giovedì 6 luglio 2017

L'islamismo militare come errore e peccato veniale dell'Occidente: Warrick ha meritato il Pulitzer

Joby Warrick: Bandiere nere. La nascita dell’Isis, La nave di Teseo, pp. 606, euro 22
Risvolto
Quando, nel 1999, il Governo della Giordania concesse l’amnistia a un gruppo di prigionieri politici detenuti in un carcere di massima sicurezza in mezzo al deserto, non aveva la minima idea che tra di essi ci fosse anche Abu Musab al-Zarqawi, un terrorista capace di diventare in pochi anni l’architetto del movimento più pericoloso del Medio Oriente prima, e del mondo intero poi.
Bandiere nere di Joby Warrick mostra in modo magistrale come la determinazione di un solo uomo e gli errori strategici dei presidenti americani George Bush e Barack Obama abbiano permesso che le bandiere dell’ISIS si issassero sull’Iraq e la Siria, prima di spargere sangue in tutto il mondo.
Sulla base di informazioni ad altri inaccessibili, ottenute sia da fonti giordane che della CIA, Warrick tesse un’avvincente e dettagliata cronaca – attimo dopo atti-mo, fatto dopo fatto – della nascita e crescita di un mostro che ha adepti in tutto il mondo, e che sta colpendo tanto l’Europa e gli Stati Uniti, quanto l’area mediorientale e oltre. Una storia raccontata dal punto di vista di spie, diplomatici, agenti dei servizi segreti, generali e capi di stato, molti dei quali compresero in anticipo la minaccia, ne intravidero la maggiore pericolosità rispetto a quella di al-Qaida, cercarono di arrestarne in tempo la violenza, ma non vennero ascoltati.
Bandiere nere rivela in modo definitivo, avvincente e accessibile il lungo arco di vicende che ha portato alla costituzione della trama terroristica più pericolosa che l’Occidente abbia mai conosciuto.

Joby Warrick, dopo aver collaborato con diverse testate americane, dal 1996 lavora come reporter per The Washington Post. È stato insignito due volte del Premio Pulitzer, per la sua attività giornalistica e per Bandiere nere. La nascita dell’ISIS. Da questo libro è tratta l’omonima serie con Bradley Cooper in produzione per la HBO.

Il fenomeno jihadista in bilico tra presente e futuro 
Scaffale. «Bandiere nere», Il libro sull’Isis di Joby Warrick, dall’inchiesta che gli è valsa un Pulitzer 
Guido Caldiron Manifesto 5.7.2017, 19:09 
Nella corposa inchiesta che gli è valsa la conquista del Pulitzer lo scorso anno, Bandiere nere. La nascita dell’Isis (La nave di Teseo, pp. 606, euro 22), il giornalista statunitense Joby Warrick indaga le condizioni che hanno reso possibile lo sviluppo dell’Isis per comprendere cosa tale vicenda possa dirci sul futuro del fenomeno jihadista. 
AL DI LÀ DELL’ARTICOLATA ricostruzione storica dei fatti e delle scelte politiche che hanno permesso se non agevolato la nascita dello Stato Islamico – dall’Afghanistan dei talebani alla lunga occupazione americana dell’Iraq fino al sostegno offerto dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia ai gruppi radicali islamici in seno all’insurrezione popolare siriana contro il regime di Bashar al-Assad -, Warrick analizza le motivazioni personali, oltre al contesto sociale e culturale nel quale hanno agito, di quanti hanno scelto di aderire, e in alcuni casi di guidare, tale organizzazione. Restituendo così al lettore la prospettiva in soggettiva della vita di un «quadro» della jihad, oltre ad alcuni dei temi ricorrenti in questa esperienza. 
EMERGONO COSÌ i ritratti di alcune figure principali, ma anche uno schema psicologico e culturale ben più ampio. Da Abu Musab al-Zarqawi, il giordano, ucciso da un missile americano nel 2006, che da piccolo criminale diverrà l’artefice della strategia stragista a colpi di autobomba e di decapitazioni che avrebbe condotto alla formazione dello Stato Islamico. A Abu Bakr al-Baghdadi, studente di teologia islamica, figlio di un imam iracheno, che nel 2014 avrebbe proclamato la rinascita del Califfato nella moschea al-Nuri di Mosul. 
PER ENTRAMBI, diversi tra loro quanto a indole e retroterra sociale, risulterà decisiva l’esperienza del carcere. Del resto, come spiega nel libro il ricercatore libanese Rami al-Khouri, «la radicalizzazione di molti di coloro che crearono al-Qaida e poi l’Isis è avvenuta nelle prigioni arabe. La combinazione di jet americani e prigioni arabe è stata il fulcro decisivo intorno a cui hanno potuto germogliare queste organizzazioni». Palestra d’odio, ma anche di disciplina e di formazione ideologica, la prigione farà di Zarqawi un «soldato politico» determinato e pronto ad ogni sorta di violenza, mentre Baghdadi forgerà in quel contesto il proprio profilo di leader politico-religioso. 
Allo stesso modo, anche per le nuove leve del circuito jihadista, i foreign fighters tornati in Europa dopo aver combattuto in Siria e Iraq o quanti, sempre più spesso anche individui isolati o provenienti dal circuito della piccola delinquenza, traggono semplicemente ispirazione dalle gesta dell’Isis, è il carcere a fungere da laboratorio per una sorta di socializzazione politico-religiosa. 
Così, «come Zarqawi e i suoi discepoli anni prima erano delinquenti di strada che adottavano un rigido codice religioso per ottenere l’ammissione in una banda ancora più dura, quella degli jihadisti», suggerisce Warrick, anche una figura come quella di Abdelhamid Abaaoud, il giovane belga considerato tra gli organizzatori della strage del Bataclan del novembre del 2015, avrebbe compiuto in prigione il passo decisivo in direzione della jihad. 
NELLE STORIE dei «fondatori» dell’organizzazione, come in quelle dei «volontari europei» dell’Isis e di molti degli attentatori più recenti, strettamente legati a questi primi elementi appaiono poi altre due caratteristiche. La prospettiva che lo Stato Islamico, ma in senso più lato il «circuito jihadista», «offra una nuova legittimità alla rivolta contro la società che molti esprimevano in precedenza nelle attività criminali e nel ricorso costante alla violenza», e che nell’adesione a tali idee si insegua in qualche modo una sorta di «purificazione» rispetto alla propria vita precedente. 
UN CASO, QUEST’ULTIMO, evidente fin dalla vicenda di Zarqawi, per certi versi «l’inventore» del brand Isis, del quale uno dei suoi accoliti racconta che «il suo passato di criminale lo affliggeva, come lottasse sempre con il senso di colpa». E che pare spiegasse la sua scelta jihadista con queste parole: «a causa di ciò che ho fatto in passato niente potrebbe spingere Allah a perdonarmi a meno che io non diventi uno shahid, un martire».

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