrionale, e in particolare dal capitolare mantovano di Carlo Magno del 781 che, valorizzando l’attività cancelleresca del regno longobardo, imponeva a ogni conte del regno di avere un proprio ufficio notarile, decreto esteso nell’805 a vescovi e abati, limitandone però l’esercizio a figure laiche tramite l’interdizione del notariato per i chierici. Fu in questo periodo che vennero compilate le prime epitomi del Corpus legislativo giustinianeo, di cui all’epoca non si aveva conoscenza diretta.
Quella carolingia fu dunque la radice di ognuno degli sviluppi successivi, ritratti nei capitoli seguenti: l’Italia della rinascita ottoniana, dove si registra un aumento fortissimo di documenti nella seconda metà del X secolo e una diminuzione altrettanto vistosa dei notai ecclesiastici; l’XI secolo, che vede la riscoperta del diritto romano e il rilancio degli studi giuridici nella Toscana e nella Bologna di Matilde con la mitica figura di Pepo; l’età comunale, quando l’autonomia politica dei centri urbani, favorita dalla perdita del controllo imperiale sulle nomine episcopali, moltiplica la domanda di personale politico-amministrativo e prepara il «trionfo della cultura giuridica» e retorico/grammaticale con l’università bolognese e la conseguente democratizzazione (e commercializzazione) degli accessi alla cultura.
Il quadro culturale che fa da sfondo a questo sviluppo è condizionato secondo Witt dall’assenza dei patronati ecclesiastici che proliferavano invece oltralpe e dalla tendenza dei chierici italiani, affrancati dalla tutela imperiale, a identificarsi con la comunità laica locale più che con una istituzione sovraordinata: insomma, proprio la vittoria della chiesa gregoriana sull’impero sarebbe causa remota del processo di laicizzazione della cultura. Questa narrazione sfocia, in contrasto qui con le tesi di Robert Black, nella descrizione di una terza cultura, espressa nel XIII secolo da un esteso milieu laico interessato sia alla produzione che alla fruizione di testi latini, specie politici e storiografici, in grado di interpretare le opere antiche come modelli di riferimento per i nuovi valori civili (presentati come laici anche quando difesi e sostenuti da autori formalmente ecclesiastici) da contrapporre al violento individualismo feudale dell’etica cavalleresca. Il «nuovo sapere» include – e questo è uno dei punti meno univoci del discorso di Witt – anche la teologia, rilanciata dagli ordini mendicanti, la logica e le scienze naturali: e tuttavia nell’Umanesimo petrarchesco e posteriore proprio queste discipline diventarono il simbolo della disprezzata cultura medievale (cioè universitaria, tecnica, «moderna») cui veniva contrapposta la cultura umanistica delle corti, letteraria, politica e morale, basata sul recupero dell’antico. Basti pensare alle Invective contra medicum e al De sui ipsius et multorum ignorantia con cui Petrarca istituiva la contrapposizione dei due tipi di formazione (facenti capo a due ceti sociali diversi) che rimarrà elemento, questo sì fondante, dell’identità italiana fino a Giovanni Gentile.

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