mercoledì 28 giugno 2017

"Riga" su Blanchot. Un intervento di Italian Theory


Risultati immagini per Riga BlanchotLa rivendicazione contro il mondo secondo Blanchot 

RIVISTE. L’ultimo numero della rivista «Riga», per la cura di Giuseppe Zuccarino, è dedicato al filosofo francese 
Marco Dotti Manifesto 27.6.2017, 17:33 
Poche figure hanno attraversano il Novecento filosofico, critico, letterario senza lasciare una sola e afferrabile immagine di sé, disseminandolo però di perduranti, ma sfuggenti, tracce. Una di queste figure è senza dubbio Maurice Blanchot. Narratore e critico letterario, saggista capace di portare la forma-saggio alle sue altezze più estreme, Blanchot è autore che tutti hanno se non letto intercettato, se non cercato incrociato, se non visto sentito nei propri percorsi di lettura o ricerca: Kafka, Derrida, Bataille,Lévinas, Hölderlin, René Char, Foucault. Tutto ciò di cui ci ha parlato, ora ci parla di lui. 
FORSE PER QUESTA RAGIONE Roland Barthes vedeva in Maurice Blanchot una sorta di incarnazione di eroismo letterario, ovvero «l’attaccamento intrattabile a una pratica, cioè la rivendicazione, contro il mondo, di un’autonomia, di una solitudine». Non è un caso, allora, se di Blanchot abbiamo pochissime fotografie attorno alle quali il suo nome, e men che meno la sua pratica, potesse lasciarsi afferrare. Sempre al cuore della questione intellettuale, non si è lasciato monopolizzare. La periferia era il codice implicito di pratica che è oggi fonte di un’attenzione critica sempre crescente, fatta forse eccezione per il nostro Paese dove l’interesse, soprattutto editoriale, è scemato con gli anni o – e questo concerne il lato più strettamente letterario della sua opera – dove la scintilla non è scoccata affatto. 
A RILANCIARE LA SFIDA prova ora l’ultimo, bel numero di Riga (edito da Marcos y Marcos pp. 218, euro 28). È il trentasettesimo del semestrale di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, ed è dedicato proprio a Blanchot per la cura di Giuseppe Zuccarino, uno dei suoi più profondi e meticolosi conoscitori.
Il volume di Riga si apre con gli omaggi ispirati, a firma di René Char, Marco Ercolani, Enzo Campi e Benoît Vincent e prosegue con testi, per lo più incipit da romanzi e racconti (da Thomas l’obscur, Le Très-Haut e Au moment voulu), inediti in italiano e prosegue infine con una corposa silloge di saggi critici, da Lévinas a Pierre Klossowski, da Georges Bataille a Jacques Derrida, fino a Georges Didi-Huberman, Jean-Luc Nancy e Bernard Stiegler, del quale Zuccarino e Paolo Vignola hanno tradotto una lunga conferenza sulla «farmacologia dell’amicizia» risalente al 2011. A questi saggi, antologizzati in traduzione, si affiancano quelli, scritti appositamente per Riga, di studiosi italiani: Alberto Castoldi, Manlio Iofrida, Igor Pegrelfi, Bruno Moroncini, Riccardo Panattoni, Marco Della Greca. 
«Se Blanchot si rivolge a tutte le grandi opere della letteratura mondiale e le intesse nel nostro linguaggio», osserva Michel Foucault, «lo fa proprio per dimostrare che queste opere non si possono mai rendere immanenti, che esse esistono al di fuori, che sono nate al di fuori e che, se esistono al di fuori di noi, noi siamo a nostra volta al di fuori di esse. E se manteniamo un certo rapporto con queste opere è a causa di una necessità che ci costringe a dimenticarle e a lasciarle cadere fuori di noi». 
NEL SUO INTERVENTO (Blanchot e il superamento del libro), Zuccarino richiama il giudizio di Foucault, che aveva ad oggetto il rapporto con lo spazio letterario, riportandolo a un tema, quello sull’inquietudine riguardo alla forma-libro, che attraversa tutta l’opera di Blanchot, da Le livre, testo del 1943, passando per Le livre à venir del 1957, fino agli ultimi testi, su tutti L’écriture du désastre, edito nel 1980 da Gallimard.
Se la civiltà, scriveva Blanchot nell’articolo del ‘43, si configura e si riconfigura in termini di rispetto o disprezzo del libro, tanto più che il rogo dei libri è considerato a tutt’oggi, anche in tempi «liquidi», una delle forme più radicali di violenza, la domanda che si pone e ci pone affiora in tutta la sua portata assumendo una carica che con un termine un poco scontato definiremmo «epocale». Chiede infatti Blanchot ne Le livre à venir: «dove va la letteratura?». Risposta: «la letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza che è la sparizione». 
NON POTENDO PIÙ rispondere a un’esigenza di assoluto, la letteratura, e con essa la forma-libro, perde la propria sovranità sul presente, presentandosi – il discorso di Blanchot poggia qui sul Coup de dés di Mallarmé – come forma futura, come forma possibile del possibile. Che ne è, allora, del libro a venire? Derrida ne trasse un lungo commento, nel 1997, pubblicandolo poi nel suo Papier à écrire (Galilée, 2001): senza supporto il libro infinito evocato da Blanchot poteva infine coincidere con la fine del libro? Fruizione senza limiti, ipertrofia dei mezzi, bulimia di messaggi: le cose spicciole e il tempo della rete sembrerebbero dare ragione al Derrida che, a sua volta, sembra dare ragione a Blanchot. Non fosse che con Blanchot le cose sono più complesse e, ci ricorda Zuccarino, ben più radicali. Ecco, allora, l’attualità di Blanchot, la sua etica in rapporto a quegli «amici lontani» che, rovesciando la formula di Jean Paul («i libri sono solo lettere agli amici lontani»), sono i libri. Il libro è per Blanchot qualcosa che sempre eccede il supporto. Lo eccede e lo precede Forse per questo Foucault parlava di una impossibile immanenza, di un fuori tanto radicalmente, totalmente altro?«Se per una prima volta il libro potesse davvero iniziare», scriveva Maurice Blanchot, «allora già da tempo, per un’ultima volta, sarebbe giunto alla fine». Per fortuna, quel tempo non è ancora giunto. Almeno per noi.

