domenica 14 maggio 2017

Le mani di Repubblica sull'Ottobre russo: la sesta puntata del reportage di Ezio Mauro

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L'ora di Kerenski 

Era figlio delle bizzarrie della storia, nato nella stessa città di Lenin, eterno nemico

EZIO MAURO 13/5/2017 Rep
SAN PIETROBURGO Per un momento, quel mattino, tutto sembrò uguale a prima, come un trucco della storia, a partire dal sole di primavera che in nessun posto è ingannevole come in Russia, dopo il gelo dell’inverno. Era un martedì quando la sagoma nera e blu di una delle 56 automobili del parco imperiale (una Delaunay- Belleville modello 45) si presentò davanti al cancello principale della reggia di Zarskoe Selo, coi pneumatici di riserva appesi alla fiancata, come sempre. Ma quell’ingresso era chiuso da due settimane, le vetture di servizio passavano ormai dal portone più piccolo, sul viale laterale, tra il Palazzo e la chiesa, l’auto era stata requisita dal governo provvisorio per i suoi ministri e quel cancello segnava in realtà il confine tra il prima e il dopo, tra la rivoluzione e l’Impero. Tutti capirono che questa era una visita speciale, anche se organizzata all’improvviso, fuori da ogni protocollo e senza avvertire nessuno, nemmeno il Maresciallo di Corte che era rimasto al suo posto col monocolo innestato dopo l’abdicazione, come se le forme regali potessero sopravvivere senza il trono, la corona e l’Impero: senza lo Zar.
E invece il mondo immutabile per trecento anni della dinastia Romanov improvvisamente si era rovesciato, proprio qui fuori, dove adesso il vuoto cancella ogni segno del tempo e il silenzio copre la distanza del secolo. Dietro quelle finestre oggi socchiuse e buie, la Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto («il a abdiqué, il a abdiqué», ripeteva incredula aggirandosi per il suo appartamento appena avuta la notizia dal Granduca Pavel, due giorni dopo la rinuncia al regno), mentre nelle stanze al primo piano il precettore svizzero dello zarevic Aleksej faceva sedere in poltrona l’erede a un trono che non c’era più per informarlo poco alla volta, svelandogli l’inconcepibile nella camera dei giochi. «Sapete – disse un mattino alle 11 monsieur Pierre Gilliard – vostro padre non vuole più essere imperatore». «Come? E perché?». «Perché è molto affaticato e ha incontrato molte difficoltà, ultimamente ». Il ragazzo alzò lo sguardo, rimase in silenzio, quindi domandò: «Ma poi sarà di nuovo imperatore?». «Non lo so…». «Ma allora, se non ci saranno più imperatori, chi governerà la Russia?». In questa sospensione dei destini e in questa sostituzione dei rituali una Corte rimpicciolita e stordita continuava a recitare l’antico cerimoniale con una superstizione mimetica della regalità perduta, quasi fosse eterna e impermeabile agli eventi. Così quando il marinaio autista aprì la porta dell’auto e Aleksandr Kerenskij fece il saluto militare, il conte Benkendorf provò a chiedere a che cosa l’imperial Casa doveva l’onore della visita. «Vorrei vedere Nikolaj Aleksandrovic e la moglie e ispezionare il Palazzo, stanza per stanza», disse il nuovo ministro della Giustizia. Come se non fosse successo nulla intorno a lui, il vecchio conte fece finta di non aver sentito la bestemmia del nome reale pronunciato per la prima volta nudo e spoglio nell’eco della reggia, senza più il titolo imperiale. Accennò appena un inchino e prese tempo: «Riferirò a Sua Maestà ». Quindi salì le scale, da cui negli ultimi giorni erano scesi di corsa per andarsene per sempre valletti, dame di compagnia coi loro bauli, dignitari, cosacchi della Guardia, corrieri col berretto guarnito di piume, persino i medici dei ragazzi e l’infermiera. Un altro inchino al ritorno: «Sua Maestà ha gentilmente acconsentito a ricevervi».
