sabato 16 dicembre 2017

Ricordo di Giampiero Carocci


La tensione all’utopia di uno storico spregiudicato 
Ritratti. La scomparsa di Giampiero Carocci, studioso quasi centenario che, nei suoi numerosi libri, indagò l'Italia dall'Unità ad oggi, con grande rigore critico e originalità

Gianpasquale Santomassimo Manifesto 15.12.2017, 0:04 
Uomo mite e generoso, Giampiero Carocci si è spento quasi centenario. Era stato uno degli storici più dotati della sua generazione, ma aveva rinunciato del tutto alla carriera universitaria a cui era stato avviato dal suo maestro Carlo Morandi. Era conversatore affabile, ma come per un altro grande irregolare della cultura italiana, Sebastiano Timpanaro, aveva giocato un ruolo decisivo in questa rinuncia il timor panico del parlare in pubblico. Dal suo maestro aveva acquisito quella che definiva «una forma mentis di osservatore» e l’eleganza della scrittura. 
ALLA STORIA ERA ARRIVATO muovendo dall’esperienza della guerra e della prigionia, narrata ne Il campo degli ufficiali del 1954, che è uno dei libri più belli di memoria della seconda guerra mondiale. Si era formato in un ambiente di antifascismo borghese, sotto l’influsso del fratello Alberto, grande organizzatore di cultura (da Solaria del 1926 a Nuovi Argomenti del 1953), e aveva pubblicato i suoi primi scritti sulla Riforma letteraria che il fratello dirigeva con Giacomo Noventa, personaggio originale di una cultura cattolica tormentata, rivista che aveva offerto le sue pagine a giovani come Franco Fortini, Geno Pampaloni, Giorgio Spini. 
IN UNA LUNGA conversazione autobiografica che ebbe con suo nipote Giovanni Contini e con chi scrive (pubblicata su Passato e presente, 2001, n. 53), Carocci riconosceva il carattere elitario di quell’antifascismo, privo di una dimensione sociale, e affermava, con una notazione di grande spregiudicatezza, che era sbagliato «dividere in modo un po’ rigido e schematico tra chi era fascista e chi era antifascista, mentre allora fascisti e antifascisti vivevano insieme. Non solo, ma c’era dentro ciascuno di noi, di noi diciamo antifascisti, anche qualcosa di fascista».
Proprio la riflessione sulla storia italiana, sui suoi caratteri di arretratezza e sui limiti delle classi dirigenti, sarebbe stata al centro della sua riflessione più costante, inaugurata da interventi di grande attualità nelle prime annate di Belfagor. Fu uno dei primi interpreti di Gramsci, con un saggio uscito dopo la pubblicazione dei primi Quaderni, intitolato Un intellettuale tra Croce e Lenin. Ancora più precoce fu il primo saggio storico su Togliatti, uscito nel 1948 subito dopo l’attentato, tema su cui sarebbe tornato all’inizio degli anni Sessanta con un celebre scritto su Togliatti e la Resistenza, di raro equilibrio critico. 
ERA DIVENUTO un funzionario di alto livello del Ministero degli affari esteri, addetto alla commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici. Fu il primo a studiare sui documenti d’archivio la politica della sinistra storica (Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, 1956) e poi a curare alcuni volumi delle carte di Giovanni Giolitti. Di lì trasse un denso libretto su Giolitti e l’età giolittiana (1961). Con Claudio Pavone e Piero D’Angiolini curò per l’Insmli l’edizione critica dei documenti delle Brigate Garibaldi.
Nel 1975 scrisse un libro fortunato e discusso, la Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, originale interpretazione a cavallo fra tradizione gobettiana e punto di vista marxista, una intersezione nella quale, al di là delle etichette, confluivano molti storici. Si era già affermato allora come autore di opere di sintesi, che smentivano il luogo comune che voleva gli storici italiani incapaci di scrivere opere chiare e leggibili, senza le banalità e le semplificazioni della divulgazione giornalistica.
In particolare aveva dedicato al fascismo le sue sintesi più ricorrenti e tormentate, oltre all’opera fondamentale sui primi anni della politica estera del regime (La politica estera dell’Italia fascista. 1925-1928, 1969). Delle molte edizioni, corrette, ampliate o rimaneggiate, della sua Storia del fascismo probabilmente la migliore rimane l’edizione più agile del 1959, dove in anticipo rispetto a tutti gli studi e i dibattiti successivi faceva la sua comparsa il tema del consenso e del rapporto complesso tra il regime e gli italiani. 
DI RARA CHIAREZZA è anche la sua sintesi su L’età dell’imperialismo (1870-1918) pubblicata nel 1979. Dopo l’Ottantanove e il crollo del comunismo tornò con punti di vista nuovi e talora più malinconici su temi già portanti della sua riflessione, come Il trasformismo dall’unità ad oggi (1992), e Destra e sinistra nella storia d’Italia (2002) e riscoprì anche un rapporto latente con la tradizione azionista che aveva sempre interiormente combattuto (Il Mondo: antologia di una rivista scomoda, 1997).
Retrospettivamente era molto severo, di là del giusto, con l’operato della generazione di studiosi marxisti di cui aveva fatto parte, per il classismo esasperato del giudizio sulla classe dirigente e per l’eccessiva politicità (che in realtà poteva essere fattore di accecamento, ma anche stimolo che faceva scoprire realtà impossibili da scorgere prima), mentre era sicuramente equilibrato il rilievo sulla perdita di dimensioni più ampie che la politicità aveva fatto smarrire.
Di quel passato salvava e rivalutava, in contrasto con lo spirito del tempo, la tensione all’utopia. «Io l’utopia invece la rivaluto. Proprio perché la patria è perduta salvo l’anima. Per me l’utopia è importante come la realtà».

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