domenica 26 gennaio 2020

L'Empedocle di Giorgio Colli. Il parere del Professor Katechon

Risultati immagini per colli empedocleEmpedocle La Natura è amore-odio 
di Massimo Cacciari Robinson 25 1 2020
Le lezioni su Empedocle tenute nel ’ 48- 49, edite ora da Adelphi, coeve alla pubblicazione de La natura ama nascondersi ( come suona il famoso enigma eracliteo), in cui il capitolo sull’agrigentino svolge una funzione centrale, mostrano anzitutto quale cura filologica e quanta erudizione non sedentaria stiano alla base della radicale “ricollocazione” operata da Giorgio Colli ( 1917- 1979) del pensiero greco tra VI e V secolo, prima della svolta socratico-platonica.
La “ sapienza greca”, nelle sue diverse voci, ricompresa da Colli in conflitto con la successiva filosofia, non è ricostruzione che nasca da una visione autonoma dell’autore applicata surrettiziamente al materiale storico, come spesso la “accademia” ha ritenuto, ma si presenta, e proprio qui a proposito di Empedocle con la massima evidenza, metodico commento, lento pede, dei frammenti e delle testimonianze pervenuteci. La passione che con altrettanta evidenza Colli prova per i suoi “sapienti”, e per questo in particolare, non fa velo alla chiarezza della sua analisi, ne rafforza, anzi, il valore.
Lo studio della parola dei “ sapienti” dimostra che su un punto capitale l’interpretazione che la filosofia ne ha offerto costituisce un parricidio. La physis, la natura, di cui essi parlano non ha nulla di naturalistico — e tuttavia, e insieme, neppure alcunché di “spiritualistico”. Essi sono sì fisiologi, parlano sì della physis,
ma questa assume per loro il senso di principio generante infinito; in quanto generante essa si manifesta nelle realtà sensibili e nel nostro stesso essere senzienti, tuttavia le forme della manifestazione non si identificano nell’Uno del Principio stesso. L’Uno non sta “ al di là” della manifestazione, esiste in essa, dall’Uno vengono i mondi della realtà, ma nessuno di essi può valere come il Principio.
Per intuirlo occorre distaccarsi dall’apparenza — che non significa negarla o crederla illusione, bensì, all’opposto, giungere a spiegarla, a comprenderla, attraverso tutti i mezzi che ci sono dati dalla stessa natura: con ogni nostra facoltà dobbiamo scrutare come ogni cosa si manifesta, e il noos, ciò che malamente traduciamo “ pensiero”, non è che l’unione di tutte le nostre potenze, il « centro di gravità dell’organismo » (Colli). Una separazione tra sfera sensibile e sfera intellettuale non potrebbe qui darsi in alcun modo.
Noi nepioi ( infanti), come Empedocle e gli altri sapienti chiamano i mortali, gli effimeri, seguiamo una potenza piuttosto che un’altra, vediamo sempre la realtà secondo prospettive unilaterali, non cogliamo come l’essenza di ogni cosa stia proprio nel suo congiungersi al Tutto ( Colli). Essenza comune a tutti gli enti, anche a quelli che chiamiamo “ inanimati”. Il nostro noos è troppo debole, e non vedendo che una piccola parte della vita, della propria stessa vita, opina che essa si esaurisca nel lampo di ciò che qui e ora sentiamo e incontriamo, che ciò che nasce nasca dal nulla e debba per necessità distruggersi. Vediamo insomma soltanto il breve tempo dell’apparire fenomenico, non il reale eterno e indistruttibile, per cui non esiste generazione « né un termine di morte » . E reali non sono soltanto gli elementi ingenerati, di cui pure facciamo quotidiana esperienza: fuoco, acqua, terra, aria — reale, e cioè eterna, necessaria, indistruttibile, è la forma secondo cui incessantemente questi elementi si mescolano e si separano, dando vita al molteplice.
Gli elementi divengono, ma è un divenire di eterni — eterno non significa indefinita durata dello stesso, bensì perenne trasformazione di forze e principi ingenerati e incorruttibili. Divina è altresì la forma che questa trasformazione assume: l’alternanza tra la Concordia conciliatrice, Philotes, e l’Odio, Neikos, distruttore. Empedocle dà nomi divini a tutti questi principi per indicare che essi vanno intesi come il Sovrano o la Legge che governa il divenire della totalità degli essenti, e, a un tempo, come non costituiscano, in quanto tali, la Realtà ultima, suprema. Gli dèi infatti si esprimono ancora in una molteplicità di apparenze.
