sabato 5 maggio 2018

"Il sogno di una cosa": il libro di Alberto Burgio su Marx

Il sogno di una cosa
Finalmente un libro serio e importante - un libro che rimarrà, come quello su Gramsci - per questo duecentenario. Finalmente a parlare di Marx è un marxista [SGA].

Alberto Burgio: Il sogno di una cosa. Per Marx, DeriveApprodi

Risvolto
La filosofia non esaurisce il discorso di Marx, ma nulla della sua impresa teorica si potrebbe comprendere senza rintracciarne i presupposti filosofici.

Si tratta di partire da qui – dalla sua buona educazione hegeliana – per poi seguire il dipanarsi dei principali nodi filosofici nelle teorie di interpreti e continuatori.

Sempre che non si assuma che di Marx non valga più la pena di occuparsi.
Che egli sia ormai un «cane morto», oltre che, naturalmente, il capostipite di una tradizione maledetta, responsabile di rivoluzioni sanguinose e vane e di alcuni tra i più feroci totalitarismi del Novecento.
Eppure di Marx, a duecento anni dalla nascita, non ci si libera facilmente.
È più probabile che, accantonando per un momento la polemica immediata, si debba riconoscere che siamo tutti suoi figli.
Che tutti parliamo ancora una lingua da lui plasmata. Che pensiamo, forse senza saperlo, con idee formatesi lungo il suo percorso intellettuale.
È probabile che ci si debba finalmente rassegnare al fatto che «non possiamo non dirci marxisti».

La feconda storia di un lessico critico 
Tra passato e presente. Un'anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa. Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice

