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Il tramonto dell'occidente Oswald Spengler, Nino Aragno, 677 pp., 40 euro
Spengler, storia universale, destra, socialismo prussiano
È perciò da salutare come un vero e proprio evento editoriale l’impresa di riproporre un testo difficile, controverso, ma di indubbio fascino, di cui a tutt’oggi non si riesce a stabilire la reale portata sul piano sia speculativo sia, più espressamente, ideologico. Si tratta infatti di un’opera per antonomasia attribuita alla «cultura di destra», mentre secondo Raciti si è travisato il pensiero dell’autore, riconducibile a quella temperie etica denominata «socialismo prussiano». Spengler licenziò infatti nel 1919 il saggio Preussentum und Sozialismus, con il quale si proponeva di conciliare le ferree regole della disciplina teutonica e un socialismo sui generis, che poco ha da spartire con la lezione ortodossa di Marx e di Engels. In questo senso il messianismo di Spengler non poteva non affascinare lettori d’eccezione come Mussolini o lo stesso Hitler, nonostante le divergenze fossero palesi: il filosofo tedesco non apprezzava l’impero romano mitizzato dal fascismo («Bisogna guardare al dominio mondiale dei Romani come a un fenomeno negativo») e considerava poco meno che triviale la politica del Führer (il nazismo venne definito un «movimento volgare guidato da un capo volgare»).
La stessa complessità strutturale dell’opera rappresenta, di per sé, un unicum, come avverte l’autore: «In questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri». Il testo risente del fermento culturale che caratterizzò la Germania, e in particolare Monaco, nel primo ventennio del secolo, in cui abbondavano profeti e profezie di ogni genere (si pensi, per esempio, al poeta Stefan George) e dove l’elemento esoterico era quanto mai presente. Osserva Furio Jesi: «Spengler visse come personaggio marginale questi conflitti, o almeno queste situazioni di ambigua solidarietà, durante la sua giovinezza; poi intervenne, profeta, a pronunciare nuovamente la parola “tramonto” quando il tramonto della Monaco della Reggenza e della Germania guglielmina era cosa accaduta. Che poi “la decisione del compimento finale” significasse la “rivoluzione” nazista e il Reich millenario, fu cosa dinanzi alla quale Spengler non si ritrasse, non facendo in tempo (morì nel 1936) a vedere un ulteriore tramonto».qualche avanzo di contenuto; peccato, però, che il limite massimo di secoli previsto da questo schema fosse stato raggiunto da un pezzo». Spengler contesta «il percorso lineare» della storiografia secondo il quale gli eventi seguirebbero un andamento costellato di tappe intermedie tese a un fantomatico progresso, in parte riagganciandosi alla lezione di Frobenius secondo la quale le civiltà, guidate da forze irrazionali, nascono, si sviluppano ed esauriscono in base a cicli vitali.
Ma i maestri dichiarati sono Nietzsche, con le sue teorie relative all’«eterno ritorno» e alla «volontà di potenza», e Goethe, considerato da Spengler alla stregua di un vero e proprio filosofo, il cui mito di Faust è alla base del criterio interdisciplinare che è un Leitmotiv del libro. L’autore spazia, con incredibile disinvoltura, da un argomento all’altro, occupandosi di matematica, religione, economia, filosofia, musica, arte. Sembra voglia intraprendere un inventario del mondo («il cosmo è la storia del cosmo» scrisse Jesi) la cui concezione ha in sé qualcosa di esaltato, a tratti di delirante. Veniva contestato a Spengler, soprattutto da parte dell’establishment culturale, un approccio di tipo antiscientifico alla materia trattata. Anche nel nostro paese furono avanzate riserve, visto che Benedetto Croce tacciò di «dilettantismo», «ignoranza» e «inconsapevolezza» l’autore del Tramonto dell’Occidente. D’altronde Spengler stesso osserverà che «la volontà di trattare scientificamente la storia rimane un proposito sostanzialmente contraddittorio». Ribadendo ancora: «Essere oggettivi è l’orgoglio degli storici moderni, ma in questo modo essi rivelano scarsa consapevolezza dei loro pregiudizi».

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