In realtà “Sua Maestà” non aveva nessuna scelta. Il Primo Maresciallo sapeva, come tutti, che l’8 marzo il governo provvisorio aveva pubblicato un decreto per «privare della libertà l’imperatore abdicatario e la consorte» e aveva spedito quattro deputati a Mogilev per «prenderlo in custodia» e accompagnarlo alla residenza di famiglia: agli arresti nel Palazzo, dove gli aprirono le porte chiamandolo «signor colonnello », come mai era successo prima. Ma quello che nessuno sapeva è che nelle riunioni del Soviet Vjaceslav Molotov aveva predisposto un piano per arrestare l’ex Zar, la sua famiglia e tutti i Romanov, e rinchiuderli nel bastione Trubezkoj della fortezza di Pietro e Paolo, per un veloce processo che avrebbe con ogni probabilità portato all’esecuzione.
Lo stesso Kerenskij fu attaccato direttamente dagli operai del Soviet di Mosca, che volevano Nikolaj II in galera: «Perché è ancora libero? Perché può viaggiare tranquillamente per la Russia?». «Tengo a dirvi, compagni, che finora la rivoluzione russa non si è macchiata di sangue e non voglio che venga insozzata – rispose il ministro –. Non sarò mai il Marat della nostra rivoluzione. Tra breve l’ex Zar sarà imbarcato su una nave e inviato in Inghilterra sotto la mia personale responsabilità ». Non ci fu nessuna nave, perché il governo inglese si tirò indietro e perché il Comitato esecutivo del Soviet fece presidiare tutte le stazioni fino alla Crimea e diramò l’ordine di arrestare Nikolaj se si fosse avvicinato ad un treno. Anzi, un blindato si presentò il 9 marzo a Zarskoe Selo per prelevare il sovrano decaduto e portarlo al Soviet, ma non avendo un mandato di cattura dovette ripartire senza il prigioniero, salvato dall’eterna subordinazione russa alla burocrazia.
Il ministro che adesso saliva al primo piano, attraversava i lunghi corridoi, entrava per la prima volta negli appartamenti privati dei Romanov era dunque il carceriere e insieme il garante di quella libertà prigioniera del cittadino Romanov, come ormai lo chiamavano gli uomini di guardia. Non si erano mai incontrati prima. Ambizioso, uomo forte del governo, teatrale e demagogo Kerenskij aveva capito d’istinto che avrebbe potuto accrescere la sua autorità nascente incrociandola davanti ai soldati e alla Russia spettatrice con l’autorità declinante dell’imperatore, ormai nelle sue mani come Procuratore Generale del nuovo Stato.
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La Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto “il a abdiqué” ripeteva incredula
Sapeva di essere il tramite attraverso cui la rivoluzione appena scoppiata incrociava per la prima volta la dinastia imperiale morente, la persona che impersonava, – in quel momento e in quel palazzo – il trasferimento fisico e simbolico di sovranità, il potere dei Soviet e della Duma che bussava alla reggia per decretarne il vuoto, controllando intanto che il trono fosse rovesciato davvero, in un Paese abituato da secoli a quella che Dostoevskij chiama «la legge della catena ».