Alberto Burgio Manifesto 4.5.2018, 0:04 
Nello schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni borghesi, un processo di transizione da una «formazione economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne – in capo a uno svolgimento di lungo periodo – lo scardinamento e la sostituzione da parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo di produzione». (…) Questa pagina della «Prefazione» del ’59, oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve. 
UNA POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la (apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali». (…)
Hannah Arendt, la studiosa delle rivoluzioni e della «condizione umana», sostiene per esempio che, prendendo «a prestito» da Hegel «l’idea secondo cui ogni vecchia società contiene i semi delle successive», Marx affermi la «sempiterna continuità del progresso nella storia». Lo stesso Debord, per solito concorde senza riserve con la posizione marxiana, ritiene che lo sforzo di legittimare l’aspirazione rivoluzionaria della classe operaia evocando rivoluzioni già avvenute (a cominciare da quelle borghesi) «offuschi, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione» (…). 
UN’ALTRA CRITICA, connessa con questa, prende di mira le implicazioni del suo (presunto) economicismo. La stessa Arendt rivolge a Marx proprio questa critica. Convinta della superiorità dell’agire politico (l’unico a suo giudizio degno dell’essere umano), vede nell’analisi marxiana una manifestazione della patologia della modernità consistente nell’esaltazione della dimensione produttiva del lavoro umano e nella conseguente tragica illusione demiurgica che la prosperità materiale e lo sviluppo tecnico siano garanzie di progresso. (…)
Questa critica costituisce in una qualche misura un corollario integrativo della prima in quanto esplicita il presupposto del naturalismo imputato a Marx. Il quale paradossalmente assolutizzerebbe la realtà borghese perché «travolto», al pari di altri grandi interpreti della modernizzazione (Locke e Adam Smith), «dalla produttività senza precedenti del mondo occidentale». (…) 
SI TRATTA DI ARGOMENTAZIONI a prima vista fondate. (…) È tuttavia inverosimile che proprio Marx abbia potuto «perdere di vista» quella specificità della borghesia e del capitalismo che, prima di chiunque altro, ha colto e analizzato. (…) Bisogna quindi cercare di capire come e perché la precisa percezione della cesura storica prodotta dalla dominanza del rapporto sociale capitalistico non impedisca a Marx di «assumere come fondamento di tutta la storia» – così l’Ideologia tedesca – l’ambito delle relazioni connesse alla «produzione materiale della vita immediata». Forse una spiegazione di questa apparente inconseguenza c’è, meno complicata di quanto si possa immaginare. 
MARX PENSA che in ogni epoca storica lo svolgimento delle attività attraverso cui le società umane si riproducono generi effetti decisivi ai fini della costruzione (e della specifica configurazione) della forma sociale complessiva (…). Al tempo stesso, segnala che la borghesia è l’unica classe sociale che dell’attività produttiva fa (con crescente consapevolezza) il cuore della propria identità, della propria cultura, del proprio mondo, della propria azione storica. A ben guardare, non vi è contraddizione tra le due tesi, poiché la prima concerne un aspetto oggettivo (la logica generale dello sviluppo storico in relazione alla quale il momento economico marca quella che Lukács definisce una «priorità ontologica»); la seconda, aspetti soggettivi (gli stili di vita e la mentalità specifici della borghesia). Se la centralità del produrre è «oggettivamente» una costante dell’intero processo (un fattore «trans-storico» invariante), essa compie un salto di qualità nella modernità in quanto nella «formazione economico-sociale» borghese (capitalistica) l’insieme delle attività produttive diviene «anche soggettivamente» l’epicentro della vita individuale e collettiva, la principale fonte di senso e di valore dell’esistenza.
Quel che conta – se questa interpretazione è corretta – è cogliere l’intuizione sottesa a questa posizione. Con ogni probabilità Marx intende sostenere che la borghesia sia il primo soggetto sociale la cui cultura materiale e il cui mondo simbolico e valoriale coincidono con la logica oggettiva dello sviluppo storico. Mentre faraoni, imperatori e sovrani competevano per la potenza militare e per l’onore, dal XV secolo e con crescente coerenza ed efficacia mercanti e banchieri, maestri d’arte e capitani d’industria competono invece per il profitto e per l’espansione dei propri imperi economici, col vantaggio non trascurabile di consacrare ogni sforzo all’attività «in ultima istanza» determinante ai fini della dinamica sociale. Non è improbabile che tale sintonia tra fattori soggettivi e oggettivi abbia contribuito in misura rilevante alla particolare duttilità e resistenza del potere borghese: al suo dinamismo e alla sua capacità di adattamento. 
RIMANE DA SPIEGARE perché mai Marx privilegi il terreno delle attività produttive, al punto di ritenerle in ogni epoca decisive ai fini della configurazione delle forme di vita sociali. (…) Che Marx ponga il «produrre» al centro della dinamica storica è innegabile. Che ciò consegua alla sopravvalutazione della dimensione economica sembrerebbe altrettanto evidente. (…) Nondimeno, l’accusa di economicismo in generale e le argomentazioni arendtiane in particolare trascurano un aspetto cruciale del problema e affrontano quest’ultimo sulla base di una petizione di principio.
Come abbiamo visto, nel riflettere sulla logica del processo storico Marx parla di «attività produttiva», non soltanto di economia. Parla di lavoro, non certo esclusivamente di merci e scambi mercantili. Ciò non deve sembrare casuale né banale, poiché questa scelta lessicale riflette un aspetto teorico di primaria importanza. Essa è indice del fatto che l’ipotesi storico-materialistica pone al centro – rovesciando, a guardar bene, la prospettiva economicistica – la complessità e la ricchezza specifiche (benché di norma soltanto potenziali) del produrre umano: precisamente il suo (virtuale) eccedere l’ambito ristretto (economico) dell’elaborazione materiale dei mezzi di sussistenza e degli strumenti utili a garantire il dominio dell’uomo sulla natura.
Per Marx – qui più che mai attento alla lezione hegeliana – la «produzione» è anche costruzione di conoscenze e abilità, di pensieri e strategie pratiche. È di certo anche «necessità» imposta dalla natura, dalla dinamica di riproduzione della vita; ma è altresì elaborazione di soggettività nei diversi ambiti in cui gli esseri umani hanno modo di esprimersi, agire e interagire. Quindi anche produzione di rapporti sociali. (…) 
ASSISTIAMO COSÌ, come accade quando non si intende la cifra critica di un’argomentazione, a un interessante paradosso. L’estensione e valorizzazione della categoria di «produzione» e la sua collocazione al centro della dinamica storica sono, nella prospettiva di Marx, mosse critiche decisive. Volte a fare emergere, in generale, la brutale mortificazione imposta al lavoro umano nel corso dell’intero sviluppo storico e, in particolare, la reificazione del lavoro subordinato nella società moderna. Non comprendere il senso di questo gesto comporta una serie di conseguenze imbarazzanti.
Non solo implica che si fraintenda di sana pianta l’intenzione critica sottesa al paradigma storico-materialistico. Non soltanto comporta l’attribuzione a Marx – a dir poco implausibile – di quegli stessi errori (il naturalismo, il riduzionismo, il determinismo economicistico) che Marx per primo e con ineguagliata potenza critica ha individuato al fondamento della tradizione economico-politica. Ma soprattutto impedisce di lavorare produttivamente nel solco della sua ricerca e di metterne a valore la potenzialità critica ancora inespressa.


