lunedì 25 giugno 2018

Torna il "Campalans" di Max Aub


Max Aub: Jusep Torres Campalans, Theoria

Risvolto

Durante un viaggio in Messico nel 1955, Max Aub incontra un anziano signore che si fa chiamare Don Jusepe. E un ex pittore cubista, ma ora ha smesso di dipingere. Ha vissuto a Parigi nei primi decenni del secolo ed è stato amico di Picasso e della sua cerchia. Si è reso protagonista di avventure inenarrabili e di eclatanti provocazioni. Aub decide d'intervistarlo e di raccogliere quanto più materiale possibile allo scopo di raccontare per intero la sua storia, recandosi a Parigi e incontrando alcuni dei grandi protagonisti di quell'epoca inquieta e densa di fermenti artistici e intellettuali. Ma è tutto falso. All'uscita del libro, i critici, prendendola per la biografia di un pittore catalano realmente esistito, scatenano una caccia all'uomo. Tutti vogliono conoscere Campalans, proprio mentre a New York si celebra una mostra che espone i suoi quadri (in realtà dipinti da Aub stesso e dalla nipotina). Prefazione di Panella Giuseppe.
             


Dal genio di Max Aub una burla colossale 

Francesca Lazzarato Alias Domenica 24.6.2018, 6:00 
Nel giugno del 1958, il quotidiano messicano Excélsior pubblicò sette articoli in cui annunciava l’inaugurazione di una mostra insolita, dedicata al defunto pittore catalano Jusep Torres Campalans e curata da Max Aub, scrittore nato nel 1903 a Parigi in una famiglia ebrea di origine tedesca e cresciuto in Spagna, fuggito in Francia dopo la sconfitta della Repubblica e infine esiliato in Messico, dove sarebbe morto nel 1972. Aub sosteneva di aver conosciuto Campalans nel Chiapas, dove il pittore viveva da quarant’anni tra gli indios chamulas, e che due lunghi colloqui con quel vecchio bizzarro, catalanista convinto, anarchico e fervente cattolico, lo avevano indotto a indagare su un personaggio intimamente legato alle avanguardie del primo Novecento, eppure del tutto sconosciuto. Così, grazie a lunghe e pazienti ricerche, aveva raccolto materiali sufficienti a confezionare un corposo volume pubblicato dal Fondo de Cultura Económica, ed era fortunosamente venuto in possesso delle opere scampate alla distruzione da parte dell’artista, deciso non solo a scomparire, ma anche a cancellare la propria pittura. 
Commenti entusiasti
La riscoperta di Campalans venne considerata un «anello mancante», capace di chiarire la genesi del cubismo, il libro andò a ruba, i commenti entusiasti di celebri intellettuali apparvero su una rivista letteraria… finché Aub, insieme ad alcuni complici (per esempio Jaime García Terres e Carlos Fuentes, i veri estensori delle note pubblicate dalla rivista), svelò che si trattava di un falso perfetto, dalla verosimiglianza priva di fessure. Quadri e disegni erano opera sua, ai genitori del pittore prestavano il volto due comparse del film Sierra de Teruel, girato nel 1938 da André Malraux con Aub come aiuto regista, l’istantanea di Campalans con l’amico Picasso era un fotomontaggio, la biografia e i dotti paratesti erano un’inestricabile mescolanza di pura finzione e di fatti, personaggi e citazioni autentici. Jusep Torres Campalans era esistito ed esisteva solo in quello che Aub, anni dopo, definì «semplicemente un romanzo». Tra l’indignazione di pochi e le reazioni divertite e stupefatte dei più, per l’autore si profilò rapidamente un successo internazionale e il libro fu tradotto in mezzo mondo (la prima a proporlo, nel 1961, fu Gallimard), per non parlare di nuove mostre dei falsi Campalans, come quella alla Bodley Gallery di New York nel 1962. 
A suo tempo Jusep Torres Campalans si è affacciato anche in Italia, prima nei Quaderni della Medusa mondadoriani (1963), poi nel catalogo Sellerio (1992), fino alla recentissima edizione di Theoria (traduzione di Andrea Russo, pp. 349, euro 18,00) che prelude alla pubblicazione, da parte del medesimo editore, dei diari di Aub, e segue quella dell’antologia Gennaio senza nome, uscita l’anno scorso presso Nutrimenti, a conferma del rinnovato interesse nei confronti di un autore dalla statura di classico, la cui vastissima opera è in buona parte inedita nel nostro paese. 