Incredibilmente, non venne condotto in uno studio e nemmeno in un salotto. Quella che si aprì era la camera delle ragazze. C’era tutta la famiglia riunita attorno a un piccolo tavolo sotto la finestra, vicino alla chaise longue dell’ex Imperatrice. Come bisognava salutare quell’uomo in divisa militare, ancora con le mostrine imperiali, abituato agli inchini e ai rituali, adesso che non aveva più nulla della vecchia regalità? «Kerenskij, Procuratore», si annunciò semplicemente il ministro, tendendo la mano all’ex Zar: che la strinse afferrando così, per la prima volta, la nuova dimensione in cui era appena entrato e per la quale non c’era consuetudine e mancava un protocollo. In piedi, Kerenskij chiese se era passata la rosolia ai ragazzi, scambiò qualche notizia sulla guerra, comunicò che il comando del Palazzo era adesso affidato al colonnello Korovicenko, salutò Alix informandola che la regina d’Inghilterra aveva chiesto sue notizie, poi invitò Nikolaj a passare in un salottino accanto, dove entrò per primo, da padrone. «Voi saprete – disse a tu per tu – che sono riuscito a far abolire la pena di morte… Non preoccupatevi, dovete fidarvi di me». Ma quando il ministro (il primo della storia russa nominato senza il consenso dello Zar) se ne andò, la prigionia divenne ufficiale come un decreto. Il cancello del Palazzo si chiuse dietro a Kerenskij e davanti alla famiglia, che per la prima volta aveva assistito all’inedito di qualcuno che dava ordini allo Zar.
Figlio perfetto dell’impero e delle bizzarrie della storia (era nato a Simbirsk sul medio Volga, proprio come Lenin, i loro padri dirigevano due scuole in città, un’elementare e un liceo, e il professor Kerenskij diventerà addirittura tutore dei due ragazzi Uljanov, dopo la morte del genitore), il ministro di Grazia e Giustizia rappresentava perfettamente l’uomo nuovo generato dal Febbraio, a cavallo tra borghesia e rivoluzione, tra la Russia di ieri e quella di domani. Avvocato, ribelle, aveva gettato la croce del battesimo nell’immondizia di casa a quattordici anni, aveva ascoltato a sei anni la notizia che sconvolgeva tutta Simbirsk di Sasha Uljanov, il fratello di Lenin, arrestato mentre preparava un attentato allo Zar e impiccato, aveva visto coi suoi occhi la terribile carrozza di cui in città tutti parlavano, con le tendine verdi abbassate, che quasi ogni notte portava gli oppositori del regime nelle prigioni della gendarmeria: e tuttavia pianse quando seppe della morte di Alessandro III.
Da studente, aveva assistito di persona alla “domenica di sangue”, col massacro dei dimostranti guidati dal pope Gapon, e scrisse per protesta una lettera al comandante della Guardia. Poi cercò di entrare in contatto con il nucleo terroristico del partito socialrivoluzionario, che lo scartò dopo un incontro carbonaro sul ponte Anickov, ma finì in cella nella prigione Kresty per aver firmato un articolo sul giornale Burevestnik, accusato di far parte di un’organizzazione che preparava rivolte armate e voleva rovesciare il regime, finché nel 1912 fu eletto alla Duma nel partito del lavoro, i “Trudoviki”. In parlamento pronuncerà uno dei discorsi più duri verso la monarchia: «Il nostro compito storico è rovesciare immediatamente questo regime medievale, costi quel che costi, senza mezzi legali, con la forza». Nella vigilia febbrile e inconsapevole dell’insurrezione, quando tutti rumoreggiavano e il presidente della Duma gli chiese di chiarire meglio le sue intenzioni, lui si alzò in piedi: «Mi riferisco a ciò che fece Bruto ai tempi di Roma». La frase venne cancellata dal verbale della seduta.
Ma è il lampo del Febbraio a toglierlo dall’anonimato, proiettandolo nella storia russa del ’17, dove lo raggiungerà sopravanzandolo Lenin, il suo eterno avversario. Quel lunedì 27, che verrà ricordato come il giorno della rivoluzione, mentre ancora le mitragliatrici sparano sul Mojka Quai e sulla Sergievskaja, è infatti Kerenskij a precipitarsi ai cancelli della Duma invitando la folla a entrare, a chiamare i soldati perché disarmino la Guardia con un colpo di mano e difendano il palazzo Tauride. È lui a comparire davanti al presidente del Consiglio Imperiale Shcheglovitov, che sta cercando di far valere l’immunità parlamentare dopo essere stato fermato per strada e a dichiararlo in arresto, primo detenuto nel padiglione del Palazzo che Kerenskij trasforma in carcere provvisorio della rivoluzione.