I destini incrociati di Karl Marx 
Bicentenari. La lunga stagione di una indagine teorica e di un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. La locuzione ricorrente secondo cui «Il capitale» sarebbe stato la «Bibbia» del movimento operaio è falsa e vera. Niente era più estraneo agli intendimenti del filosofo di Treviri 

Paolo Favilli Manifesto 5.5.2018, 0:05 
L’8 maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno parigino organizzato dall’Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le università del mondo, si propone di intrattenere un dialogo cortese, dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di non rispettare affatto questa consegna». 
IN EFFETTI LO SCENARIO delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu, direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e pensiero». 
Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso, ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968. Tra l’altro il clima del 1968 non fu per niente determinante su un evento che proprio per il suo gigantismo aveva avuto una lunga e precedente preparazione.
Nel nostro contesto odierno forse Marx è meno «attuale», rispetto a quello degli anni Sessanta del Novecento? Se l’attualità consiste nella capacità di spiegazione dei meccanismi profondi caratterizzanti le fasi di accumulazioni in atto, ebbene le categorie marxiane sono certamente più attuali oggi che nell’«età dell’oro». 
LE TENDENZE GENERALI dell’accumulazione che avvengono in una fase in cui il modo di produzione capitalistico può svilupparsi senza antitesi, come nei nostri tempi, sono in particolare consonanza con la costruzione analitica de Il capitale. Una consonanza senz’altro molto minore le stesse categorie l’avevano rispetto alle possibilità esplicative del capitalismo civilizzato (in Occidente) durante i «trenta gloriosi». Eppure in questo nostro tempo un’iniziativa dell’Unesco come quella di cinquant’anni fa appare del tutto impensabile. 
Proviamo a ragionare sull’apparente paradosso di un complesso teorico assai poco operativamente diffuso in un contesto assai favorevole per le sue possibilità euristiche, ed invece particolarmente pervasivo in età in cui pareva esser contraddittorio con le magnifiche sorti e progressive di un neocapitalismo sempre più democratico. 
La distinzione tra «marxiano» e «marxista», la continua ripetizione della nota frase di Marx: «Io non sono marxista», hanno una storia molto lunga e sono ormai luoghi comuni, ma dal punto di vista dell’indagine teorica hanno anche ragioni determinanti per essere utilizzate nell’indagine critica interna all’opera del pensatore di Treviri. 

L’ESAME TESTUALE di tale opera dimostra con chiarezza che egli non si sentì mai fondatore e capo di un qualche «marxismo». «Sistemi» e «ismi» erano contraddittori con il carattere critico-demistificante del suo metodo di lavoro. Al professore tedesco di economia Adolph Wagner, che aveva scritto a proposito del «sistema socialista» (sozialistisches System) di Marx, rispose seccamente ch’egli non aveva mai costruito un «sistema socialista» e che quelle di Wagner erano solo «fantasie». Inoltre non è certo un caso che ne Il capitale non compaia mai il termine «capitalismo». 