Blanchot, la scrittura dell’oltranza e l’onnipresenza della morte "Riga" per Blanchot. Giuseppe Zuccarino ricostruisce la complessa e sfuggente figura del filosofo e intellettuale francese: testi inediti, estratti dai romanzi (poco noti in Italia), testimonianze, studi, interventi critici. All’insegna della «eccezione» Pasquale Di Palmo Alias Domenica 10.9.2017, 0:07
«Io ho sempre cercato, con più o meno ragione, di apparire il meno possibile, non per esaltare i miei libri, ma per evitare la presenza di un autore che avanzasse la pretesa a un’esistenza propria». Con tali ragioni Maurice Blanchot (1907-2003) rispondeva con un rifiuto alla richiesta di inserirlo in una pubblicazione comprendente ritratti fotografici di diversi scrittori. È conosciuta la sua avversione a comparire pubblicamente e a rendere manifesta la fisionomia del proprio volto (pochissime sue immagini sono state rese note) ma quel che sorprende è la motivazione del diniego, quella sorta di tautologia che non si può non rilevare tra «la presenza di un autore» e la sua «pretesa» di esistere. È come se Blanchot volesse affermare, sulla falsariga di quello straordinario personaggio del racconto di Melville Bartlelbly lo scrivano («Preferirei non farlo» il refrain che cadenza la vicenda), la sua totale estraneità a un mondo investigato con le sole armi di una scrittura «speculativa» che si impone, soprattutto a livello critico, come una delle più paradigmatiche del secolo del malessere e dell’inquietudine.
Entrambi i brani citati, compreso l’esauriente saggio su Melville, si possono ora leggere nel n. 37 che «Riga», il semestrale diretto da Marco Belpoliti e Elio Grazioli, dedica, appunto, a Maurice Blanchot (Marcos y Marcos, pp. 320, € 28,00). Il volume è curato da Giuseppe Zuccarino che, nel 2006, aveva tradotto per la collana «I libri dell’Arca» delle Edizioni Joker Noi lavoriamo nelle tenebre dello stesso Blanchot, che raccoglieva una serie di saggi ispirati alle figure di Henri Michaux, Louis-René de Forêts e Samuel Beckett. Il numero di «Riga» offre uno spaccato significativo sull’opera di Blanchot, accogliendo i più svariati contributi: testi inediti in italiano, testimonianze, studi, interventi critici su temi specifici, tributi di carattere creativo (Char, Jabés, l’«apocrifo» di Marco Ercolani su L’ultimo a parlare, incentrato sulla poesia di Celan). Nonostante non fosse un’operazione semplice, in quanto la figura dell’autore francese, nella sua estrema complessità, risulta quanto mai sfuggente e spesso di ardua decifrazione, Zuccarino è riuscito ad allestire un lavoro convincente, approfondito, che tiene conto delle diverse sfaccettature della personalità blanchotiana, a partire da quelle di narratore, critico letterario e saggista.
Stringatezza beckettiana
In tal senso risulta pochissimo conosciuta nel nostro paese l’opera narrativa, di cui vengono offerti alcuni specimina, comprendenti i capitoli iniziali dei romanzi Thomas l’obscur (1941) e Le Trés-Haut (1948), nonché Il ritorno, prima parte del racconto Au moment voulu (1951), originariamente pubblicato in un numero della rivista «Botteghe oscure». Questi testi si configurano, nella loro enigmaticità, nella loro stringatezza di taglio beckettiano, come una sorta di «corpo a corpo» linguistico sostenuto con uno dei temi-cardine del Novecento, quello dell’incomunicabilità. Non è un caso che, in uno dei suoi saggi più importanti, Le livre à venir, si legga che «non c’è mai certezza di una scrittura legata a un sapere che sfugge». Lavoro sul linguaggio che presuppone, dunque, l’insufficienza dello stesso a rendere in maniera intelligibile, o quanto meno persuasiva, eventi che irrimediabilmente sfuggono: «Nominare il possibile, rispondere all’impossibile».