Amore e Odio, mescolanza e separazione, si alternano inseparabilmente. È la complessità irriducibile del mondo fenomenico. E la sua tragedia. Principi che si contrappongono e in qualche modo anche convergono, poiché l’Armonia manifestandosi riduce a uno e dissolve i molti, cosi come l’Odio dissolve quell’unità tra distinti che l’Amore produce. Non è stabile la loro eterna vita. Il tempo è ciclico, la sua signoria si esplica nello svolgere perpetuamente questa alternanza.
Ma oltre essa, oltre il mondo fenomenico, sta l’Armonia non manifesta dello Sfero: serrato, nascosto, compatto, segreto mondo dell’Armonia, dove ogni distinzione viene meno. E qui certamente la memoria dell’Uno parmenideo è formidabile. Noumenica chiama Colli la realtà dello Sfero, avvicinando esplicitamente Empedocle a Schopenhauer, come d’altra parte aveva già fatto quell’altro “ filologo” a lui tanto caro, Nietzsche.
La tragicità dell’infinito conflitto tra Armonia e Odio obbliga il sapiente a cercare la via della liberazione. Il poema mistico ( Katharmoi)
di Empedocle è letto perciò da Colli in stretto rapporto a quello fisico ( Physika). L’esercizio del pensiero si trasfigura in liberazione e purificazione: se nulla si distrugge, gli elementi della vita rinasceranno attraverso il tempo in molteplici forme, e dunque ci è dato anche perseguire quella forma che tende a dissolvere la nostra apparenza fenomenica, avvicinandosi alla Realtà dello stesso Sfero. Questa sarà la vita del sapiente, degli esseri divini, che siedono alla stessa mensa degli dèi immortali, di coloro che sono riusciti ad armonizzare in sé così perfettamente gli elementi e a sentire cosi profondamente la propria unità col Tutto da distaccarsi dall’apparenza e affrancarsi dai lamenti e dalle angosce connesse all’alternanza di Philotes e Neikos.
Soprattutto nel saggio giovanile Anima e immortalità in Empedocle,
Colli segue questa linea interpretativa, in profonda “simpatia” con le pagine che Nietzsche appunto ha dedicato a Empedocle ( che per lui è il filosofo dell’epoca tragica, il contemporaneo di Eschilo), e anche direi con l’immagine che ne emerge dall’opera grandiosa che sulla sua figura Hoelderlin tentò invano di compiere. Hoelderlin esalta in Empedocle, come poi Nietzsche, e ancora Colli, il nemico di ogni esistenza unilaterale, l’individuo in cui proprio la dimensione più interiore si collega indissolubilmente alla natura “ esteriore”. Quanto più potenti sono le facoltà dell’individuo, tanto più esse sentono la propria unità con la natura infinita. Anzi, gli organi stessi del sentire sono potenti tanto più, quanto più sanno esprimere la loro intima appartenenza alla natura degli oggetti che avvertono e conoscono. Gli uomini infatti pensano con gli stessi mezzi che compongono tutte le cose. E allora è “ logico” che l’uomo divino, come nel dramma di Hoelderlin, brami di compiere la propria esistenza « sciogliendola » nell’abbraccio del « padre Etna » ( Colli ritiene plausibile il racconto del suicidio di Empedocle).
Visioni immense — nient’affatto fantastiche. Visioni che sembrano riaffacciarsi nella storia del pensiero. Colli cita gli Eroici furori
di Bruno, e ci permette di godere attraverso la sua lettura anche della straordinaria energia plastica, scultorea della parola empedoclea.
Ma non ritornano queste idee: l’esplodere dell’Uno, dello Sfero originario, il divenire come mescolanza e separazione di elementi eterni — e il “ritorno” all’Uno, all’Armonia non manifesta più forte di ogni connessione sensibile, al termine del Grande Anno —, anche in ciò che pensano le attuali cosmologie? E sono pensieri che senza cancellare le lacrime dell’esistere forse aiutano a non restarne inondati, a sentire che l’esistenza che viviamo non è il tutto, ma una piccola parte della Vita, e che di questa Vita partecipiamo, alla sua immortalità, non destinati a dileguare come il fumo.
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