Immediatamente popolare tra i soldati, oratore appassionato, quando nasce il primo governo provvisorio gli viene proposto il ministero della Giustizia. Ma il Soviet ha appena deciso di non partecipare, perché il governo «è borghese», e lui è vicepresidente del Soviet. A sorpresa entra nella sala del Comitato esecutivo, interrompe la seduta, sale sul tavolo e spiega che «è nell’interesse della Russia e degli operai che la democrazia rivoluzionaria abbia il suo rappresentante al governo, in modo che l’esecutivo sia in contatto permanente con la volontà del popolo». Urla, applausi, Kerenskij viene portato a spalle nei saloni della Duma e dentro il governo, mantenendo la vicepresidenza del Soviet, unico caso di doppio incarico per l’unico socialista del ministero Lvov.
Da quel giorno gli stivali militari di Kerenskij calpesteranno ogni angolo della rivoluzione. È seduto sul divano nel salotto della principessa Putjatin, il mattino dopo l’abdicazione dello Zar a Pskov, per convincere il Granduca Mikhail a rifiutare la corona, facendogli capire che nessuno potrà garantire la sua incolumità personale, nel malcontento popolare verso la dinastia. «Apprezzo profondamente la vostra decisione, assunta con nobiltà e da patriota», dirà dopo la rinuncia del Granduca, prima di tornare alla Duma con la firma sul foglio che scioglie per sempre il vincolo tra i Romanov e la Russia, procedendo tra la folla senza scorta, per raccogliere gli applausi alla repubblica che sta nascendo.
È vicino all’ex Primo Ministro Goremykin la notte in cui viene portato in carcere alla fortezza, si accorge che nasconde sotto la camicia la catena con dieci pietre preziose dell’ordine imperiale di Sant’Andrea apostolo ma non gliela requisisce, per compassione rivoluzionaria o per complicità borghese. È al telegrafo del ministero, quando dà l’ordine – come suo primo atto di governo – di far tornare con tutti gli onori dall’esilio siberiano la “nonna della rivoluzione”, Ekaterina Breshko-Breshkovskaja, che da ragazza aveva organizzato le “passeggiate tra il popolo” girando i villaggi con il fagotto di pezza infilato a un bastone sulle spalle per convincere i contadini a ribellarsi allo Zar: a 73 anni trova un picchetto d’onore che l’aspetta a Pietroburgo con la Duma e i ministri, Kerenskij che la fa ospitare in un appartamento a Palazzo d’Inverno, mentre il coro dei ragazzi schierati dal ministro la saluta con le strofe dei “difiramby”, i canti popolari dei contadini durante il raccolto e con l’inno del ringraziamento: «Noi ci inchiniamo di fronte a te, con una profonda gioia per la vittoria tanto attesa».
Nella vertigine di Pietrogrado – livida per l’elettricità che salta, la neve ormai sporca, il collasso del potere che si percepisce per strada – se c’è uno spettacolo della rivoluzione l’impresario statale è Aleksandr Fedorovic Kerenskij. Porta la mano infilata nella giacca al petto, dicendo che ha una ferita al braccio, in realtà perché ha il mito di Napoleone. Si fa fotografare in ufficio col colletto inamidato, il fiocco e il doppiopetto, con un foglio in mano. A ogni comizio raccoglie applausi parlando contro la pena di morte. Riceve i Granduchi, guidati da Kirill, che professano sottomissione alla Duma. Usa con perizia la polizia segreta, abituato fin da ragazzo ad avere due agenti davanti a casa con calosce, soprabito nero e l’ombrello in mano in qualunque stagione. Crea un super-gabinetto interno al governo con altri quattro ministri massoni, e lui lo guida: è iscritto alla Società dal 1912, in una loggia che ammetteva anche le donne, con il giuramento solenne di rispettare la disciplina e non rivelare mai il nome degli altri aderenti. Ubbidirà anche dall’esilio.