Compito dello scrittore, sia esso il medesimo Blanchot o quella costellazione di autori indagata a livello critico (Kafka, Musil, Joyce, il Mallarmé del Coup des dés, Hölderlin, Rilke, Borges ecc.), sarà dunque quello di misurarsi con l’écriture come se si fosse a contatto con «l’incrinatura e la fessura, l’erosione e la lacerazione» di cui si parla a proposito di Artaud. «Scrivere è qualcosa di fondamentalmente pericoloso, di innocentemente pericoloso» si legge in un’altra lettera presentata nel numero monografico di «Riga». I personaggi rappresentati sono larve, simili a filiformi figure giacomettiane che camminano, poco più grandi di una capocchia di spillo, nel vuoto, simboli stessi di quel vuoto. Questa «insufficienza» non può che derivare dalla concezione di una morte onnipresente, anche se raramente nominata, come rileva nella sua testimonianza l’amico e sodale Georges Bataille: «Blanchot può dire di sé che, se parla, è la morte che parla in lui. Di fatto, la letteratura gli appare simile alla fiamma nella lampada: quel che la fiamma consuma è la vita, ma la vita in quanto è morte, nella misura appunto in cui muore, esaurisce la vita bruciando».
Scrittura dunque dell’oltranza, in cui l’eccezione diventa norma, come avverte lo stesso Blanchot: «Tutto avverrebbe quindi come se, nella letteratura romanzesca, e forse in ogni letteratura, l’unico modo di individuare la regola fosse l’eccezione che l’abolisce». In quest’ottica non si può non rilevare come l’attività di critico prediligesse quelle figure di «irregolari» che costituiscono l’emblema di quell’«assenza d’opera» di cui parlava Foucault. Con uno dei suoi tipici scarti stilistici, in cui l’assunto aforistico sfocia nell’ambiguità polisemica e nella sibillinità, Blanchot osserva: «non importa ricordare o dimenticare, ma, ricordando, essere fedeli all’oblio».
Insensato gioco di scrivere
D’altronde i libri capitali di Blanchot, da L’espace littéraire (1955) a Le livre à venir (1957), da Lautréamont et Sade (1963) a L’entretien infini (1969), si configurano come un’ininterrotta riflessione sull’«insensato gioco di scrivere», «la rivendicazione, contro il mondo, di un’autonomia, di una solitudine», per usare le parole di Barthes. E questo, spesso oltrepassando i limiti della letteratura, il suo essere immanente, a favore di una meditazione filosofica sulla quale si cementerà l’amicizia con alcuni pensatori d’eccezione come Levinas, Derrida, Foucault, Bataille, di cui si offrono sintomatici contributi, insieme a quelli di Klossowski, Starobinski e Didi-Huberman. La stessa giovanile militanza ideologica nella destra si tramuterà negli anni sul versante opposto, con l’adesione alla rivolta sessantottesca del maggio parigino. Con il tempo si è acuito il contrasto tra un’opera così celebrata (e citata) e la sua limitatissima «fruizione», soprattutto nel nostro paese, in cui la figura di Blanchot è stata confinata in un ristretto ambito specialistico, se non propriamente accademico. Precisava Derrida in un intervento qui proposto del 1998 che «l’opera di Blanchot è uno dei grandi eventi di questo secolo e oltre questo secolo, che fa la sua strada più o meno sotterraneamente, in ogni caso con discrezione, acquista intensità di presenza e nella misura in cui tale “intensità” si impone, fa nascere una sorta di apprensione, anche di paura, di risentimento».
Zuccarino suggella il suo lavoro presentando, in calce al volume, il suo saggio «Blanchot e il superamento del libro», in cui, prendendo l’abbrivio dalla concezione che da Le livre, testo del 1943, approda a L’écriture du desastre (1980), il critico francese si interroga sul destino stesso del libro. Nell’epoca in cui la rete sembra aver soppiantato l’influenza della carta stampata («L’absence de livre» si intitola emblematicamente uno dei capitoli di L’entretien infini), le riflessioni di Blanchot interpretate da Zuccarino sembrano avallare questo passaggio, tratto da Le livre à venir: «Il libro esisterà sempre, anche molto tempo dopo che la nozione di libro risultasse esaurita». Ma attenzione, il tempo dei profeti è finito, lo stesso Blanchot ci mette in guardia: «I falsi profeti piacciono, sono graditi artisti (giullari) più che profeti».

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