giovedì 25 maggio 2017

Squali di Norvegia

Nome in codice, squalo della Groenlandia 
Intervista. Morten Strøksnes, scrittore norvegese, pescatore e fotograto ha pubblicato con Iperborea «Il libro del mare», un reportage letterario che lo conduce sulle tracce del più grande vertebrato del pianeta 
Ingrid Basso Manifesto 24.5.2017, 18:03 
Se il pittore romantico-naturalista danese Christian Krogh, che in una giornata d’inverno del 1895 raggiunse il Vestfjord e rimase letteralmente folgorato dalla parete rocciosa disegnata dalle Lofoten, avesse visto in realtà che cosa giaceva nelle profondità del Mar di Norvegia, il suo stile sarebbe bruscamente mutato per fare di lui il primo surrealista della storia. Non può essere che così, scrive Morten Strøksnes, pescatore, giornalista, fotografo e scrittore norvegese classe 1965, in Il libro del mare (traduzione di Francesco Felici, Iperborea, pp. 352, euro 17,50), un brillante reportage letterario tradotto in oltre venti lingue, appena uscito in Italia e presentato dall’autore stesso in questi giorni al trentesimo Salone del Libro di Torino. E Morten Strøksnes, nato e cresciuto a Kirkenes, una cittadina affacciata sul Mare di Barents, il mare del Polo nord lo conosce bene e sa che cosa si agita al di sotto di quelle acque gelide. 
«La vita sul fondo del mare è molto più ricca ed entusiasmante di quella sulla terraferma», dichiara, e per dimostrarcelo si imbarca – letteralmente – con l’amico Hugo, un artista originario di Engeløya nel Nordland, in un’impresa a dir poco straordinaria: pescare il grande squalo della Groenlandia, håkjerring in lingua norvegese, eqalussuaq in quella degli Inuit, che lo credono un animale magico capace di aiutare gli sciamani.
Il Somniosus microcephalus, nella lingua di Linneo, un animale che ha due milioni di anni di evoluzione alle spalle, è lo squalo carnivoro più grande del pianeta, è in grado di spingersi più a nord di qualsiasi altro suo simile ed è inoltre il vertebrato più longevo del pianeta: l’esemplare che Morten e Hugo inseguono potrebbe essere nato addirittura durante le guerre Napoleoniche. 
Ma l’impresa dei due amici è anche occasione per riflettere sul rapporto viscerale che lega l’uomo al mare e per perdersi in una miriade di aneddoti che spaziano dalla storia naturale alla storia dell’umanità, dalla mitologia alla letteratura per arrivare addirittura alla teologia, allorché scopriamo che perfino Sant’Ambrogio, Isidoro di Siviglia e Alberto Magno nei loro dotti scritti si cimentarono in descrizioni dell’ambiente marino e dei suoi mostri, nonché nel confronto tra pesci e umani. E benché Hegel abbia sentenziato che anche un cielo stellato non è che un nugolo di mosche in confronto a qualsiasi opera prodotta dallo spirito umano, il dotto ma mai pedante racconto di Strøksnes ci mostra attraverso lo specchio della natura di «quali reali inverosimiglianze sia capace la vita», come avrebbe detto Pirandello. 
Nel 2010 lei ha pubblicato un crudo reportage politico sul Congo, nel 2012 il racconto di un lungo viaggio tra le tribù indigene della Sierra Madre e la guerra tra i cartelli messicani della droga: come è arrivato al Vestfjord?
In realtà l’oceano mi ha sempre affascinato, ma finora non avevo mai realmente trovato l’angolatura giusta o la giusta scusa per occuparmene. Ho provato a fare anche qualche spedizione per mare con pescherecci che usavano reti a strascico sui fondali, ma non mi piaceva, è una pratica distruttiva. Allora ho abbandonato l’idea del mare e ho pensato: prima o poi verrà fuori l’occasione giusta. Cinque anni fa, infatti, il mio amico artista Hugo mi ha chiamato per spiegarmi la sua idea. Si trattava di un’impresa di cui avevamo già parlato diverse volte, ma quel giorno lui mi ha detto: «Ho deciso, io vado a cercare lo squalo groenlandese, vuoi seguirmi? Certo che vengo», ho risposto immediatamente. Così poi avrei raccontato questa avventura. 
Qual è il suo metodo di lavoro? Il suo è un reportage in cui al resoconto del viaggio e delle sue avventure personali si unisce la narrazione di un’infinità di storie e di aneddoti che presuppongono una ricerca letteraria e documentale non indifferente…
Per prima cosa cerco di isolarmi a lungo, rifletto e scrivo finché non ne posso più, e allora torno nel mondo. Negli anni in cui ho pensato e scritto questo libro ho cercato di leggere quanto più possibile sull’oceano, trattati scientifici, ma anche poesie e romanzi. A volte mi capita anche di frequentare diverse biblioteche in giro per il mondo, ma non questa volta: il tema offriva veramente molta letteratura già presente in Norvegia e inoltre oggi è possibile consultare gran parte del materiale on-line. In altre occasioni, invece – ed è accaduto tra l’altro anche per il libro che sto scrivendo ora – mi sono dovuto recare di persona presso alcuni archivi: ad esempio, sono stato a lungo all’American Museum of Natural History di Manhattan. 
Può dirci quale sarà l’argomento del suo prossimo libro?
Preferisco per ora non parlarne. Anticipo solo che si tratta del Borneo. 
A proposito di mare e libertà, ne «Lo specchio del mare», del 1906, Conrad scriveva che l’oceano non ha compassione, non ha fede, non ha legge e non ha memoria: quale di questi tre aspetti, secondo lei, si contrappone maggiormente all’idea di libertà, se vi si oppone?
Non è una domanda semplice, in realtà non ho mai ragionato intorno al problema in questi termini, forse non è il modo giusto di pensare all’idea di libertà. Forse è a motivo di qualcosa di completamente diverso che noi siamo affascinati dall’oceano. Il nostro legame liberatorio con il mare è qualcosa di inconscio e ancestrale, che è presente in noi ancora prima di nascere: a ben guardare, un paio di miliardi di anni fa, la terra era completamente coperta d’acqua. Il mare esercita un richiamo, è come se l’uomo provenisse dal fondo del mare e avesse memoria del ventre materno, ove si stava immersi nell’acqua. Eppure abbiamo anche paura del mare, perché è imprevedibile, imperscrutabile, violento, e anche per questo ne siamo così affascinati. Non ci ha ancora rivelato tutto di se stesso e forse quel che ne conosciamo è soltanto un’infima parte. 
Oggi il genere di scrittura che possiamo definire «reportage letterario», la docufiction insomma, sta godendo di un grandissimo successo. Come mai, secondo lei?
Io credo che al giorno d’oggi ci sia urgenza di incontrare quella che chiamiamo «realtà» e questo vale anche per la letteratura. Anche la letteratura quindi sta andando in questa direzione e uno degli esempi più emblematici in tal senso, in Norvegia, per esempio, è Karl Ove Knausgård con i suoi sei corposi volumi autobiografici intitolati La mia lotta.
Il suo progetto è iniziato proprio in seguito alla sfiducia nei confronti della finzione: «Voglio vedere le cose come sono esattamente», questo era il suo progetto. Il mio caso è un po’ diverso. A me piace raccontare le cose, anche quelle reali, in un modo che lasci un po’ di spazio sognare.



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