Ma è al fronte che Kerenskij unisce insieme la retorica militare, l’ideologia rivoluzionaria, la religione russa della patria e il culto fanatico di sé. Dal 2 maggio, con le dimissioni di Guckov, diventa ministro della Guerra. Trova una situazione disastrosa. La Germania, convinta che la Russia nel caos non sia più una potenza internazionale, invitava i soldati a incrementare il disfattismo, fraternizzando coi russi nelle trincee. Nelle strade delle due capitali, nei villaggi di campagna si rovesciava quasi un milione e mezzo di sbandati dal fronte. A Piter i marinai erano padroni del quartiere che va dal lungofiume inglese fin quasi al teatro Mariinskij, i più eccitati derubavano i passanti, sequestravano le persone chiedendo un riscatto. Intanto tre reggimenti della 163ma divisione sul fronte romeno si ribellano agli ordini, bisogna minacciarli con i cosacchi pronti ad aprire il fuoco. Ma altre unità della 12ma e 13ma divisione si rifiutano di avanzare. Gli agitatori bolscevichi (Semasko, Sivers, Krylenko, Dzevaltovskij) fanno propaganda tra le truppe per la pace, e gli uomini abbandonano i fucili: «Vi esortiamo a non morire per gli altri in guerra, ma a annientare i vostri nemici di classe interni».
Il ministro restituì subito agli ufficiali i poteri che Febbraio aveva tolto, primo fra tutti l’uso della forza sui subalterni per far rispettare la disciplina. «La patria è in pericolo – dichiarò solennemente – ognuno deve sventare questa minaccia, tutti i soldati e i marinai devono tornare al loro posto entro dieci giorni». Poi Kerenskij partì per due settimane di visita al fronte. Prima alla flotta pesante sul golfo finnico, poi allo schieramento sud-occidentale a Tarnopol, quindi a Odessa, ancora a Riga dal comando settentrionale, infine a Dvinsk dove operava la Quinta Armata. Fu un autoinganno. L’oratoria appassionata, emotiva e demagogica del ministro sollevò fiammate improvvise di entusiasmo tra i soldati, prima che il logoramento della lunga guerra, le speranze suscitate dalla rivoluzione tornassero subito a spargere la frustrazione ribelle tra le trincee. Ma Kerenskij si illuse di poter ribaltare lo stato d’animo, riaccendendo la voglia di combattere. Era esaltato, frastornato, con le truppe che gli lanciavano fiori sul Mar Nero, gli baciavano gli stivali in Lettonia, lo acclamavano piangendo in Galizia. L’estasi patriottico- militare contagiò anche Olga Lvovna, la moglie infermiera per qualche mese, che definiva un atto “religioso” lavare i piedi dei soldati.
Tutto questo portò Kerenskij a scatenare l’offensiva di primavera, cercando per via militare quella forza che il governo provvisorio non aveva per via politica, con i soviet che erano ormai quasi mille, i sindacati che si moltiplicavano, i bolscevichi che crescevano nelle fabbriche e nelle tessere, le Guardie Rosse che si organizzavano militarmente. Il ministro guidò personalmente l’attacco, aspettando l’“ora zero” sulle colline ucraine. Per due giorni l’esercito avanzò: il terzo giorno ripiegò, poi la ritirata divenne una fuga senza controllo, con la perdita del 35 per cento dei pezzi d’artiglieria e degli aerei. Kerenskij prova a dare la colpa ai bolscevichi infiltrati tra le truppe, scrive un telegramma agli ambasciatori alleati, denunciando l’invio da parte dei loro governi di forniture belliche difettose. Dal fronte, il comandante Denikin lo accuserà di “isterismo”.