Nella narrativa di Aub (che fu anche giornalista, poeta, saggista, sceneggiatore e soprattutto drammaturgo) si usa distinguere stagioni diverse: quella precedente alla caduta della Repubblica, che rimanda all’avanguardia e all’«arte pura»; quella legata all’esilio, che ha prodotto un’intensa letteratura testimoniale, come i sei romanzi sulla guerra civile del ciclo El laberinto magico; e infine quella che, a partire dagli anni Cinquanta , vede intensificarsi l’esercizio dell’immaginazione e di un tenace umorismo, spesso dispiegati in apocrifi che, al di là della componente giocosa, esprimono in altre forme una militanza irrinunciabile, là dove il discorso politico, la devozione alla memoria, la critica sociale si insinuano tra gli ingranaggi di quello che Veronica Orazi, attenta studiosa di Aub, definisce «un falso proteiforme: sia formale sia contenutistico, letterario, artistico, storico, che rivela una volontà radicale di sovvertire l’ordine comune delle cose, della storia». 
Con Jusep Torres Campalans, in particolare, Aub ha rinnovato il genere della biografia immaginaria, portandolo a un livello di perfezione mai eguagliato: un libro diviso in sette parti che non nasconde gli intenti parodici verso le convenzioni narrative di certi generi letterari (dal romanzo sentimentale a quello poliziesco, realista o filosofico, fino al giornalismo), composto da un «Prologo», da dottissimi «Ringraziamenti» a personalità illustri, da dettagliati «Annali» sul contesto politico, sociale e culturale dei primi ventotto anni della vita di Campalans, nato nel 1886, sino alla «fuga» in Messico. A seguire, la movimentata «Biografia» in cui si disegna l’effervescente atmosfera della Barcellona inizio secolo, dove Jusep conosce gli artisti suoi contemporanei e scopre l’anarchia (compare, tra le opere, un Boceto para Francisco Ferrer, condannato a morte dopo la Semana Trágica del 1909), per poi trasferirsi a Parigi e rinunciare infine a tutto e a tutti, scegliendo la natura e la spontaneità di terre lontane, come un Gauguin o un Artaud; concludono il volume il prezioso «Quaderno verde» in cui Campalans annota amori e disamori, incontri e scontri con la colonia artistica parigina, ed espone, a volte sotto forma di brevi aforismi o di giudizi sanguinosi, le sue teorie estetiche, sulle quali tornerà nelle lunghe «Conversazioni» con Aub, prima del settimo e ultimo capitolo, che contiene un accurato catalogo delle opere, riprodotte come in una monografia d’arte, adottando il formato, il tipo di carta e i caratteri della collana Le goût de notre temps, della celebre casa editrice fondata da Albert Skira. 
Una falsificazione estetica – ancora una parodia, oppure un’ammirata citazione? –, inscindibile da quella testuale, che verrà mantenuta solo nelle edizioni Gallimard e Doubleday, mentre le successive stravolgeranno il rapporto forma-contenuto, cambiando formato e grafica, riducendo le immagini, sopprimendo il colore e snaturando l’artefatto di Aub, come avviene anche nell’edizione Theoria che, pur avendo il merito di riscattare un libro troppo a lungo dimenticato, spaccia indecifrabili macchie di inchiostro per riproduzioni in bianco e nero. 
Un fantastico collage
La credibilità del testo, tuttavia, risulta pur sempre inattaccabile e sollecita la partecipazione attiva di un lettore consapevole del fatto che l’autore non domanda complicità, ma allestisce continue trappole e lo sfida a ricomporre un puzzle cubista dove tutto viene rappresentato non com’è, ma come lo si vede. 
E, mentre cerca di districarsi tra realtà e finzione, chi legge si renderà conto a poco a poco che l’eccezionale sfoggio di tecniche narrative, di competenza critica e di talento satirico, in un racconto articolato in dozzine di sottotesti e in una stupefacente pluralità di voci e generi, non mira solo all’elaborazione di una burla colossale. Perché in Jusep Torres Campalans Aub crea un ritratto-tipo dell’artista novecentesco servendosi di una messa in scena interdisciplinare (un fantastico collage ricavato da dozzine di immagini reali, da materiali di ogni tipo, da molteplici testimonianze), e allo stesso tempo evoca e anticipa la frammentarietà dell’esperienza e la difficoltà di accedere al reale, suggerendo già in epigrafe una domanda rivelatrice, attribuita all’inesistente Santiago de Alvarado: «Come può esserci verità senza bugia?».

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