Nello stesso tempo, però, egli ha sempre considerato il suo lavoro «scientifico» come momento imprescindibile di un programma di organizzazione pratico-intellettuale. Nel periodo in cui si trovò di fatto ad essere il punto di riferimento principale dell’Internazionale combatté» tutte le «sette», fossero «socialiste», «marxiste» o altro. Ma contemporaneamente i documenti che definivano i caratteri dell’Internazionale erano tutti orientati dalle sue categorie di pensiero. E tutta la sua opera-capolavoro, rigorosamente scientifica, era concepita, lo disse esplicitamente, anche come «il missile più terribile che sia stato ancora scagliato contro i capi della borghesia (proprietari terrieri inclusi)».
Nella tensione tra questi due poli, quello della scienza e quello del ruolo della scienza per l’emancipazione dei subalterni, si definisce un campo di destini incrociati. Non perché il secondo sia la verifica del primo, ma perché comunque è un indicatore delle forme della sua fortuna. Anche se tali forme non derivano dalla scienza, ne condizionano l’immagine politico-culturale esterna alla ristretta cerchia degli specialisti, e qualche volta anche all’interno di quella che viene chiamata «comunità scientifica». 
LA LOCUZIONE RICORRENTE nella pubblicistica secondo la quale Il capitale sarebbe stata la «Bibbia» del movimento operaio e socialista, è, insieme, falsa e vera. Falsa nel marxismo secondo testi e filologia testuale. Niente era più estraneo agli intendimenti di Marx, e soprattutto alla sua metodologia scientifica, della logica del libro sacro. Vera, in parte non marginale, nei processi reali di un movimento che aveva bisogno della conferma «scientifica» per la garanzia, «in ultima istanza», del proprio «giusto» operare nella storia. Alla fine dell’Ottocento, al momento cioè dell’incontro tra categorie marxiane e movimento operaio, poteva succedere che la pubblicistica operaia costruisse teorie «marxiste» del salario del tutto contraddittorie con quelle «marxiane». Eppure si trattava di un momento di crescita e di consapevolezza di sé dell’organizzazione. 
Dall’ultimo quarto del XIX secolo a gran parte del XX il «marxismo» assume forme strutturate. Prima in organizzazioni di resistenza e partiti politici, poi addirittura in «Stati marxisti». Vere e proprie potenze insomma, senza le quali non sarebbe spiegabile il gigantismo del convegno Unesco del 1968. 
STRUTTURATO o non strutturato il marxismo fuori dai testi di Marx rimane un momento imprescindibile per un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. Il fatto è che al Capitale resta stretta la definizione di «classico». Nel 1981 Italo Calvino si esercitò a definire un classico in 14 proposizioni. Il capitale può rientrare in tutte le definizioni, ma solo parzialmente, perché tutte quante presuppongono un’atmosfera pacificata nello svolgimento della lettura e della riflessione del testo. Quel testo, invece, rimane, e rimarrà per tutta l’età caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, il «missile terribile» evocato da Marx. 
Il marxismo «potenza», il «marxismo politico» è scomparso alla fine del Novecento, e senza tale dimensione anche la filologia marxiana rischia di diventare solo un affare analitico per professori. I modi in cui alla fine dell’Ottocento avvenne l’incontro del movimento operaio con le varie «forme» marxismo sono oggi irripetibili. Tra le molte e rilevanti differenze di contesto, su una dobbiamo appuntare in particolare la nostra attenzione: allora furono più il movimento, le organizzazioni di resistenza, ad andare verso la teoria che l’inverso. Nel momento attuale è al «marxismo politico» che sembra spettare l’onere di una ricomposizione. Naturalmente in forme diverse, in forme nuove. 
LA CATEGORIA DEL «NUOVO» è cosa seria, ma nel dibattito politico, e non solo, viene utilizzata alla maniera su cui ha ironizzato il grande storico economico Ruggiero Romano: il nuovo non tanto come veramente nuovo, bensì come «novello» al pari del beaujolais (o del chianti). Certamente non ci si avvicina ai corrieri in bici di Foodora tramite citazioni di Marx. Se però si riflette bene sui capitoli relativi alla giornata lavorativa del I libro de Il capitale, si possono cogliere le ragioni di fondo, nella logica dell’accumulazione nel nostro tempo, della necessità di tali rapporti di lavoro. E su tale base, magari, elaborare categorie politiche «nuove» davvero.
In tale prospettiva alla nostra cultura, alla nostra politica, non basta, parafrasando Croce, rifugiarsi nella generica formulazione del «non possiamo non definirci marxisti». Bisogna entrare direttamente nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica.

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