L’insuccesso militare, il malcontento dei contadini, la deriva dei soldati in rotta gonfiavano di nevrosi Pietrogrado, una città irreale, isterica, sospesa in un passaggio doloroso tra il vecchio e il nuovo, la cornice urbana intatta, il cuore trapiantato e fortemente sollecitato. Così le parole d’ordine bolsceviche passavano da una strada all’altra con le venditrici di semi di girasole, con i distributori di kvas, la bevanda di pane fermentato, con le mogli dei soldati. Comizi spontanei e assemblee improvvisate si davano il cambio alla Fontanka, a due passi dal famoso parrucchiere Bogdanov, con l’insegna che diceva “maestro di taglio” al numero 80 del Nevskij, vicino al giornale di moda Chic viennese, che chiuderà a fine anno. Ma sul Nevskij si aprivano dieci cinema, prima che la notte diventasse insicura anche se bianca, dal Palais Cristall al Comic, al Piccadilly fino al fantastico Parisiana che aveva 800 posti e il soffitto che da maggio si apriva sul cielo. I prezzi continuavano ad aumentare. Bisognava sostituire lo zucchero che non c’era col miele, carissimo, l’oca saliva dai 70 ai 90 copechi al “funt” (meno di mezzo chilo), i polli volavano a più di tre rubli l’uno. Costavano molto meno i bordelli popolari: 50 copechi, mentre quelli di lusso arrivavano fino a 12 rubli. Le inserzioni sui giornali – 20 copechi alla riga – compravano e vendevano tutto, anelli d’oro e gemelli d’argento, ma anche denti spaiati, dentiere rotte, apparecchi di cuoio per correggere la linea del naso, «massaggi offerti da signora molto colta ». I quotidiani proponevano i libri rilegati dei grandi autori russi ma anche i cartamodelli. Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si fece strada il mestiere del “perelizovshik”, il rovesciatore, che rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo. La povertà cresceva, con la fame e la disperazione.
«Il mio esperimento liberale è finito – dirà il Primo Ministro Lvov, ormai sono un pezzo di legno in balia della marea rivoluzionaria». Man mano che il governo e Kerenskij perdono terreno Lenin e il suo partito avanzano, come sulla scacchiera che il leader bolscevico tiene in salotto nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, e ancora oggi è lì, col suo meccanismo segreto per nascondere le carte bolsceviche. I due non si vedevano da una funzione religiosa a mezzanotte di Pasqua quando il ministro, bambino, riceveva la comunione vestito di picché bianco con la cravatta rossa e sapeva che alle sue spalle – nelle due file di studenti più grandi con l’uniforme azzurra dai bottoni d’argento – c’era lui, Vladimir Ilic Uljanov, che diventerà Lenin.
Si incontreranno, tenendosi a distanza, una volta sola, al congresso panrusso dei Soviet. Sono andato a cercare i segni di quell’unico contatto, al vecchio numero 1 del palazzo dei cadetti, sull’isola Vasilievskij. Oggi qui c’è l’università con le stanze “na remont?”,in ristrutturazione, ma se si arriva presto si può immaginare l’eco dei passi e degli applausi nella grande sala deserta e vuota del mattino, all’ora in cui Lenin dalla tribuna propose l’arresto immediato di 100 capitalisti, Kerenskij si alzò accusandolo di preparare la strada a un dittatore e mentre lui parlava Ilic prese i suoi fogli e se ne andò da questa porta. Tutti li guardavano. Si sfideranno per tutto il ’17 con Kerenskij agitato che balza in piedi nel suo ufficio al ministero ogni volta che parla di Lenin, e Ilic che lo addita come il fantoccio della borghesia. Si studieranno, si controlleranno a vicenda, si inseguiranno sfiorandosi fino a correre dentro l’epilogo verde e bianco del Palazzo d’Inverno, a ottobre. Uno deve cavalcare un Paese imbizzarrito, provando a governarlo, l’altro può aspettare, puntando sulla pazienza e sulla costanza nella furia russa della primavera che da Piter ha incendiato il mondo, cent’anni fa. In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più di un “perelizovshik”, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex Impero in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro metri alla “Pravda”, stava già prendendo le misure alla Madre Russia.
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